13.8.10

Violenza contro le donne. Carmela distrutta dai sorrisi (Mimmo Gangemi)

A commento di una notizia di cronaca da Taurianova (una ragazza perseguitata da un intero paese perchè ha denunciato i suoi stupratori), su "La Stampa" del 18 febbraio 2010 lo scrittore calabrese Mimmo Gangemi racconta storie di una sottile e persistente violenza contro le donne, fonte di sofferenza incessante. E' legata alla Calabria arretrata, al piccolo borgo? Io sospetto di no e ho l'impressione che i fatti con tanto affetto qui raccontati non configurino neanche una "quistione meridionale", ma riguardino da vicino molti Nord (S.L.L.).

Quando si scaglia in terra un pugno di farina...». Saggezza antica. Lì a dire che, la farina, tutta non la si potrà mai raccogliere, che un po’ rimarrà sempre. Il riferimento è alle dicerie, al fango sparso con intenzione. Si appiccica addosso e accompagna la vita, spesso dannandola. Agli inizi degli anni ’60, a Carmela, appena sfiorita alla giovinezza, appiopparono di averla colta in un disdicevole e sospetto bisbigliare nella viuzza, sul fare dell’imbrunire, con Milio. La voce percorse in un niente i vicoli, penetrò i muri delle case, infiammò le chiacchiere di piazza. Di niente fecero lussuria, sbarrandole i buoni partiti che la sua avvenenza e un po’ di dote le avrebbero dovuto garantire. In età da marito, Carmela non ebbe infatti proposte di matrimonio. Eppure, nessuno credeva veramente che fosse successo qualcosa, a parte innocenti chiacchiere, in quel peccaminoso imbrunire. Importava solo che esistesse la diceria di mani che l’avevano rovistata ovunque. Importava solo che sul capo del malcapitato che l’avrebbe scelta sarebbe sempre gravato il sospetto che fosse infestato di corna. Carmela si sposò al limite del diventare zitella. Il mattino dopo la prima notte di nozze, il marito, seppure in pochi usassero ormai, espose al balcone le lenzuola macchiate della sincera verginità della moglie e rimase minaccioso, forse anche armato, poggiato alla ringhiera. Nessuno ebbe da obiettare, né allargò sorrisini, né mostrò gesti di scherno. Fu quel mattino di 15 anni dopo che venne raccolta gran parte della farina. Ma non tutta. Storie antiche. Che a volte ritornano. In forme diverse, ma ritornano, a bollarci di arretratezza e di inciviltà. Nel 2002 una ragazzina di tredici anni fu violentata da più uomini, soli, a gruppi, dentro casolari di campagna. Finché si decise a varcare la soglia della caserma.

Dove ebbe, assieme ai familiari, il coraggio e la civiltà di denunciare, più apprezzabili perché ciò avveniva in un paesino della Piana di Gioia Tauro, dove in simili casi appare conveniente tacere, per primo alla vittima. Nel 2003 aggiunse altri nomi, l’anno precedente non rivelati per paura. Arresti e carcere, con pene severe, che qualcuno sta ancora scontando. Ma che certo non sono riusciti a sanare la ferita dell’innocenza violata. E che hanno anzi aggiunto vituperio e scorno, le hanno impresso un marchio infamante e indelebile. Con la violenza subita sì un fatto raccapricciante, da condannare, ma in qualche misura pure una colpa da portarsi addosso per il resto del suo tempo, rinfocolandole ricordi che mai troveranno quiete, guastandole i giorni, invogliandola a spingere i passi dove la tragedia non è nota. Invece la ragazzina sceglie di restare, si fa donna. Cresce nel dolore però, perché scorge anche in uno sguardo innocente il luccichio di un sorrisetto ironico, la condanna, i compatimenti, perché deve sorbirsi la carità pelosa di chi s’impietosisce, però non la darebbe mai sposa a un figlio, perché scova dentro le parole un’allusione che magari non c’è. Non ha ancora trovato, come già Carmela, un uomo disposto a stendere sul balcone la sua innocenza, le macchie di una verginità - per quel che conta oggi - che le spetta di diritto e che le sozzure subite non hanno intaccato. E non intravede il futuro che tocca alla sua giovane età. Sette anni dopo, di nuovo agli onori della cronaca. «Sopra ernia, carbonchio», diciamo da queste parti. Perché costretta a denunciare chi le rende la vita impossibile. Con risolini, allusioni, parole chiare, minacce, ingiurie, per ferirla di una colpa non sua, per farle scontare arresti e condanne, pesare addosso i brandelli di una vita dannata. Ottiene soltanto un ammonimento del Questore a quanti le mettono sott’ombra l’esistenza. Quella farina fa ancora mostra di sé in terra. È rimasta là, a imbiancare la strada di tutti, a insozzarla. Nessuno l’ha raccolta. Neppure ci ha provato. Ne hanno aggiunta altra, anzi. Più che un pugno, è ora un sacco intero. Su un’innocente al pari di Carmela, più di Carmela. «Sono così i paesi piccoli» giustifica un tale. S’accorge che ci sono rimasto male e «chi cade nell’acqua, o poco o assai si bagna» aggiunge, credendo di riparare. Parliamo per proverbi, noi. Come se la saggezza antica sia in grado di dare un senso a tutto, di giustificare persino. Vorrei ribattergli che non è così, che la ragazzina è stata buttata a forza nell’acqua. Ma non capirebbe. È successo in un paesino, frazione di un Comune città d’arte, almeno così dice il cartello di benvenuto rovinato da bozzi che forse sono "civili" colpi di pistola. Ci si conosce tutti con tutti. Ha i difetti delle piccole comunità, dove lo stretto contatto crea malumori e invidie, dove il ristagnare delle fortune altrui rende meno infelice e opprimente il ristagnare delle proprie, dove non si è disposti a perdonare l’infamità di una denuncia, per quanto sacrosanta e legittima.

È successo lì, ma sarebbe potuto succedere altrove. Con gli stessi risultati, un timbro a caldo con la ceralacca, a bollarla per sempre colpevole vittima. Non mi meraviglia che sia andata così. Continua piuttosto a meravigliarmi questa mia gente che sa di stantio, che non si scuote, che si gira da un’altra parte, per viltà, per quieto vivere, per non curanza, che calpesta indifferente quella macchia bianca di farina, sempre lì a rinfacciarci che restiamo indietro mentre il mondo ci progredisce intorno.

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