11.2.14

Ricordi di paese. Lu pisciatoriu e lu spitalettu (S.L.L.)

"Lu pisciatoriu", vale a dire l'orinatoio o vespasiano, stava lungo il corso (via Vittorio Emanuele II) a fianco della Matrice, di fronte al negozio di Totò Fontana, tabacchino, cartoleria, libreria, rivendita di giornali. Lo ricordo di lamiera e senza troppa puzza d’ammoniaca. Ma forse a quel tempo (a cavallo tra gli anni 50 e 60) gli odori – anche forti - li sentivamo meno: era ancora diffusa la coabitazione con le bestie da soma e abituale era il loro transito per le vie principali, si considerava normale il passaggio e il passeggio di un gregge numeroso o della carriola con la "sarda viva", erano tanti i pollai sulla strada, le galline e gli escrementi in circolazione. E le persone, le stesse persone, grandi e piccini, si lavavano meno e mascheravano assai meno l'odore di stallatico. Doveva dunque essere intenso nelle caldissime sere d’estate l’odore della piazza piena di braccianti giornalieri (“jurnatari”) che affittavano la propria forza-lavoro, cioè se stessi (“s’addruvavanu”).
Il sindaco Riggeri per un po’ mise in funzione anche un cesso pubblico per gli “atti grandi” – come dicevano certe anziane pudibonde. Si trovava nel cortile interno del Cinema Italia, anzi “Nuova Italia” (il nome era cambiato con l’avvento della Repubblica), ove aveva sede anche l’ECA, l’ente comunale di assistenza, a quel tempo molto attivo (erano in centinaia ad avere la “tessera dei poveri”). “Lu cacaturi” era stato affidato a un tipo basso, dall’accento “’ncarcatu” (un “sangisipparu” probabilmente): credo che si chiamasse Giovanni e lo si chiamasse “zzì Giuvanni”. Non aveva stipendio, ma per la sorveglianza e la pulizia (approssimativa) era ricompensato con i proventi del servizio offerto: 20 lire a cacata, che egli esigeva (“siggìva”) alla consegna della chiave. Era rigido: senza soldi non si cacava. S’era fatto scrivere un cartello in versi da “lu zzì Roccu”, che aveva casa proprio sul cortile, un vecchio mafioso poeta, arrestato e fatto condannare da Mori e liberato dai “liberatori” dopo una quindicina d’anni di “collegio”. Così recitava il cartello, in verità non molto originale: “Entra amico  e nell’entrar tu pensa / che ti farò buon viso ma non credenza. / La feci un dì per non mostrarmi ingrato / Persi l’amico e non fui pagato”.
Lu zzì Giuvanni” (o comunque si chiamasse) non fece molti affari. I più, scoraggiati dall’esosità, se riuscivano a trattenersi, evitavano la cacata a pagamento e andavano giù per la via Umberto, verso la Chiesa Nuova (così era chiamata la Chiesa dell’Addolorata) e la piazza della Vittoria. Lì era stato costruito un pronto soccorso detto “lu spitalettu”, mai entrato in funzione, e perciò diventato ben presto una specie di rudere a causa dell’incuria e dell’ingordigia: alcuni avevano divelto le “tazze” dai W.C., altri recuperato i tubi e c’era chi aveva smontato e portato via porte e finestre, nonostante la ridicola recinzione fatta mettere dal sindaco. Quella piazza era pochissimo illuminata e dentro “lu spitalettu” si poteva cacare senza spesa e senza dovere andare “a di fora”, cioè fuori dall’abitato, in campagna.
“Lu spitalettu” era usato anche “pi fari cosi luordi” tra ragazzi e ragazzine. Talora ci andava anche un omosessuale semipubblico che chiamavano “liuni”, il quale generalmente usava “minarla” ai ragazzi del popolo dentro il cinema, compensandoli con dieci lire o con il regalo di “calia e simenza”. Ma con qualcuno riusciva a ottenere di più: dava convegno a “lu spitalettu”. Quando qualcuno dei cacanti scorgeva nel buio dell’edificio diroccato ombre intente a codesti atti impuri raccattava sassolini, che lì non mancavano, e li lanciava contro i fornicatori gridando “Zzù puorcu!” o consimili insulti. 
Come facevano le donne? Il problema era ridotto, giacché in pochissime e di rado uscivano di casa. In genere le donne, “ppi sbarrari” (per evacuare), chiedevano e ottenevano ospitalità da conoscenti. Oppure tornavano a casa. Solo quando si trovassero in un quartiere distante dal proprio domicilio, “all’atra punta di paisi”, le più giovani andavano anche loro “a di fora” per i bisogni. Si mettevano dietro un “supalu”, una sorta di siepe di sassi, alta, e c’era sempre qualcuno di famiglia o un gruppo di amiche che, a distanza, faceva la guardia. 

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