Iole Silvani con Paolo Poli |
Qualcuno potrebbe
ricordare Jole Silvani nei panni dell’amazzone in motocicletta che
salva il latin lover Mastroianni dall’assedio di amanti e ninfomani
nella Città delle donne, riempita di gomma piuma da Fellini per
essere ancor più rotonda e surreale nelle forme già generose. Ma in
sostanza della sua memoria, come di gran parte del mondo
dell’avanspettacolo, poco o nulla resta oggi, se non qualche
sbiadita copiaccia caratterizzata piuttosto dalla volgarità di pose
e ammiccamenti al limite della decenza. Eppure su quelle platee
sovraffollate di militari e adolescenti saturi di testosterone molti
si innamorarono della signorina Silvani, come ci ricorda l’agile e
documentato libro di Guido Botteri Jole Silvani la soubrette amata da
Angelo Cecchelin, Paolo Poli e Federico Fellini (Comunicarte
edizioni, pp. 170, € 19), pieno di illustrazioni, fotografie e
riproduzioni.
Niobe Quaiatti nasce il 9
dicembre 1910 nella Trieste ancorata alla corona di Francesco
Giuseppe D’Asburgo, figlia di Guido, linotipista, cioè tipografo
specializzato del Piccolo. Inizia precocissima a recitare in
un’operetta di evidente ispirazione deamicisiana intitolata Dagli
Appennini alle Ande. L’incontro fatale avviene però più tardi,
nel ’29. Angelo Cecchelin, bisognoso di una soubrette per la
propria compagnia, “la Triestinissima”, la convince a debuttare,
inventandosi seduta stante il nome d’arte che la accompagnerà per
il resto della vita, aggirando il prevedibile diniego del padre ad
autorizzarla a calcare le tavole dell’avanspettacolo. Genere da
sempre negletto, collocato come intermezzo tra una proiezione e
l’altra soprattutto nelle sale di seconda e terza visione,
l’avanspettacolo conosceva proprio in quegli anni il suo momento di
massimo splendore, potendo annoverare tra le sue fila nomi come Totò,
Aldo Fabrizi e Anna Magnani.
Il principio della
sessantennale carriera avviene di fatto il 17 ottobre 1929, al teatro
Giuseppe Tartini di Pola: lei impersona una bagnante a cui in seguito
sarà dato il nome di Giulietta Stelladoro e tra barzellette e
boutade intona anche una canzone intitolata Lolita. A vedere i
calendari delle rappresentazioni si capisce quanto logorante e
intensa sia stata la carriera di quelli che a lungo sono stati
ritenuti dalla critica solo dei guitti. Nel ’31 la compagnia si
impegna per ben 355 giorni, al ritmo di 3 repliche giornaliere. La
Silvani diventa in breve una vera e propria vedette e non solo in
Friuli Venezia Giulia, sia che interpreti la lattaia Tanzi, sia che
intoni la canzone per Baby Lindberg, la piccola figlia del primo
trasvolatore oceanico rapita e uccisa poco tempo prima. O, negli anni
della trionfale grancassa per l’edificazione del nostro impero di
cartapesta, della canzone-marcia La fanciulla di Macallè, dal nome
della regione etiopica dell’Endertà.
Dopo la caduta del
fascismo, con Trieste occupata dai nazisti, la presenza della
compagnia nei cartelloni è assicurata direttamente dal maggiore
Seidler con un perentorio: «Vi autorizzo io a recitare e guai a
coloro che osassero di farvi del male. I fascisti, per noi, sono
morti a Trieste, Alles kaputt!». Continueranno a lavorare anche nei
furibondi quaranta giorni di occupazione della città da parte delle
brigate titine, con un repertorio adeguato forzatamente alla nuova
realtà. A sorvegliarli è uno spietato dalmata tanto solerte da
vedere in ogni virgola dei copioni delle riviste accenti di
“antitismo”. La fine della guerra e il ritiro degli jugoslavi non
risparmia Cecchelin dall’accusa di collaborazionismo con i
temporanei occupatori. Arrestato dalla polizia civile comandata dagli
ufficiali britannici finisce in carcere, dove passerà poco più di
un anno, ricevendo dall’amnistia togliattiana uno sconto di pena di
circa tre anni.
Nel dopoguerra, per Jole
Silvani come per molti altri artisti in vista durante il ventennio, è
molto difficile trovare delle scritture, mentre Cecchelin comincia a
meditare di sciogliere la “Triestinissima”, come farà nel ’56.
Per lei è l’inizio di una nuova giovinezza come racconterà anni
dopo in dialetto: «Quando go podù esser sola, alora go podù viver
dè sto lavoro». Successo che diventa consacrazione nel ’62, con
l’ingresso nella compagnia di Paolo Poli, con cui rimarrà per ben
tredici anni, partecipando a spettacoli come Il diavolo, Il Milione e
Il Candelaio.
Di Jole Silvani si sono
perdutamente innamorate almeno due generazioni di maschi, Fellini
diceva di aver deciso di fare il regista solo per avvicinare le
attrici che ne avevano ammaliato la giovinezza: Mae West, Joan
Blondel e Jole Silvani. Quando trent’anni dopo il primo contatto
tra i due, avvenuto per la realizzazione dello Sceicco Bianco,
Fellini la richiama per La città delle donne lei ha già un ingaggio
per una crociera su un transatlantico russo. Disperata, chiama a casa
il regista riminese per comunicargli la defezione ma trova la Masina
che la consola dicendole: «Non te la prendere Jole, Federico non
cercherà qualcun’altra per la tua parte». Parole di circostanza
direbbe qualunque attore, eppure un giorno quando è già in nave, la
avvertono che c’era qualcuno che aveva telefonato diverse volte per
lei. Non sospettando minimamente potesse trattarsi di Fellini resta
ancora di più sorpresa il giorno seguente a vedersi consegnare un
telegramma in cui la produzione comunicava lo spostamento delle
riprese del film. E sì che nonostante l’età non più verde ancora
in quella crociera Jole Silvani era stata capace di mietere vittime a
non finire tra i passeggeri russi. Paolo Poli racconta che molti
croceristi del transatlantico “Shata Rustalevi” continuarono per
mesi a chiamarla ossessivamente, mentre lei si rifiutava di andare
all’apparecchio perché «quelli non si accontentano di invitarmi a
cena». Giunta sul set, Jole si trova a dover buttar via il copione e
a ricominciare tutto daccapo, dovendo perfino imparare ad andare in
motocicletta. Ma il feeling tra i due è istintivo, Fellini è un
«coccolo, insegna ogni singola parte, con quella voce dolce dolce
che ti indica tutto quello che devi fare. È lui il vero attore:
nessuno riesce a recitare come lui, sa la parte di ognuno; quando
diceva le mie battute pensavo che mai più le avrei rese in quel
modo».
Negli anni Settanta
condivide con molti altri esponenti dell’avanspettacolo la
rivalutazione da parte di quel teatro “alto” che li aveva sempre
considerati animali di second’ordine. Con Tino Buazzelli, Attilio
Corsini e Corrado Pani è nel cast de Il signor Puntila il suo servo
Matti con la regia di Aldo Trionfo al Teatro Stabile di Torino. Una
delle sue ultime apparizioni è nel tributo di Giorgio Pressburger al
più geniale e dissacrante attore comico del novecento: Karl
Valentin. Poi il progetto di un’autobiografia che però non vedrà
mai la luce, lasciando ai testimoni il dovere di raccontare una
stagione splendida e sottovalutata dello spettacolo italiano.
“Il Riformista”, 2
gennaio 2011
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