7.12.16

Parole al vento. La retorica e l'arte della citazione (Guido Almansi)

Guido Almansi (1931-2001)
C'è una differenza fondamentale tra la critica delle arti visive e dello spettacolo da una parte, e quella letteraria dall'altra; si tratta del diritto alla citazione, che è un privilegio quasi esclusivo di quest'ultima. Se io scrivo su una poesia, o su un romanzo, il modo migliore per esprimere la mia opinione è la citazione, con la quale cerco di convincere il mio lettore della genuinità e della validità del mio entusiasmo o del mio disprezzo. Una tonnellata di giudizi critici, magari suffragati da una fortissima impostazione teorica, non potranno mai avere la forza d'urto di una citazione, se impiegata bene e sostenuta da una presentazione, come dire, fervente.
A quelle anime mediocri che continuano a disprezzare per motivi moralistici la poesia del Seicento, di Giovanbattista Marino per esempio, o a quelle anime pusille che non riconoscono la grandezza sublime della poesia di Montale, basta sbattergli in faccia la citazione; come potete negare la luminosità di quel verso, la seduttività di quella strofa? E, se lo fanno, devono prendersi la responsabilità: non verso un'entità astratta, come la lirica di Marino o la poesia di Montale, ma verso la forza dirompente di quella particolare combinazione di suoni, distorsione di sillabe, trasposizione di concetti che formano la spina dorsale di una poesia.
Sul fronte opposto, se si vuole convincere il lettore o l'ascoltatore della volgarità di un poeta o di uno scrittore, la cosa migliore è sempre citarlo. Io posso proclamare ai quattro venti che Aldo Busi non è uno scrittore, ma queste dichiarazioni generiche non avranno mai l'impatto di una citazione dai suoi libri: quelle dune torride, quegli aggettivi basici della scrittura busica che sono segno lampante della modestia stilistica e della inesistenza estetica del romanziere. Certo, esiste anche la citazione in malafede, fuori contesto, che può per esempio celare brutalmente la coloritura ironica di una frase, di un brano di dialogo, ma qui entra in gioco l'elemento di rischio: rischio dell'onore e della dignità professionale di un critico. Se io attacco Guido Gozzano perché scrive una frase come Ti piacerebbe morire?, ignorando il fatto che queste parole sono messe in bocca a un'educanda appena uscita di convento che si rivolge a un'altra educanda nella poesia L'amica di Nonna Speranza, io posso ottenere un vantaggio momentaneo nel dibattito critico, ma a lungo andare devo essere sconfitto perché la mia citazione è in malafede. In ultima istanza, la prova decisiva è la citazione.
Ahimè, quando ho cominciato a fare il critico teatrale, mi sono accorto che questa arma bianca, questa arma da taglio, la citazione, con cui potevo difendermi dagli avversari e contrattaccare, sostenendo le mie posizioni con infilzate, fendenti e a fondo, non era più a mia disposizione. Certo, a esaltazione o a scorno di un testo teatrale, posso a volte citare una battuta come segno della grandezza o della piccolezza di un testo; ma, mentre in letteratura è proprio la citazione il punto cruciale del discorso critico, nella critica delle arti visive o dello spettacolo la citazione ha un ruolo assolutamente secondario. Io ho un bel criticare la cadenza reboante ma monotona di un attore, l'insensibilità critica di una lettura, la volgarità di un'interpretazione: le mie parole sono suoni al vento perché non posso citare. Da qui, la necessità di un maggiore apporto della retorica nel discorso del critico d'arte, di teatro o di cinema.
Qui parlo del critico militante: non del critico d'arte che illustra l'iconografia di un quadro, del critico di teatro che sbroglia la matassa delle fonti di una commedia shakespeariana, del critico cinematografico che mi spiega l'ideologia di Tornatore o di Tavernier. Parlo del critico d'assalto che va a vedere una mostra, uno spettacolo teatrale, un film, come un corrispondente di guerra sulla linea del fronte, e fa un reportage della sua esperienza. Questo professionista della critica è costretto dall'impossibilità di citare a ricorrere a una serie di manovre retoriche, che sono spesso puri sostituti della citazione.
Mi è capitato recentemente, per motivi editoriali, di rileggere sia le mie critiche di libri, sia quelle teatrali, degli ultimi anni. Nel confronto fra i due generi giornalistici, mi sono reso conto quanto fosse più alto il tasso di retorica nelle mie critiche teatrali; c'erano più iperboli, più paragoni, più paradossi, più litoti, più ossimori. In generale, l'uso del linguaggio era più metaforico. Questa non è la scoperta dell' America; è una costatazione empirica da parte di un critico che fa due mestieri. Credo che il problema della necessità della retorica sia altrettanto vero tanto per la critica cinematografica quanto per quella teatrale, e mi interesserebbe sapere se questa mia preoccupazione per gli eccessi retorici dovuti all'assenza della citazione sia condivisa dal fronte della critica cinematografica. E qui avrei una proposta. Da quando ho fatto la collazione fra le critiche letterarie e quelle teatrali e mi sono reso conto della sovrabbondanza retorica in queste ultime, mi sono preso l' impegno di eliminare un artificio retorico, uno e non di più, dalla versione finale di ogni mia recensione teatrale prima di mandarla al giornale. Forse così gli articoli peggioreranno, non lo so, ma la mia rimane una proposta che offro, per quello che vale, ai colleghi di cinema.


“la Repubblica”13 luglio 1990  

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