3.12.10

I tratti di una nuova destra. A colloquio con Alessandro Campi (micropolis - novembre 2010).

Fini alla Convention Fli di Bastia Umbra (Pg). Foto Stefano Dottori
Alessandro Campi, storico e politologo, oltre che apprezzato docente dell’Università di Perugia è   uno degli intellettuali di punta della destra italiana. Autore di una biografia di Mussolini, studioso di Schmidt, oggi presiede “Fare futuro”, una delle fondazioni che sostengono l’iniziativa politica di Gianfranco Fini, quella culturalmente più attrezzata. Campi è molto presente anche nel quotidiano dibattito politico, nazionale e regionale, con interventi su “Il Riformista” o il “Giornale dell’Umbria” e con partecipazioni a trasmissioni televisive di chiacchiericcio politico. Lo incontro nell’accogliente sede della Fondazione Cassa di Risparmio, con cui collabora, e subito ci accordiamo sull’escludere la congiuntura immediata dalla conversazione, nell’intento di dedicarla soprattutto alla prospettiva: si dovrebbe ragionare della destra nuova che Fini vorrebbe far nascere, ma inevitabilmente si finisce con il parlare soprattutto della parabola del berlusconismo che sembra andare verso il tramonto. Niente di male: definire propriamente significa “segnare i confini” ed è perciò normale che la destra “futurista” sia qualificata attraverso le differenze da quella che il presidente del consiglio ha fino ad oggi incarnato.

Berlusconi? Un democristiano.
“Il berlusconismo – ci dice Campi - dura oramai da quasi un ventennio e non è un capitolo di storia criminale come lo presentano i Di Pietro e i Travaglio, ma un fenomeno politico sui generis, che è complesso fin dagli inizi ed ha conosciuto nella sua evoluzione momenti diversi. Può darsi che emergano lati oscuri nella vicenda personale di Berlusconi, ma il consenso convinto e continuo di una fetta cospicua di cittadini non è frutto di una manipolazione, quanto della capacità di interpretarne interessi e umori, di lanciare messaggi persuasivi. All’elettorato moderato che fu della Democrazia cristiana, moderato e tradizionalista, Berlusconi nel vivo della crisi di Tangentopoli e Mani Pulite, si presentò come la nuova possibile diga contro ‘la gioiosa macchina di guerra’ dei post-comunisti, ma fece anche appello alle energie vitali della nazione, come suggeriva lo stesso nome del movimento da lui fondato, Forza Italia. In lui c’era più dell’antipolitica, era un chiamare la gente a valorizzare i propri talenti, a riavviare un dinamismo sociale bloccato dalle clientele, dai privilegi corporativi, dagli apparati partitocratici. Il messaggio era rafforzato dalla stessa eccentricità del personaggio: l’imprenditore che si era fatto da sé e rifuggiva dalle ipocrisie dei politici di mestiere”.
Faccio presente che poi, sotto Berlusconi, l’ascensore sociale si è bloccato e si è accentuata la frammentazione corporativa, quello che il rapporto Censis di qualche anno fa chiamava “mucillagine”. Il professore ammette che, sul terreno delle grandi riforme che prometteva,  Berlusconi e con lui tutta la destra hanno fallito: “Aveva promesso decisionismo e invece sul terreno del governo s’è rivelato uno che si barcamena, un democristiano. Ha mantenuto il consenso attraverso la violenta e sistematica contrapposizione amico-nemico, la coppia che Schmidt mette al centro della sfera politica. Funziona, ma un leader nazionale deve saper anche unire. Berlusconi ci provò dopo tanto tempo, il 25 aprile dell’anno scorso, a Onna. Fino ad allora era sempre stato ostentatamente ostile alla Festa della Liberazione, ora la celebrava con un discorso di pacificazione e il fazzoletto tricolore al collo. Si parlò di una svolta, ma dopo qualche giorno dopo venne fuori la storia di Noemi”.

Una concezione ludico-cosmetica
“Un leader – aggiunge Campi - deve saper sfidare anche l’impopolarità, saper imporre scelte difficili. E invece Berlusconi ha una personalità narcisista: vuol piacere. Del governo fa un affare di marketing, guarda i sondaggi e cavalca l’onda. La sua è una concezione ludico-cosmetica dell’esistenza: dà spettacolo, anche con il suo corpo, ma vuol nascondere il dolore e della vecchiaia. Io metto in parallelo la sua vicenda di leader e quella di Giovanni Paolo II. Quel grande papa usava la sua immagine, il suo corpo come strumento di governo delle coscienze, ma senza ostentare un’eterna giovinezza e senza presentare agli spettatori un eterno divertimento. Io credo che questa vicenda politica, anche per effetto della crisi, sia vicina a conclusione; di Berlusconi resta l’elettorato, è a quello che bisogna parlare, è quello che bisogna rimotivare”.
Obiezione. Se è solo un fatto di leadership, Fini ha una debolezza che di cui anche a Bastia Umbra si rinveniva qualche traccia, l’origine neofascista: pare che stiano con lui non pochi di quelli che un tempo erano con Rauti. “Il processo di emancipazione da quel passato non è recente, è iniziato nel 1995, con Alleanza nazionale. La fisionomia politica del nuovo movimento è certamente di destra europea, liberale. Paradossalmente dagli ex rautiani potrebbe essere venuta l’attenzione, tipica dei movimenti di minoranza ai diritti civili”.
La Convenzione Fli a Bastia Umbra. Foto Stefano Dottori
Il ritorno dello Stato
E i contenuti della nuova destra? “Il lascito più grave del berlusconismo è la divisione del paese, non solo politica, ma anche territoriale, per il peso assunto dalla Lega, e sociale, tra vecchi e giovani, tra lavoratori precari e garantiti. La nuova destra comincia rilanciando il valore dell’unità d’Italia e dello Stato che deve garantirla. Del ventennio berlusconiano bisogna riprendere invece gli elementi innovativi e liberali, depurandoli degli eccessi privatisti e mercatisti. Questo è un paese barocco, pieno di leggi e regole in cui i più non sanno muoversi e perciò pieno di sacche di privilegi. Occorre una forte sburocratizzazione, uno stato leggero e amico, che agevoli lo spirito d’impresa. E’ stato però un errore pensare, come ha fatto Brunetta, che il miglioramento della pubblica amministrazione potesse venire da logiche di mercato. Ci vuole certo un dimagrimento di settori improduttivi nella burocrazia, ma vanno responsabilizzati, a partire dai livelli dirigenti, i pubblici funzionari, cui va restituito uno status adeguato, con sostanziali miglioramenti economici. Ed è necessaria poi una massiccia iniezione di etica del dovere, di etica pubblica, del senso civico e di legalità. Non bisogna aver paura di apparire perbenisti: una nuova classe dirigente non può fondarsi che sulle persone perbene”.
Inciderà sull’Umbria la nascita di una destra siffatta? “Non si possono fare previsioni, non si conoscono ancora la presa e la consistenza quantitativa del nuovo movimento. So che per fermare il declino bisogna bandire le teorie auto consolatorie, il mito dell’autosufficienza per esempio, di un Umbria diversa e migliore, che ha prodotto una sorta di chiusura, con conseguente perdita di competitività. Penso all’Università: poteva diventare un grande canale di cambiamento e si è invece provincializzata, perfino nel suo corpo docente. E’ un problema che non riguarda solo la politica ma l’intera classe dirigente. Uno dei limiti più gravi di direzione degli ultimi quindici anni è stato una sorta di totale ritiro dalla scena pubblica della borghesia imprenditoriale e professionale. Non ne faccio tanto un problema di destra o di sinistra: in passato anche la sinistra può avere avuto capacità progettuali. Oggi vedo stagnazione, vedo imprenditori paurosi che cercano di continuare in una sorta di modus vivendi con i governi locali della sinistra, e vedo le idee e le intelligenze emigrare senza che ne arrivino altre a sostituirle”.           

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