13.12.09

L' articolo della domenica. Sicilia: il fantasma del milazzismo.

La scelta del presidente della Regione siciliana Raffaele Lombardo di chiedere al Pd l'appoggio esterno per risovere la crisi e costituire una nuova giunta e l'orientamento probabilmente favorevole del partito di Lupo e Bersani ha fatto parlare di "milazzismo".
Sono passati più di cinquant'anni da quando alla carica che è oggi di Lombardo venne eletto Silvio Milazzo di Caltagirone, fino ad allora democristiano. Guidava una giunta che comprendeva democristiani dissidenti, monarchici, missini, repubblicani, socialdemocratici e godeva dell'appoggio del Pci e del Psi. Non era esattamente quello che dopo si intese per "milazzismo", cioè una collaborazione tra estrema destra ed estrema sinistra, era piuttosto quella che oggi si chiamerebbe una maggioranza "trasversale".
Fu una pura operazione di potere? No. C'era un tema che cementava, almeno nella fase iniziale, quella variopinta coalizione, il sicilianismo, cioè l'idea che la Sicilia tutta unita dovesse rivendicare dal governo centrale più risorse, più poteri, più libertà e percorrere una propria via al riscatto economico, distinta rispetto alle stesse regioni del Sud Italia.
Milazzo rappresentava essenzialmente interessi di grande e media proprietà agraria, di piccole banche, al tempo molto forti nel calatino e in altre aree della Sicilia orientale; ma era anche un allievo del concittadino don Sturzo, a suo modo fedele al maestro più di quanto il maestro non fosse fedele a se stesso. Il fondatore del Ppi, in effetti, tra i democristiani di Caltagirone aveva Scelba come pupillo e criticò fortemente la secessione dalla Dc e l'elezione a presidente di Silvio Milazzo. Ma il neopresidente della regione rivendicava a sè l'originario e originale pensiero di Sturzo, colui che, insieme a Togliatti, aveva elaborato teoricamente e politicamente l'idea dell'autonomia siciliana come risposta alle tentazioni separatiste e strumento di autogoverno. "Il popolo siciliano ha sete di libertà" - usavano dire con parole assai simili il capo comunista e l'ideologo del cattolicesimo politico.
Un elemento anticentralistico e "antiromano" era del resto alla base della scissione di cui Milazzo si era trovato alla testa. Tra i democristiani che lasciarono il partito per fondare insieme con il deputato di Caltagone l'Unione siciliana cristiano sociale, ce n'erano di moderati come lui e il canicattinese Signorino, ce n'erano di orientamento liberaldemocratico come Francesco Pignatone, e c'erano sindacalisti della Cisl come Luigi Vajola, che volevano precorrere i tempi dell'unità con la Cgil.
Era il tempo in cui a Roma era in atto il tentativo di Amintore Fanfani di concentrare in sè i ruoli di segretario nazionale della Dc e di capo del governo, non senza qualche simpatia per il presidenzialismo alla De Gaulle. Il "cavallo di razza" aretino era accusato di voler imporre alla Sicilia i suoi proconsoli (in particolare l'agrigentino Giuseppe La Loggia, predecessore di Milazzo nella guida della regione) e di voler entrare minutamente nelle cose di Sicilia. Signorino, ad esempio, soleva dire nei comizi che Fanfani voleva fargli sposare una propria sorella piuttosto brutta. Non si è mai capito se fosse una battuta. Il sindaco di Agrigento Lauretta, anche lui passato agli uscocchi, lamentava intrusioni fanfaniane financo nella rinomata sagra del Mandorlo in fiore.
Si trattava, come è evidente, più che di idee di umori e di risentimenti assai variegati, di cui Milazzo si faceva interprete. Il tentativo del più colto e intelligente dei "milazziani", Pignatone, che nel 1959 rinunciò alla candidatura a Sala d'Ercole per fare il segretario dell'Uscs e dare una fisionomia politica al neonato partito, era anche per questo destinato a fallire.
Fremiti di ribellione percorrevano intanto vari settori sociali della Sicilia, quasi tutti interni al blocco costruito intorno alla Dc. Non solo tra gli agrari, ma tra i piccoli proprietari della "bonomiana" c'era insofferenza verso i primi accordi europei che sacrificavano l'agricoltura siciliana, sicchè molte sezioni della Coldiretti divennero centri organizzativi del nuovo partito. Tra gli industriali, in prevalenza piccoli, si sognavano incentivi robusti e perfino una sorta di protezionismo regionale; si arrivò così alla secessione dalla Confindustria con la costituzione della Sicindustria, guidata da Mimì La Cavera. Una scissione significativa si realizzò nel "sindacato bianco" della Cisl. Ad appoggiare la ribellione di Milazzo c'era infine, nonostante la sua amicizia con Fanfani, Enrico Mattei, insofferente verso tanti democristiani isolani asserviti alle "sette sorelle", le multinazionali dei carburanti, che osteggiavano la costituzione di un grande polo petrolifero dell'Eni a Gela.
E la mafia? Le storie non ci dicono moltissimo sugli atteggiamenti di Cosa nostra che nei suoi rapporti con il mondo politico è sempre stata insieme prudente e spregiudicata. Probabilmente i boss non abbandonarono gli antichi referenti e, nel contempo, ne cercarono di nuovi. Di sicuro non ci fu ostilità. Lo dimostra il ruolo esplicito giocato nell'operazione Milazzo da un "grande vecchio", l'avvocato Vito Guarrasi. Costui era insieme professionista dei grandi boss e delle grandi famiglie aristocratiche e borghesi di Sicilia ed il suo nome ricorre in quasi tutti i "grandi misteri" siciliani dalla morte misteriosa di Enrico Mattei alla scandalo Bazan che riguardò il Banco di Sicilia, fino al rapimento del giornalista Mauro De Mauro. Qualcuno esplicitamente scrisse di lui come "la testa del serpente". Di sicuro non era nemico dei mafiosi.
Del resto, se la "mafia militare" restò guardinga, il milazzismo non dispiaceva di sicuro alla "borghesia mafiosa", quel ceto diffuso di proprietari, professionisti, imprenditori, che nelle città e nei paesi di Sicilia drenava a proprio vantaggio i Piani verdi e le risorse della Cassa per il Mezzogiorno e che spadroneggiava coi sistemi antichi della clientela e della subordinazione personale. Il "sicilianismo" interclassista era sempre stata l'ideologia di questo mondo, che per qualche tempo aveva perfino simpatizzato per i separatisti: "la Sicilia prima di tutto" e "Siciliani uniti" erano motti utili ad aggregare al carro pezzi di popolo, specie tra i ceti popolari urbani.
Perchè il Pci e il Psi (quest'ultimo con qualche dubbio) accettarono di sostenere i "governi di unità autonomistica" guidati da Milazzo? Il Psi di Nenni era in mezzo al guado che l'avrebbe portato all'incontro, nel centro-sinistra, con tutta la Democrazia cristiana e temeva che la Sicilia fosse elemento di disturbo, ma nell'isola non pochi suoi quadri aspiravano a cimentarsi in esperienze di governo e, d'altra parte, subivano l'egemonia del Pci. Togliatti, dal canto suo, era un politico puro, piuttosto alieno dalle questioni sociali, e considerava quella siciliana una verifica della sua principale ipotesi per portare il Pci al governo: la costituzione di un secondo partito cattolico. Poco importava che questo secondo partito non fosse propriamente "di sinistra". Era già tanto che fosse, seppur vagamente, antiamericano.
Il segretario del Pci in Sicilia, Emanuele Macaluso, era un politico intelligente con un passato di sindacalista. La costituzione del governo Milazzo, nella sua logica, avrebbe potuto e dovuto accentuare l'intervento pubblico in economia con la formazione di enti regionali e, tra l'altro, garantire le principali isole operaie legate al Pci (dai cantieri navali alle miniere, soprattutto di zolfo, all'industria molitoria e pastaria).
Sia Macaluso che Togliatti conoscevano perfettamente i rischi dell'operazione, ma, da comunisti d'altri tempi ("i comunisti sono fatti di una pasta speciale" - aveva detto Stalin), accettavano il rischio, l'uno come una scommessa per la modernizzazione della Sicilia, l'altro come prefigurazione di scenari nazionali. Dopo le elezioni del 1959 che videro un piccolo arretramento del Pci e del Psi, ma anche un forte successo dell'Uscs , Macaluso al Comitato regionale presentò quel risultato come una vittoria: "Ha vinto l'unità delle forze autonomiste".
Quest'unità durò poco, in tutto un anno e mezzo (ottobre 58 - febbraio 60), e finì malamente. Un deputato Dc (tal Santalco) attirò in una trappola un esponente dei milazziani, Ludovico Corrao, mostrandosi disposto a un cambio di campo, se si fosse venuti incontro a delle sue esigenze economiche. Il colloquio, in cui Corrao appariva più che possibilista, fu registrato, pubblicato e buttò fango su tutta l'esperienza milazziana.Il racconto qui fatto, forse un po' lungo, serviva a spiegare in chiave storica l'esperimento milazziano, onde verificare eventuali analogie con l'oggi.
Qualcuna c'è. Lombardo è a capo di un movimento dichiaratamente autonomista. Il Pdl (ventre molle del voto conservatore e di destra come la vecchia Dc) ha subito una scissione sicilianista e al suo interno è presente un erede del "galantomismo" missino come Granata. La sinistra attuale, sostanzialmente aclassista e molto più moderata dei vecchi Psi e Pci, sembra disposta all'appoggio. La Confindustria sicula appare schierata col "governatore" .
Ma la battaglia di Lombardo (e di Miccichè) sembra non avere un obiettivo nazionale, ma prevalentemente siciliano. I nemici sono Cuffaro e il cuffarismo, esempio di una gestione disinvolta e scriteriata delle risorse economiche e di una occupazione sistematica del potere. La controaccusa di cuffariani e alfaniani è che Lombardo finora ha al suo attivo pochi successi politici e di riforma e che soprattutto ha provveduto a infilare uomini suoi in ogni posto di sottogoverno disponibile.
Quanto alla sinistra (anzi al centrosinistra, più centro che sinistra) nel 1958 veniva da una lunga e difficile resistenza che ne aveva un po' ridotto le forze, ma non scalfito il prestigio e dunque poteva sperare di dare una propria impronta all'operazione Milazzo. Oggi la sua consistenza è ridotta a poco sul piano dei voti (anche se la legge elettorale ne maschera un po' il declino), ed è senza radicamento, senza un progetto leggibile.
Il suo ceto politico è in pezzi, inconsistente erede di quel Michelangelo Russo, milazzista storico, che sarà stato pure un galantuomo, come dice Elio Sanfilippo, ma che è l'inventore della formula "non possiamo fare l'analisi del sangue" (agli interlocutori politici, alle imprese, etc.) e il teorico della lottizzazione di tutto, perfino delle bande musicali. E che è finito con l'accettare consulenze dal centro-destra di Cuffaro. Quello del Pd, da dovunque provenisse, si è rivelato un personale politico non alieno da trasformismi e da contiguità mafiose. La sua ultima disastrosa esperienza di governo, quella guidata dall'attuale deputato Capodicasa, gli ha tolto molta credidibilità come alternativa: dentro la giunta aveva non solo il famigerato Cuffaro, ma anche Lo Giudice "mangialasagne", che non era ancora un avanzo di galera, ma negli spot usava come colonna sonora la musica de Il padrino.
Dentro il Pd ci sono certamente alcune figure di "combattenti", ma il loro "fare politica" li ha portati più volte a subire gli altrui compromessi. Complessivamente il quadro dirigente del Pd in Sicilia appare omologo a quello di Pdl e Udc, partecipe e intermediario del saccheggio sistematico delle poche risorse pubbliche. Un periodo di robusta opposizione avrebbe potuto cambiarlo, portare alla ribalta persone nuove e più giovani, capaci di incarnare agli occhi della minoranza non corrotta dei siciliani una alternativa e di mostrare a una parte degli altri (la grande maggioranza corrotta, insieme complice e vittima della mafiosità clientelare) che l'onestà e la pulizia convengono a tutti. La partecipazione, sia pure esterna, all'operazione Lombardo potrebbe bruciare questa possibilità. Ma forse di ciò non importa molto al ceto politico Pd siciliano e, in particolare, ai deputati regionali. La caduta di Lombardo ed elezioni regionali anticipate, infatti, metterebbero in dubbio i loro seggi e i loro non piccoli appannaggi.
La loro politica non contiene perciò nulla dei grandi (e illusori) progetti del Pci nel 1958, è un "resistere, resistere, resistere" attaccati alle poltrone e intanto sistemare qualche parente, dare qualche appalto agli amici e (perchè no?) fare qualche leggina che renda migliore la loro vecchiaia. C'è nel passato l'esempio insigne di una legge ad personam (per essere precisi ad duas personas) : quel deputato del Pci che aveva fatto due legislature regionali, con un vuoto in mezzo, e che ottenne il ricongiungimento, una sorta di "paghi due, prendi tre". Essendo determinanti, anche gli attuali deputati, pur nella penuria delle risorse, potranno ottenere qualcosa. Che importa se questo determinerà un ulteriore svuotamento e impoverimento della Sicilia? una conservazione del potere della "borghesia mafiosa"? una ulteriore e lunga eclisse della sinistra dalla scena politica regionale?
Al domani qualcuno provvederà. Intanto godiamoci il presente, come negli "ultimi giorni di Pompei".

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho riflettuto sulla posizione assunta da parte di esponenti della deputazione regionale PD nei confronti del governo Lombardo e mi lasciano perplesso e anzi mi inducono a credere che si sia creata un’accondiscendenza verso l’attuale governo che ha tutta l’aria di alleanza simil-istituzionale, una liason per me inconcepibile.
Non è il caso di ricordare il ruolo e la posizione del Movimento per l’Autonomia dalla sua nascita fino a pochi mesi addietro e la sbandierata affinità con il movimento della Lega oltre che l’alleanza totale con i partiti della destra italiana e siciliana. Non è neppure il caso di far rilevare, poiché è a tutti nota, la politica sanitaria che, sul presunto rigore, ha di fatto danneggiato tutta la sanità pubblica ospedaliera e territoriale, partorendo una legge di rientro basata sui tagli di strutture e fatta passare come legge di riforma. Faccio solo rilevare che i tagli, senza un piano di investimenti sul territorio, non vale nulla, poiché la grave domanda di salute dei cittadini è stata semplicemente e drammaticamente elusa.
Non comprendo purtroppo i motivi, semmai ce ne siano, che hanno indotto i nostri parlamentari siciliani del PD a gettare un’ancora di salvezza a questo governo che si è rivelato insulso ma caparbio, superbo e parolaio, inerte, ammantato di una “sicilianità” sospetta, saltabanco pur di sopravvivere e, comunque, figlio di una destra che affonda radici nell’autonomia, ma forse nel separatismo. A questa operazione simil-milazzista, già sperimentata e fallita in Sicilia alla fine degli anni ‘50, non sono disposto ad aderire soprattutto perché è stata concepita dai nostri deputati sopra la testa del popolo della sinistra, senza aver preventivamente attivato un minimo di dibattito nelle sedi tradizionali di base. Non sono disposto ad accettare tutto ciò che cala dall’alto, ma preferisco ancora provare un pizzico di indignazione. Per questi e per altri motivi, rimetterò la tessera del partito, pur restando nell’area della sinistra (o centro-sinistra), osservandone l’evoluzione e il cammino dall’esterno.
Ho esaminato semmai albergasse in me qualche sorta di pregiudiziale risentimento nei confronti di uomini avversari politici, ma lo escludo e pongo semmai l’accento sulla diversa concezione della politica della sinistra rispetto alla destra, specialmente nel tenere separate come inconcepibili le sfere del business da quella della politica esclusivamente vista come governo corretto della cosa pubblica. In questo senso mi chiedo se nel DNA della sinistra esista ancora qualche briciola di pensiero ideologico (senza cadere nell’ideologismo tout court) oppure se non stia accadendo una darwiniana variante di adeguamento ai tempi mascherata da riformismo. Intravedo il caso, ma non la necessità.
Sebi Arena

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