15.12.16

Franco Fortini e la scommessa «piacentina» (Piergiorgio Bellocchio)

Ho conosciuto Fortini intorno al ’58-'59, quando accettò di venire a Piacenza a parlare ad un circolo culturale che dirigevo con alcuni amici. Dire che cosa ho imparato da Fortini, in che misura la sua opera mi abbia formato e mi abbia costantemente accompagnato, nonostante i contrasti, sarebbe troppo lungo e anche difficile. Tutti coloro che scrivono pensano, consciamente o inconsciamente, a un lettore-giudice. Per quel che mi riguarda, in questa figura ideale, combinazione di più persone ben reali, Fortini è sempre stato presente, e spesso in posizione dominante.
Quando iniziarono i «Quaderni' piacentini». Fortini fu il primo intellettuale di prestigio a dare la sua collaborazione a questa rivistina fondata da giovani affatto sconosciuti, aprendo in un certo senso la strada ad altri, da Cases a Solmi, eccetera. Fu ancora Fortini a fornirci il primo indirizzario di persone a cui mandare la rivista, possibili collaboratori e abbonati.
Tra i testi dell'Ospite ingrato, c’è la Lettera ad amici di Piacenza, a mio parere una delle migliori prove del Fortini politico. Ricordo quando la ricevemmo, nel ’61. Era una lettera circolare ciclostilata, senza titolo, che Fortini aveva inviato a molti amici e compagni di tutt’Italia. Includendola nel 1966 nel libro, Fortini volle darle quel titolo, quasi a riconoscere che tra i molti destinatari forse eravamo stati quelli che meglio l’avevano compresa e messa a frutto. Amo considerare quelle pagine una sorta di ideale introduzione alla rivista, che cominciò a uscire un anno dopo, nel ’62.
L’ultima volta che ho visto Fortini è stato nel luglio scorso nella sua casa di Milano. Era spaventosamente smagrito e ben consapevole del suo stato. Eppure il lungo calvario della malattia, che ormai gli concedeva requie sempre più rara e breve, e la prossimità della morte non ne avevano mutato per nulla l'animo, la passione intellettuale e politica. A parte il tono della voce, più debole, era il Fortini di sempre,acuto, curioso, vivace, polemico.
Le sue osservazioni erano, al solito, molto acute, ma a sorprendermi era soprattutto la sua straordinaria volontà di essere nel presente e di proiettarsi nel futuro. Tanto che non potei fare a meno di confessargli che a me succedeva il fenomeno esattamente opposto. Gli dissi anche che la cosa che più mi premeva era di decidermi a scrivere un saggio sulle Lettere dei condannati a morte della Resistenza... Fu un inciso nella conversazione, che prosegui su altri argomenti. Però, al momento del congedo, mi . disse con un tono affettuosamente imperativo: «Scrivilo, quel saggio sulle lettere della Resistenza...».
Avevo portato con me l'ultima sua raccolta di versi, Composita solvantur, altissimo testamento poetico e morale, per chiedergli una dedica. Prima però volle fare una correzione al testo, e precisamente all’ultimo verso della settima Canzonetta del Golfo, che recita: «Cara meta che non ho». È un errore, disse Fortini, un lapsus. E sostituì «ho» con «so». Non la conosciamo, ma la meta c’è.


L'Unità, 24 novembre 1994

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