17.2.14

Callimaco, il realista, e i pregiudizi sull’ellenismo (Jolanda Insana)

Nel 1990, su “la talpa libri” del “manifesto”, in occasione di una nuova edizione degli Epigrammi di Callimaco (trad. di Alceste Angelini, Einaudi), apparvero la breve biografia del poeta e l’accurata recensione redatte da Jolanda Insana, poeta messinese. Riprendo l’una e l’altra. (S.L.L.) 
Callimaco di Cirene
Nato a Cirene poco prima del 300, Callimaco, figlio di Batto come l'omonimo fondatore della città, si trasferisce presto ad Alessandria dove per mantenersi agli studi fa il maestro elementare nel sobborgo di Eleusi. Finché non viene chiamato a corte con l'incarico di riordinare e catalogare le opere della Biblioteca di cui non fu mai direttore. (Sulle vicende della Biblioteca di Alessandria è avvincente il racconto di Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, appena ristampato da Sellerio). Nel 246/45 dedica alla moglie di Tolomeo III Evergete, sua conterranea, La chioma di Berenice», l'epilogo cioè degli «Aitia», nota fin dall'antichità nella traduzione di Catullo (carme LXVI). Muore intorno al 240. Delle varie e numerosissime opere di Callimaco, 800 secondo gli antichi, in versi e in prosa, ci restano Moltissimi titoli, alcuni riassunti, i sei «Inni» (tradotti, insieme a «La chioma di Berenice», da Valeria Gigante Lanzara, nel 1984 per Garzanti), gli «Epigrammi», alcuni «Giambi», frammenti dei poemi «Aitia» e «Ecale», nonché dei 120 libri dei «Pìnakes», le tavole del catalogo.
Gli Epigrammi

Sono davvero duecento per ogni secolo, anche se specialissimi, i lettori di Callimaco, come sostiene Montale (chissà poi chi l'ha scritto!) nella Farfalla di Dinard? I poeti esagerano, si sa, e se i lettori di poesia sono scarsi, sono però meno scarsi di quanto si voglia far credere, volendo far credere che nei canti si perde tempo, e non nei conti.
Su Callimaco ha pesato e pesa tuttora la pregiudizievole contrapposizione tra mezzogiorno ellenico e tramonto ellenistico, tra solarità e crepuscolo. Succede infatti che pensando alla letteratura ellenistica, il pensiero dei più corre, anzi non corre e resta fisso, al concetto di decadenza, in evidente contrasto con l'idea che si ha invece delle arti visive. Tant'è che i pezzi più famosi (non da duecento spettatori) sono tutti ellenistici come la Venere di Milo o la Nike di Samotracia.
E non solo. Tutta l'estetica, la teorizzazione dell'arte ellenica poggia su un pezzo ellenistico, francamente brutto, il Laocoonte che poi è copia romana di un originale in bronzo del II sec. a.C: tronfio e teatrale, esteriore e ridondante, che tutto si muove e in realtà non si muove per niente, è diventato però modello esemplare di classicità. E pure è l'equivalente delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Com'è allora che l'arte è bella classica e misurata (e tutti lì a vedere la Venere la Nike), e la scrittura è brutta superflua e decadente (e tutti lì a non leggere)? Trionfo del luogo comune che inneggia allo spettacolo di facile accesso, e tutti in fila per l'orgia collettiva della visione dove non si vede niente? e la gente avanzando a marce forzate di piccoli passi collassa, non perché colpita dal 'bello' (tutto un falso la sindrome di Stendhal) ma perché manca l'aria, e quel po' che arriva ai polmoni sa di chiuso al naso e non arriva alla testa.
Se è cosi, e tutto è destinato al rapido consumo, è giusto che gli Epigrammi di Callimaco siano destinati a uno o due lettori, e dunque al diletto della lettura e della rilettura. Ma non è vero, e non era vero neppure ieri: a Roma, infatti, nel I secolo d.C. veniva graffito su una parete di casa un epigramma di Callimaco - diffuso tòpos letterario, presente anche in Lucrezio, Properzio e Ovidio. Dell'inopportuna serenata davanti alla porta dell'amato il poeta accusa il vino e la passione, e si scusa così: «Ma quando giunsi non gridai il mio nome/ o di chi sono: baciai la soglia:/ se questa è colpa, sì, sono colpevole». Questo epigramma è il XLII dell'edizione einaudiana che presenta, con il testo greco a fronte, i 63 epigrammi della tradizione manoscritta oltre a cinque frammenti  pervenuti  per citazione, amorevolmente curati con un ricco apparato di note e rinvii preziosi, e felicemente tradotti da Alceste Angelini.
Questi epigrammi possono anche essere un'occasione per rileggere Penna alla luce di Callimaco, senza supporre necessariamente una diretta derivazione, o Callimaco alla luce di Penna, non dimenticando quell'anima 'lithòleustos' (degna di sassate, da lapidare) che va a ragazzi e s'aggira smaniosa d'amore e per amore si sdoppia secondo un motivo antichissimo che comincia con Saffo, compare in Teognide, ritorna in Anacreonte e con Catullo approda a Roma.
E se l'amore è il demone del Simposio platonico che possiede l'amante infelice fino al punto di spolparlo e di ridurlo tutto «ossa e capelli», spia della passione è il vino che scopre le ferite nascoste, svela l'interno affanno, e in un guizzo popolaresco il 'doctus poeta' sigilla l'epigramma XLIII: «ladro riconosco l'orma del ladro» che in qualche modo è la battuta di Vitaliano Brancati «il ladro non vede che furti» nella Governante. (Ma perché Angelini traduce in terza persona usando la forma del proverbio, che invece Callimaco adatta alla prima persona? in questa traduzione così leggera e intonata, frutto di paziente lavoro, stupisce l'unica nota stonata «pel sole» di pag.63 - lapsus calami, forse, o hendekasyllabi.)
Numerosi accanto agli erotici gli epigrammi sepolcrali per i morti giusti, per i morti bambini, per i morti per acqua secondo la ricorrente metafora (la vita «traversa il mare come una folaga») che arriverà a quello scricchiolio linguistico e psicologico che è Il naufragio del Deutschland di Hopkins o a T.S.Eliot di Morte per acqua. Senz'acqua invece l'Allegria di naufragi di Ungaretti.
E sono epitafi reali, dettati da partecipe tenerezza e commo¬zione, o immaginari, nati per scherzo, enigma o scaramanzia. Notevole tra i primi è la storia tremenda di Basilicò, la ragazza di Cirene che, deposto sul rogo il piccolo fratello, non sopporta di vivere, e al tramonto si uccide. Tra i fittizi spicca il XIII dove modalità linguistiche del quotidiano, nel dialogo a tre voci (passante-tomba-defunto), vengono adottate, con effetti di deflagrazione, per raccontare dell'aldilà: regna il «buio pesto», di ritornare manco a parlarne, è tutta una balla e Plutone è una favola, però «un manzo costa appena un soldo giù nell'Ade». E c'è l’autoepitafio. In punta di penna il poeta dice che il figlio di Batto conosce l'arte di cantare e ridere nei banchetti - un modo elegante per ribadire la libertà di scelte formali.
E dunque coscienza di sé e della  propria  scrittura; lui, scaltro erudito, acre polemista e infaticabile catalogatore, autore di inni, elegie, epilli, epinici e forse anche drammi satireschi, commedie e tragedie, lui, «Ipponatte redivivo» dei Giambi, libresco e citazionista, non disdegna i versi leggeri, le battute fulminee e fulminanti, le ambiguità foniche, cui affida la parte sua più vera per quanto sofisticata, più privata per quanto ostentata.
Contrasti e dispute letterarie si stringono alla vita, in scorci narrativi e drammatici, calati nella dimensione della città reale - Alessandria con le sue strade e fontane, portici e teatri, e i larghi trivi dove i ragazzi giocano alla trottola. Ed è un paesaggio urbano dove il livello di vita materiale è fortemente migliorato rispetto all'antica polis: Alessandria è più bella, più ricca, più igienica e funzionale ai bisogni; non è soltanto vetrina di ostentazioni di potere e ricchezza, ma offre strumenti razionali per traffici, commerci e attività culturali.
Callimaco è uomo del suo tempo, di un mondo e di una civiltà che pure esibendosi nelle superdimensioni del Colosso di Rodi, del Mausoleo di Alicarnasso o l'ara di Pergamo, ama la piccola dimensione del cammeo e della gemma, la glittica e l'arte orafa (si veda nell'epigramma XLVII la descrizione della saliera in forma di navicella), produce macrosculture e microsculture, come le belle Tanagrine in terracotta, così dette da Tanagra in Beozia, di cui Alessandria fu grosso centro di produzione. E sono giovani in atto danzante, in pose flessuose, in vesti eleganti, figure di fanciulli e fanciulle intente al gioco o allo studio, ma anche animali e giocarelli, molti dei quali si leggono negli epigrammi votivi e descrittivi. E come la statuina coesiste col gigantismo statuario, così accanto al vasto poema cresce e si sviluppa l'epigramma con tutte le possibili fratture e variazioni dello 'stichos' originario, - il rigo inciso sulla stele funeraria o su un oggetto, - tipo la divertita iscrizione sulla cintura verginale, di un epigramma di Asclepiade, dove arte glittica e letteraria coincidono perfettamente. Che poi Asclepiade sia di Samo forse non è casuale.
A Samo, infatti, punto di passaggio tra occidente e oriente, tra Asia ed Egitto (dove l'arte di incidere la pietra dura aveva una tradizone millenaria), fin dal VII secolo a.C. l'arte orafa ha una grande fioritura con famosi maestri, da Teodoro a Mnesarco, padre di quel Pitagora che emigrando in Magna Grecia vieterà l'uso di anelli con figure divine...
E come alle grandi forme si contrappongono le piccole («non mi piace il raglio dell'asino ma il canto delle cicale», dice Callimaco), così ai grandi 'sentimenti' dell'epica o della tragedia si contrappongono quelli più quotidiani, e sono tutti lavorati, al modo dei vari materiali, dai più malleabili ai più resistenti, con estrema disinvoltura, con impiego di paronomàsia, assonanze e allitterazioni, con accumulo di decorazioni concettuali e musicali. Nel rifiuto dell'ideologia e nel trionfo del realismo, venato di spregiudicatezza e scetticismo, grande è la padronanza delle tecniche, potente il gusto di sperimentare in ogni campo del sapere, fino alle messa a nudo del corpo e al gioco infinito delle parti, per cui gli dei sono trascinati a terra e qualche volta pargoleggiano, come l'Eros paffutello.
Nel desiderio di dare «voce ai sassi», secondo il principio aristotelico di verosimiglianza, contano allo stesso modo il calco del cadavere (tanto di moda per i ritratti funerari, con la nuova tecnica messa a punto da Lisistrato, fratello di Lisippo, l'artista prediletto da Alessandro Magno) e il grappolo d'uva, nature morte e animali, avanzi di banchetto e piante, sia nelle arti visive, comprese le così dette minori, che nella scrittura. Nell'esperienza visiva, dell'immagine che arriva all'occhio e varia a ogni variare del punto di osservazione (per cui appare infinita la serie dei fenomeni, pur conservando ogni   fenomeno, cioè ogni aspetto della realtà, il proprio valore intrinseco) può succedere che sfuggano alla stretta sorveglianza, cui prima erano costretti, elementi di pathos, toni sentimentali. Fino all'esplosione, al grido, agli echi dell'eco.

“il manifesto”, 1 giugno 1990 

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