24.2.14

Gallino: il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale (di Adelino Zanini)

Recensione a Luciano Gallino Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa Einaudi, Torino 2013
Un titolo è solo un titolo, ma a volte dice molto. Non si esagera, chiede l’autore stesso, quando si definisce “colpo di stato” il potere che la finanza ha assunto, sia pure in misura crescente, nei confronti dei governi dell’Unione Europea? Inoltre: le responsabilità ricadono solo sulla prima o anche i secondi hanno cooperato in tal senso? E se la risposta a quest’ultima domanda fosse affermativa, si è trattato di mero errore, di un cedimento da parte dei governi medesimi, oppure “proprio di un colpo di stato concretatosi nell’espropriazione subitanea e categorica delle prerogative di cittadini e Parlamenti, effettuato solidarmente dalle banche e dai governi con la regia del Consiglio europeo e l’appoggio della Troika di Bruxelles?”.
La crisi economica da anni in atto non è casuale, né “naturale”, afferma Gallino: ha radici istituzionali e conseguenze sociali che non possono non incidere sulla democraticità degli scenari politici. Alla base di tale crisi vi è la stagnazione dell’accumulazione di capitali, già evidente negli Stati Uniti e in Europa negli anni settanta del secolo scorso. Stagnazione dell’economia reale e accumulazione finanziaria vanno lette perciò insieme (ed è per questo improprio interpretare la crisi come un evento relativamente recente, sorto dapprima negli Stati Uniti e poi allargatosi all’Unione Europea): “Paradossalmente – scrive l’autore –, un livello crescente per decenni di finanziarizzazione dell’economia a scapito dell’economia produttiva ha finito per convertirsi, a fronte del rallentamento della domanda di beni e servizi, e dei flussi di cassa che da essi si attendono, in un’ulteriore spinta alla finanziarizzazione”.
Ciò ha via via intaccato gli istituti della democrazia sociale, favorito il potere di penetrazione delle attività finanziarie, la produzione di denaro fittizio e, quindi, un’ampia socializzazione dei rischi. I “derivati” altro non sono che la forma più esplicita di questa socializzazione, non relati ad alcuna produzione di beni o servizi e in quanto tali equivalenti di fatto a tagliandi di una lotteria; capaci, ad esempio negli Stati Uniti, di far svanire in un attimo le speranze riposte in un ragionevolmente tranquillo ritiro dal lavoro. A essi è da aggiungersi la creazione illimitata di denaro prodotto da istituti privati (banche, in primis) mediante la concessione di credito, la predisposizione di titoli, l’operare della finanza ombra. E se è vero che il potere di creare denaro, privilegio fondamentale di uno stato sovrano, ha da sempre caratterizzato l’operare delle banche (moneta creditizia), l’averlo
interamente demandato a esse e a istituzioni economiche sovranazionali prive di responsabilità dirette ha determinato la perdita di controllo sulla creazione di liquidità e il conseguente venir meno dell’efficacia dell’intervento anticiclico in ambito economico (nazionale).
A tale venir meno hanno fatto seguito il costituirsi di un “complesso politico-finanziario” di nuovo conio e la palese dimostrazione di quello che Gallino definisce “il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale”, all’interno del quale vi sono ovviamente vittime e attori. Le prime sono i discendenti diretti della classe lavoratrice e dei ceti medi, in genere, i quali, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, sono stati penalizzati dalla stagnazione dei salari. Dei secondi colpisce anzitutto l’esiguità numerica, quantunque possa essere utile, in termini analitici, un’ulteriore distinzione tra chi (macroattori finanziari) ha direttamente manovrato le leve e coloro che ne hanno semplicemente tratto beneficio (senz’essere per questo esenti da responsabilità morali). Tali attori non hanno pagato costo alcuno per il loro operato e, grazie alla complicità delle principali istituzioni
economiche sovranazionali (la volontà delle quali ricade in via diretta sulle istituzioni nazionali, il cui agire conta ormai ben poco rispetto al governo della liquidità), hanno scaricato i costi della loro condotta sulle vittime stesse. Si tratta peraltro di costi che solamente in parte sono rappresentati dagli effetti immediati dei salvataggi; in misura ben maggiore, e tale da compromettere non solo il presente ma anche la sicurezza delle generazioni future, si tratta delle politiche strutturali di austerità, spintesi, ad esempio, sino a cancellare buona parte del cosiddetto modello sociale europeo. In tal senso, il progetto politico soggiacente al colpo di stato menzionato non consiste solo nel perseguimento di un generico dominio di classe, ma anche e soprattutto nella consequenziale privatizzazione dei sistemi europei di protezione sociale, al fine di dirottare verso il settore privato il bilancio di cui dispongono quei medesimi sistemi pubblici e che consta del 25 per cento del Pil dell’Unione Europea.
Cifre alla mano, dietro allo smantellamento del welfare non vi è quindi alcuna ragionata necessità di pareggio dei bilanci pubblici (disastrati, sì, ma per altri tipi d’intervento); vi è invece un progetto politico ed economico inteso a ricondurre nello spazio del mercato quanto non vi apparteneva (o vi si era sinora sottratto), mercificando i diversi elementi che contribuiscono alla protezione sociale e convertendo “una crisi nata principalmente dalla redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, in una distribuzione dei costi della crisi dall’alto verso il basso”.
Ciò che sarebbe stato molto più difficile da realizzarsi se un intero apparato ideologico non avesse cooperato a sostegno del credo neoliberale, attribuendo a organizzazioni internazionali che non godono di alcuna legittimazione democratica il privilegio di dettare, in accordo con il Consiglio europeo, “i rimedi per uscire dalla crisi, come se questa fosse stata causata da un eccesso di spesa sociale”. 
Un tale credo, del resto, ha informato da subito il Trattato sull’Unione Europea. A ragione perciò Gallino vi insiste in quelle che sono le pagine migliori del suo lavoro. Ma tra i pregi del libro è da segnalare anche la tensione morale fortissima che lo attraversa e che traspare ove l’autore delinea gli attacchi portati alla democrazia in Europa. Di qui la rivendicazione del primato dell’occupazione sulle altrimenti vane politiche per la crescita; della piena occupazione come fine e del lavoro come diritto; di nuovi modelli produttivi attenti alla crisi ecologica; in breve, l’esigenza, tenacemente affermata, di una riforma radicale, che riconduca la finanza al servizio dell’economia reale. Senza una tale riforma, all’autore non sembra infatti possibile individuare una via d’uscita dalla crisi attuale, né escludere un collasso sistemico ancor più grave di quello in atto. Asserzioni “ragionevoli”, da cui la discussione potrebbe partire, per approfondire, proprio e soprattutto, la distinzione – da altri definita “novecentesca” e quindi esplicativamente non più efficace – tra economia reale ed economia finanziaria: ciò che nell’accurata ricerca di Gallino rappresenta uno spartiacque.

"L'Indice dei libri del mese", gennaio 2014

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