27.12.09

L' articolo della domenica. Ma l'amore no.


Un amico mi dice che la sparata di Berlusconi sul “partito dell’amore” (peraltro non nuova) lo muove al sorriso, gli ricorda i figli dei fiori, le orge nelle case del “libero scambio”, i fasti delle ville di Sardegna. Sorridere è lecito e segno di salute. A me, che nei giorni del Natale ho problemi di digestione, la frase del Cavaliere ha trasmesso inquietudine e sollecitato altri ricordi: Benito Mussolini. Dopo la marcia, non ancora cavaliere, all’“aula sorda e grigia” disse che avrebbe governato “con l’amore, se possibile, con la forza se necessario”.

La frase di Berlusconi viene pronunciata alla fine di una settimana in cui i commenti governativi sul lancio del Duomo o sullo spintone al pastore tedesco sono sempre gli stessi:“Chiunque sia stato, è colpa dei seminatori di odio”. E per impedire la semina qualche “massima autorità”, tipo il Presidente del Senato, non si limita a suggerire di “abbassare i toni”, ma minaccia chi teorizza lo “scontro sociale”. Tutti i fautori della “lotta di classe” rischiano così di trovarsi fuori legge e molti testi, non dico di Marx o di Gramsci, ma di Turati, Nenni o don Milani, potrebbero essere, se non messi al rogo, inseriti in un nuovo “indice dei libri proibiti”.

Nel messaggio del Cav c’è di peggio: la promessa che “tutte” le riforme costituzionali e istituzionali saranno realizzate entro il 2010. Non sapremmo dire che cosa esattamente intenda per “tutte”, ma se si tratta di quelle di cui lui e i suoi ministri di quando in quando blaterano c’è da avere paura. Vediamole. Un presidenzialismo spinto, che non si ferma all’elezione diretta del presidente della Repubblica o del Consiglio (come sembra preferire B.) e pretende di ridurre il Parlamento ad appendice del governo, unificando nelle mani di quest'ultimo potere legislativo ed esecutivo. Una diminuzione di peso e di autonomia di tutti gli organi di controllo o di garanzia, dalla Corte Costituzionale in giù. Un ritorno della magistratura inquirente (e per molti versi anche di quella giudicante) sotto l’autorità del Governo. Un impianto corporativo nelle relazioni sindacali in cui i sindacati firmatari di contratto sono sussunti nel governo della forza lavoro (a prescindere dal consenso dei lavoratori), assegna loro, attraverso gli enti bilaterali, un ruolo nella assegnazione degli ammortizzatori sociali. Un federalismo per taluni versi finto (alla potestà dei poteri locali vengono sottratte quasi tutte le cose importanti, dalla energia alle grandi opere) per altri versi ingiusto ed egoistico (più soldi e più servizi a chi è già più ricco e servito). Da ultima, non per importanza, una forte contrazione delle libertà di espressione, di manifestazione, di organizzazione autonoma (dalla rete alle piazze, ai luoghi di lavoro).

Insomma quel che è in programma per l’anno venturo è la chiusura in senso autoritario della crisi di regime, che, in un contesto smandrappato come quello dell’Italia di oggi, significa un sistema simile a quello della Russia putiniana o di qualche repubblica latino-americana.

Nei confronti dell’opposizione parlamentare, di una Cgil che resiste al diktat di farsi sindacato corporativo e della magistratura organizzata è in opera un vero e proprio ricatto. Se vorranno, potranno accettare l’“amore” offerto da Berlusconi e dialogare sulle riforme nel quadro delle coordinate decise dalla destra con il sostegno di alcune forti componenti organiche dell’edificando regime: la Confindustria, le corporazioni professionali, il Vaticano. In caso contrario la destra ricorrerà alla “forza” dei numeri parlamentari e degli apparati amministrativi e polizieschi.

Il risultato massimo che gli oppositori possono conseguire nel cosiddetto dialogo è la salvaguardia di limitate posizioni di potere. Il ceto dirigente del centrosinistra allargato (Pd più Udc e rutelliani) potrebbe ottenere una sorta di monopolio dell’“opposizione di regime”, conservando libertà di azione ai livelli regionali e locali. La magistratura associata, se accettasse senza proteste di non rompere le uova al potere politico ed economico, potrebbe lucrare il mantenimento dei privilegi economici e della gestione corporativa (pur dentro la separazione delle carriere) di promozioni, trasferimenti e sanzioni disciplinari. Le burocrazie sindacali (anche della Cgil, se si prestasse al grande “inciucio”) potrebbero continuare a godere dei meccanismi che agevolano il loro mantenimento economico. E’ poco; la tentazione di mollare è tuttavia fortissima.

Ci sono in Italia forze, fuori dalle istituzioni più importanti, che possano organizzare una resistenza e (perché no?) una riscossa repubblicana e costituzionale, in grado di aiutare Pd, magistratura e Cgil a non mollare?

Sul piano sociale c’è poco: la crisi macina e divide. Forse si può contare su qualche pezzo pregiato di pubblico impiego. Non molto.

Sul piano strettamente politico i gruppi dipietristi non sembrano in grado di esprimere una coerente opposizione costituzionale (lo dimostra ad esempio il voto sul federalismo) e sembrano interessati a giocare elettoralmente sulle debolezze delle altre opposizioni. Poi ci sono i Radicali, la resistenza più forte sui temi dei diritti di libertà, ma disponibili ad una "grande riforma", purché coerentemente “americana”. I gruppi extraparlamentari dell’estrema sinistra (sia quelli dell’area del comunismo identitario sia quelli confluiti in Sinistra, ecologia e libertà), quel che resta dei Verdi, i residui gruppi socialisti antigovernativi sembrano sottovalutare la gravità della questione democratica, occupati a garantire, in concorrenza tra loro, ai propri già ristretti apparati una qualche limitata sopravvivenza nelle istituzioni regioniali.

Restano associazioni nazionali e locali, tematiche come Libera o Articolo 21, o esplicitamente politiche come le Associazioni per la Sinistra o la Rete della Sinistra, culturali, o ambientaliste. E rimangono in campo quotidiani come “il manifesto” o “il Fatto”, autorevoli per durata o per recente successo e riviste prestigiose come “Micromega”.

Insomma c’è poco. E quel che c’è è mal messo. Ma per partire basta.

Per esempio: è in campo la proposta di Articolo 21 per una grande manifestazione unitaria che abbia come tema seccamente e semplicemente la difesa della Costituzione (comprendendovi una applicazione rigorosa dei suoi principi anche nei campi dove sembrano dimenticati, per esempio verso detenuti, immigrati e poveri). E’ possibile costruirvi intorno una aggregazione, un coordinamento permanente, un Comitato per la salvezza della Repubblica in grado di realizzare non solo un grande raduno, ma anche una controffensiva d'informazione e d’opinione in alto e in basso?

Per prima cosa ci sarebbe da demistificare e respingere l’offensiva dell’"amore".

Una fiaba siciliana raccolta dal Pitrè, che mi capita sovente di citare, racconta di un calzolaio, Tinchione, che ama la moglie alla follia. Per amore la copre di baci: a tavola, al banco di lavoro, per strada. Una notte come in delirio la stringe e bacia, la bacia e la stringe. La donna lo lascia fare, capisce che lo fa per amore; ma ne muore asfissiata. Da qui il detto: “le carezze di Tinchione che ammazzò la moglie a baci”.

L’amore di Berlusconi e dei suoi è della stessa natura: il loro amore per gli Italiani è così espansivo e protettivo da togliere loro l’aria e la libertà. Forse varrà la pena di gridarglierlo su Internet, negli altri media, nelle piazze: “Governi secondo Costituzione, Cavaliere, finché ci riesce. Ha vinto le elezioni e può farlo. Ma, per cortesia, non ci ami. E non pretenda di essere amato”.



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