21.2.14

16 ottobre 43. Dal ghetto di Roma verso Auschwitz. Se Pio XII avesse sfidato Attila... (di Alessandro Portelli)

Il 27 gennaio 1945 gli alleati entravano nel campo di Auschwitz. In questi giorni, la data viene formalizzata come «giorno della memoria». Vorrei marcarla anch'io, raccontando una storia letteralmente marginale ma non priva di significato proprio per i silenzi e le elaborazioni della memoria.
Ho fatto una piccola inchiesta, fra conoscenti e corrispondenti. Chiedevo: dopo il rastrellamento del ghetto il 16 ottobre 1943, dove furono portati gli ebrei romani? E quasi tutti rispondevano: direttamente alla stazione Tiburtina, e di lì a Auschwitz. Invece non andò così.
«La mattina - all'alba, appena fatto leggermente giorno» - racconta Lello Di Segni - «io e la mia famiglia e mia nonna siamo stati presi, diciamo, rastrellati. Ci chiamavano a nome; ci facevano uscire - vestiti, s'intende - e siamo stati messi su dei camion. E da lì ciànno portato al Collegio Militare. Al Collegio Militare siamo stati dei giorni lì, noi...». C'è dunque un intervallo fra il rastrellamento e la partenza per i cinipi: trenta ore, due notti, che in molte memorie scompaiono ma che in altre si espandono e prolungano.
Il Collegio Militare è a Palazzo Salviati, fra via della Lungara e piazza della Rovere, fra il carcere di Regina Coeli e il Gianicolo sventrato dal parcheggio del Giubileo. I rastrellati erano 1259; 1022 furono avviati ai campi di sterminio; ne tornarono 15. Racconta Settimia Spizzichino: «Io abitavo in via della Reginella, proprio nel cuore del ghetto - e, a cento metri, duecento metri dal ghetto, a Portico d'Ottavia, c'erano pronti dei camion ... Saliti, nessuno ci diceva mai dove andavamo, il perché, come - niente. E - il camion è partito, io non... io, quando ho visto che girava a Regina Coeli io me so' messa a piange', - 'ma perché ce portano in prigione?' - e mamma mia dice 'ma no, ma che vói che ce facciano, mica ci ammazzeranno!' Poi invece è passato Regina Coeli, a venti metri c'era 'sto collegio militare».
Erminia Ricci, governante del commendatore Riccardo Artom, rastrellata e poi rilasciata perché «ariana», scrive in una lettera conservata nell'archivio del Centro di cultura ebraica di Roma: «Si fu condotti all'Accademia, cacciati in una stanza pigiati come le bestie, senza una panca per sedersi che ognuno stava come poteva sopra alle valigie, le veniva negato anche di andare al gabinetto, senza acqua trattavano male se uno parlava furono ore d'inferno».
«Le SS picchiavano e urlavano e il peggio era che nessuno, all'infuori di me, capiva quello che dicevano», scrive un altro deportato, Arminio Wachsberger. Sono rastrellate famiglie intere e vogliono restare insieme: un uomo scavalca il muro di cinta, esce a comprare le sigarette, e rientra. I rastrellati vengono censiti; vengono rilasciati gli «ariani», gli stranieri e, cosa inusitata, i coniugi ebrei di matrimoni misti. «Due giorni al collegio militare, senza mangia', beve, lavarsi, i bambini... E ancora non capivamo» (Settimia Spizziciiino). Durante la notte, nasce una bambina; morirà anche lei a Auschwitz.

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La notizia si è sparsa per Roma, la gente accorre per cercare notizie e portare aiuto. La sorella di Fortunata Tedesco è stata presa con tutta la famiglia e una bambina piccola. «Appena glielo hanno detto, mio marito [Cesare Tedesco: lo uccideranno alle Fosse Ardeatine] ha preso una bottiglia pe'l latte pe' sta pupa de dieci mesi, e aveva portato dei sfilatini co' qualche cosa...». Ma ai prigionieri non arriva niente; anzi, con la scusa di andare a prendere da mangiare i tedeschi si fanno dare le chiavi delle loro case e le saccheggiano: «Vennero a casa con le chiavi date dal Commendatore», scrive Erminia Ricci, «e gettarono tutto sotto sopra asportando via tanta roba che capo per capo è impossibile scrivere. Presero un baule pieno con coperte lana, copripiedi, stoviglie, asciugatoi bagno, scendiletto, tutti i viveri che trovarono compreso biscotti caramelle marmellate vini di Rodi cognac, 150 uova conservate, batteria da cucina posate e varie».
Il lunedì mattina, i prigionieri vengono portati alla Stazione Tiburtina. Gli hanno detto che andranno a lavorare, e cercano di crederci. Non è solo ingenuità, ottimismo disperato, desiderio di vivere: è anche che quello che i nazisti stanno preparando è letteralmente inimmaginabile. Ancora dentro Auschwitz, dice Lello Di Segni, «quando ci hanno detto la verità, alcuni prigionieri messi prima di noi, abbiamo fatto anche a botte con questa gente, litigavamo, perché non credevamo a un fatto di questo genere. Dicevano: 'voi credete che adesso vi mettono a lavorare poi dopo la sera vi vedete con la famiglia? Ancora credete questo?' 'S'intende, noi siamo venuti qui per questo, per lavorare.' Così al Collegio Militare ci avevano detto. Invece poi non è stato così».

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Quando chiedo a Lello Di Segni quanto è durata la pausa al Collegio Militare, risponde: quindici giorni. Tra l'azzeramento e il prolungamento del tempo nella memoria si inserisce, come sempre, la ricerca del senso. Se i rastrellati sono stati portati subito via, allora nessuno ha potuto farci niente; ma se sono stati tenuti a lungo in sospeso, forse qualcosa poteva accadere. «Dal Collegio Militare, dove tutti gli ebrei del sedici ottobre sono stati tenuti per due giorni e mezzo, in Vaticano ci si va a piedi», dice Claudio Fano: «Bastava mandare uno straccio di cardinale o di vescovo...». E Fortunata Tedesco: «sono stati due giorni dentro al Collegio Romano - due giorni. Io non ho inteso mai che è andata una suora, un frate, o il Papa ha mandato qualcuno. Ma santo Dio la Croce Rossa che stava a fa'? Perché non c'è andata?» L'ambasciatore tedesco in Vaticano Ernst von Weizsacker scrive che «La Curia è particolarmente costernata in considerazione che tutto questo è quasi avvenuto sotto la finestra del Papa». Nel suo libro sul 16 ottobre, Giacomo De Benedetti riprende i racconti secondo cui gli autisti nazisti approfittarono dell'occasione per fare un giro turistico, sostando in piazza San Pietro, dove «dal di dentro dei veicoli si alzavano grida e invocazioni al Papa, che intercedesse, che venisse in aiuto. Poi i camion ripartivano, e anche quell'ultima speranza era svanita».
Credo che non sia vero (forse camion provenienti da altre parti di Roma passarono di lì diretti al collegio militare), ma quello che conta è che è stato veramente immaginato e raccontato: è un modo per sottolineare come la deportazione fosse una sfida, per contrarre ancora di più la perturbante contiguità topografica fra il carcere e il papato. In quelle poche lunghissime ore, i prigionieri avevano forse sperato che il Papa raccogliesse la sfida; certi, come l'interprete Wachsberger, continuarono ad aspettarselo anche dopo («Ogni giorno speravamo di veder entrare nel campo il cardinale di Varsavia con la notizie della nostra liberazione»). Secondo voci non confermate, scrive lo storico Michael Tagliacozzo, un intervento ci fu, ma solo a favore degli ebrei coniugati con cattolici.
«Benché spinto da più parti,» scrive Weizsacker, «il Papa non si è ancora lasciato trascinare ad alcuna riprovazione dimostrativa a proposito della deportazione degli ebrei di Roma». Se si poteva, se si doveva, fare di più, è materia che dire controversa è un eufemismo. A me restano due immagini. Una è la riflessione sconsolata di Lello Di Segni: «Io non so se il Vaticano poteva fare qualcosa. Può darsi pure che avrebbe potuto fare per via diplomatica; ma con quella gente la diplomazia non andava. Chi glie poteva dire gnente a questi? Nel mio piccolo, nel mio modo di pensare, io dico, sì, poteva fare, ma che poteva fare? Contro quegli esseri così?».
L'altra è una scena immaginata da un altro reduce, Piero Terracina: «E se il 16 ottobre il Papa Pio XII avesse mandato [anche solo] il suo segretario, davanti alla porta, davanti ai cancelli del Collegio Militare, e avesse detto questa frase: sono cittadini della mia diocesi e non si toccano. Dice, ma il Papa rischiava. Però, che Papa sarebbe stato? Se pure fosse morto. Pensi, un Papa fucilato dai tedeschi - ma non si sarebbe rivoltato tutto il mondo?».
E un'immagine straordinaria della maestà della Chiesa, tanto più da fonte non cattolica: un Papa capace di sfidare il martirio affrontando il barbaro, come Papa Leone davanti ad Attila. Ma non sono più quei tempi.
“il manifesto” giovedì 27 gennaio 2000

Postilla critica
Questo articolo rievocativo del rastrellamento nel ghetto di Roma mi pare magnifico, e non solo per il finale. Portelli vi utilizza i metodi della storia orale, di cui è maestro, anche per proporre alcuni interrogativi sulle modalità di costruzione della memoria individuale e collettiva.
Una cosa, tuttavia, mi è molto dispiaciuto nell’articolo: l’attacco. E’ indiscutibilmente vero che il 27 gennaio “gli alleati” entrarono nel campo di sterminio, se per alleati si intende, come generalmente si fa, la grande coalizione antinazista, ma nel caso specifico non si doveva omettere che l’alleato che compì quella operazione e liberò i 7 mila sopravvissuti fu l’Armata Rossa, l’esercito di Stalin e del comunismo sovietico, che il revisionismo dei (provvisori) vincitori capitalisti tende ad equiparare al nazismo genocida. Né giova replicare che i più lo sanno, bisogna ricordarlo ogni giorno per i meno, anche perché subdole operazioni di rimozione vengono condotte con indubbia efficacia.
Due o tre anni prima, per esempio, Benigni ne La vita è bella fece liberare il campo di sterminio della sua favola filmica dai carri armati americani. La cosa forse lo aiutò a vincere il premio Oscar, ma confliggeva con il fatto che i campi dello sterminio pianificato degli ebrei erano quasi tutti ad Est, tra Germania Orientale e Polonia. Certo, quella di Benigni è un’invenzione artistica, in quanto tale lecita, e non mancarono piccoli lager (più di lavoro che di sterminio) liberati dagli Occidentali, ma non escludo che anch'essa abbia contribuito a diffondere cognizioni false. Secondo me, se si facesse un sondaggio di verifica su chi liberò Auschwitz tra persone di cultura media e medio bassa, si scoprirebbe che sono moltissimi a ignorare il ruolo dell’Armata Rossa. (S.L.L.)

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