22.8.10

L'adolescenza di un ribelle (dall'autobiografia di Mao Tse Tung)

Ad otto anni cominciai a studiare nella scuola elementare del villaggio, che continuai a frequentare fino all’età di tredici anni. Al mattino presto e alla sera tardi lavoravo la terra. Durante il giorno leggevo le opere di Confucio e i Quattro Classici. Il mio insegnante cinese seguiva un metodo severo. Era aspro e duro e spesso picchiava gli alunni. Per questo sue modo di fare una volta, quando avevo dieci anni fuggii dalla scuola: Avevo paura di ritornare a casa, dove certamente sarei stato picchiato e quindi mi avviai verso dove credevo che si trovasse la città, in qualche parte, al centro di una vallata. Girovagai per tre giorni finché la mia famiglia non mi ritrovò. Vidi allora che avevo girato sempre attorno allo stesso posto e che le mie peregrinazioni non mi avevano mai portato più lontano di 8 li da casa mia.
Dopo il ritorno un famiglia, con mia grande sorpresa, le condizioni di vita migliorarono. Mio padre aveva un po’ più di considerazione verso di me ed il maestro era più incline alle moderazione. Questo risultato ottenuto da una mia protesta mi impressionò molto. Era stato uno “sciopero” coronato da pieno successo.
Non appena cominciai a scrivere mio padre volle che tenessi la contabilità di casa. Voleva che imparassi ad usare l’abbaco. E, poiché insisteva, cominciai a lavorare di notte su questi conti. Egli era un “principale” severo. Non sopportava di vedermi senza far nulla, e se non c’erano conti da registrare mi dava subito qualche lavoro da fare in campagna. Era un uomo di sangue piuttosto caldo e spesso batteva me e i miei fratelli. Non ci dava mai soldi e si lasciava sempre la parte meno appetitosa del cibo. Ogni 15 del mese egli faceva uno strappo con i suoi dipendenti e dava loro uova col riso, mai però carne. A noi non dava né uova né carne.
Mia madre era una donna gentile, generosa ed amabile, sempre pronta a dividere con altri ciò che aveva. Ella si preoccupava dei poveri e spesso dava loro del riso quando, in tempo di carestia, venivano a chiederne. Ma non poteva far questo in presenza di mio padre, che non approvava la carità. Spesso in casa ci furono dei litigi a questo proposito.
I “partiti”, in famiglia, erano due: uno era mio padre, il governo. L’opposizione era invece costituita da me, mia madre, mio fratello e qualche volta dal bracciante. Tuttavia il “fronte unito” dell’opposizione era spesso diviso da divergenze d’opinione. Mia madre era favorevole ad una politica di attacco indiretto: era contraria a tutte le manifestazioni esterne dei nostri sentimenti e ai tentativi di aperta ribellione. Diceva che non era questo il modo di fare cinese.
Quando ebbi tredici anni scoprii di possedere un validissimo argomento nelle discussioni con mio padre. Egli mi accusava di essere pigro e di avere scarso amor filiale. Io, nel ribattere, gli citavo i passaggi dei classici in cui si diceva che gli anziani devono essere gentili e pieni d’affetto verso i più giovani.
Mio padre continuava ad “ammassare ricchezze”, o almeno ciò che nel piccolo villaggio consideravano tali. Non comprò altra terra in proprio, ma acquistò varie ipoteche su terreni altrui. I suoi capitali raggiunsero la cifra di due o tremila dollari.
La mia insoddisfazione, però, aumentava. La battaglia dialettica era in costante sviluppo in seno alla famiglia: ricordo particolarmente un episodio avvenuto quando avevo circa 13 anni. Mio padre un giorno invitò a casa vari ospiti e, in presenza loro, sorse una discussione. Mi accusò di essere un pigro e un buono a nulla: questo mi rese furioso, gli risposi male e d uscii di casa. Mia madre mi corse dietro per persuadermi a tornare. Anche mio padre mi chiedeva di ritornare, ma nello stesso tempo mi malediceva. Io raggiunsi il margine di un fossato e minacciai di gettarmici dentro se si fosse avvicinato di più: in questa situazione ci fu uno scambio di proposte e controproposte per la cessazione della piccola “guerra civile”. Mio padre insisteva perché io chiedessi scusa e mi inginocchiassi in segno di sottomissione: io accettai di inginocchiarmi su di un solo ginocchio se avessi promesso di non picchiarmi. Così la “guerra” terminò. Io imparai che, quando difendevo i miei diritti con aperta ribellione, mio padre cedeva, mentre, se restavo calmo e sottomesso, mi insultava e batteva di più.

Da Mao Tse Dun, La mia vita, Edizioni di cultura sociale, 1951

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