21.12.09

La libertà di essere classici. Un contributo di Mario Vegetti

Il quotidiano "il manifesto" nel 1982 pubblicò e regalò agli abbonati un libretto verde marcio, lungo e stretto, dal titolo Libertà vo cercando, illustrato dalle vignette carcerarie di Mario Dalmaviva, a quel tempo in carcere, perchè coinvolto nel cosiddetto "processo del 7 aprile". Nel volume sul tema della "libertà" si confrontavano alcuni collaboratori e amici del "quotidiano comunista": Mario Vegetti, Roberto Roversi, Marcello Cini, Benni, Franco Fortini, Adriana Zarri, Gianni Usai, Giorgio Bocca, Hrayr Terzian, Corrado Stajano.  A distanza di molti anni alcuni di quei contributi mi appaiono ancora di grande valore culturale e politico. Comincio con il "postare" quello di Mario Vegetti, storico della filosofia, soprattutto antica, che ragiona sul significato di libertà nella Grecia classica per giungere ad una conclusione radicale. (S.L.L.)

"O la liberazione riguarda
tutti gli uomini e tutto l'uomo,
o non è più pensabile"
I protagonisti degli Uccelli di Aristofane bussano alla porta dell’Upupa, e viene a sorpresa ad aprire il suo schiavo. Sorpresa: “Un uccello ha pure bisogno dello schiavo? – Lui sì, perché prima era uomo”. Il possedere schiavi è dunque il contrassegno della specie umana (diciamo addirittura la soglia di passaggio tra natura e cultura). Come non c’è uomo senza schiavo, così non c’è libertà senza schiavitù; per i greci, eleutheria significa in primo luogo la condizione di chi non è schiavo. E siccome gli schiavi servono soprattutto per lavorare, il significato del temine si estende a designare la condizione di chi non è obbligato al lavoro: perché ne può delegare la fatica agli schiavi, e perché ne può delegare la fatica agli schiavi, e perché non ne ha bisogno per vivere, grazie ad una qualche sorta di rendita.
La “bella libertà” delle città greche si definisce dunque solo in un sistema di opposti che include, ai poli negativi, schiavitù e lavoro (produttivo): se ne erano forse dimenticati i giacobini, ma lo sapevano bene i reazionari della Restaurazione e lo sapeva bene anche Nietzsche, quando si richiamavano agli antichi con intenti beffardamente opposti a quelli dei giacobini.
Del resto, bella lo era davvero, questa libertà così legata al lavoro coatto e all’ozio del rentier: se ha permesso in condizioni di eccezionale scarsità (di beni, de mezzi, di spazi, anche di uomini), una delle più straordinarie produzioni di forme che la storia abbia mai conosciuto. Forme dell’ideologia e della scienza, dell’arte e della vita: insomma un vero e proprio incremento di mondo, accaduto però per implosione all’interno di quel mondo piccolo, di quel sistema chiuso.
Quando essi si espandono, quando libertà e sapere diventano potenza e (con Alessandro) i “barbari” diventano di fatto quel che da sempre erano di diritto, cioè schiavi dei liberi greci, le cose si complicano.
Per governare il nuovo sistema, occorre aumentare e concentrare il tasso del potere statale, il comando politico-militare della società. La libertà, che prima era essenzialmente una questione giuridica e sociale, diventa ora un problema politico: i re ellenistici (e poi i romani), dotati in linea di principio di un potere assoluto, incarnano il vecchio fantasma del tiranno. La condizione di suddito si aggiunge insidiosamente a quella di schiavo e di lavoratore nel sistema di opposizioni che ora accerchia l’uomo libero. Ma a tutto ciò c’è rimedio, se l’ideologia è potente. Sofocle aveva scritto: “Chi si consegna a un tiranno ne diventa lo schiavo, anche se vi giunge libero”; ma Zenone, lo stoico lo corregge: “Chi si consegna a un tiranno schiavo non è, purché vi giunga libero". La decisione è presa: la libertà, minacciata da troppi nemici, immigra nelle coscienze. Ora si può essere liberi pur essendo schiavi, manovali o sudditi; se lo schiavo comincia in questo periodo a venir chiamato soma, corpo, in virtù del vecchio meccanismo popolare la libertà si collocherà evidentemente nell’anima.
C’è naturalmente una scorciatoia verso questa libertà della coscienza e dell’anima; ed è la condizione dell’intellettuale, in cui esse si condensano e trovano voce. La liberazione dei moderni è partita più o meno da qui, e ha cercato di percorrere il cammino inverso: ponendo prima di tutto il problema, politico, della libertà del suddito, e poi quello, sociale, della libertà dalla coazione al lavoro e dallo sfruttamento. Ma si era fatta carico, fin dal principio, della esigenza kantiana e giacobina della universalità: liberi tutti dunque, e tutti uguali, almeno in tempi medi. 
E' una coperta corta: la libertà politica si paga con un aumento dell’oppressione sociale; per arrivare all’uguaglianza, ci vuole più lavoro, più potere, dunque meno libertà. Dopo Marx e Freud, ci siamo anche accorti che il rifugio nella libertà di coscienza è un’illusione senza scampo: o la liberazione riguarda tutti gli uomini e tutto l’uomo, o non è più pensabile.
Il che significa trovarsi, sul piano teorico, un po’ nei guai: su quello pratico rischiamo sempre più di pensare che essere liberi significhi essere “a piede libero”… Le cose vanno ripensate a fondo. Ma, per favore, liberatemi dai neocontrattualisti che pensano che la storia e la politica siano una faccenda di decisioni libere razionalmente prese da liberi soggetti che discutono intorno al miglior modo di attuare la giustizia in questo mondo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie infinite per questi preziosi post! Sono una lieta scoperta

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