7.4.14

Erotico esotico - Da un racconto incompiuto degli anni 90 (S.L.L.)

In uno degli esperimenti letterari mai portati a compimento, un lungo racconto o breve romanzo dal titolo Poesia, segnato nell'invenzione da un realismo improbabile e sghembo e nello stile dall'enumerazione caotica tardomedievale, c'è una storia d'amore tra il protagonista (tal Teodoro) e una geisha. In quel frangente mi cimentavo con pruriti e fantasticherie di sesso, sebbene l'erotismo propriamente detto sia concentrato e sterilizzato in una specie di digressione barzellettiera, una storia nella storia che ha come narratore un napoletano chiamato Vesuvio, o anche Pizza.
Ho sempre pensato che l'esperimento valesse assai poco, ma nutrivo per quelle pagine un affetto paterno. Riletto quel testo oggi – l'ho scritto vent'anni fa e sono almeno dieci che non ci butto un'occhiata - lo scopro datatissimo, al limite dell'incomprensibilità per i riferimenti e le allusioni, ma mi piace più del solito, forse per effetto della nostalgia. Ne propongo alcune pagine nella speranza che qualcuno legga e commenti “bravo!” oppure “che cazzata!” o le due cose insieme, il che mi darebbe un'intensa ma effimera felicità. Ma vanno bene anche commenti meno amorosi: uno spruzzo d'acqua diaccia può anche giovare. (S.L.L.)

5. Per fatal combinazion
Tali e consimili inconcludenti conversari si tenevano a casa dell’amico nel luglio del 1991, dopo un pranzo fin troppo abbondante ma sobriamente annaffiato, in un ampio salone arredato con ottocentesche credenze adattate a libreria dalle scansie ricolme di volumi di storia e diritto, sulle cui pareti spiccavano planisferi del Cinque o del Seicento, originali o in curata ristampa anastatica, incorniciati a giorno, intorno ad una rustica tavola da pranzo recuperata in una masseria e trasformata in scrivania, ad un angolo della quale, su una chiara tovaglietta di lino semplicemente ricamata a punto erba, erano poggiati una caraffa di cristallo semipiena di caffè amaro allungato, freddo ma non ghiacciato, e due bicchierini da un sedicesimo semivuoti di vetro soffiato, in una cittadina toscana con tante belle cose da vedere, ma fuori dai circuiti del turismo di massa.
Nello stesso pomeriggio vi giunse una geisha, in taxi. Veniva da Akasaka, ma si era formata a Kyoto.

6. Per la via
Aveva una moglie giovane l’amico, appassionata ammiratrice del marito, ma un po’ stupidamente femminista. Lei andava a prendere il té e a fare una passeggiata con una compagnia di coetanee, toccava a lui governare il neonato dalle quattro alle sette.
Teodoro non ne volle sapere di assisterlo nelle sue attività da balia: aveva già cresciuto due figli, si era strarotto di pannolini, poppate, ruttini, rigurgiti e interminabili ninne nanne, e l’odorino pungente di cacca infantile, che un tempo lo aveva riempito di tenerezza, ora gli faceva schifo. Andò nella strada, a quell’ora semideserta, alla ricerca di una farmacia.
Neanche duecento metri e un taxi giallo che procedeva in direzione opposta alla sua si accostò al suo stesso marciapiede e si fermò a dieci metri da lui. Come paralizzato contemplò una scena stupefacente. L’autista venne ad aprire la portiera posteriore e ne scese la geisha, sollevando delicatamente con entrambe le mani un lungo semplice kimono, di finissima seta color cinabro con ricami floreali in oro e un ampia cintura di raso azzurro. Il viso, come d’uso quasi completamente imbiancato, riluceva, forse per la sostanza oleosa e colloidale che fissava chissà quale fondotinta. Vi spiccava un rosso di zafferano che sottile allungava le ciglia e sottolineava labbra assai piccole. Il bello era che, agitando delicatamente un ventaglio di sandalo, ella avanzava verso di lui nelle pantofoline di stoffa con il passo clopin-clopant tipico della sua professione e, avanzando, gli sorrideva.
Come sempre gli accadeva quando doveva addomesticare l’imprevisto, Teodoro mise in fila velocissimamente quanto nella memoria, letteraria e non, richiamasse il Giappone: Luigi Tenco che orribilmente cantava La mia geisha, Cio-cio-san e le farfalle, samurai, kamikaze, karakiri, judo e jujitsu, L’impero dei segni di Barthes e L’impero dei sensi che aveva visto a Parigi, transistor, Honda, Yamaha, Suzuki e Kavasaki, la modernizzazione conservatrice e lo spirito Toyota, i ventagli di Govoni, l’Art Nouveau e la Sezession, le file di velocissimi turisti che attraversavano Firenze tutto fotografando, I sette samurai e, per associazione, I magnifici sette, La Chiave e il culo della Sandrelli. Decisamente troppo e troppo poco. I giapponesi gli erano antipatici. Maoista in gioventù, continuava a considerarli nemici.
Da ultimo gli tornò in mente il racconto di un napoletano, probabilmente pallonaro. In un momento di insolita ricchezza, turista nell’impero del sole, aveva voluto conoscere una geisha e aveva pagato caro lo sfizio, due milioni d’anteinflazione per una sera ed una notte in casa di lei.

7. Giallo napoletano
The, sakè, arpeggi, canti, danza, poesia, conversazione in inglese di economia, filosofia buddista e taoista, politica, il tutto con una profondità insolita per una donna. Agli approcci dell’ospite, stuzzicati dai movimenti aggraziati, corrispondono aggraziate prese di distanza. Solo dopo la cena afroasiatica, leggera, forse afrodisiaca, verso la mezzanotte lo conduce nella stanza del piacere e lo accomoda su un morbida stuoia. C’è accanto un secchiello col ghiaccio. “Arriverà lo champagne” - pensa il partenopeo. Accoccolata fa seguire carezze, solletichi, titilli, baci, succhiotti e ciucci dappertutto, su tutti i toni, dall’impercettibile al feroce, e su tutti i ritmi, dal lentissimo all’impetuoso. Vesuvio, a suo dire resistentissimo, arriva al punto di non poterne più. La geisha se ne accorge, afferra due cubetti di ghiaccio e glieli colloca sotto le palle.
Bloccato! Ecco a che serviva.
Si torna a conversare in inglese. Si parla del più e del meno, lui non vuole intervenire su questioni che attengono alla competenza professionale dell’amica. Intanto, non si sa come richiamata, la servetta sostituisce il secchiello. L’uomo si preoccupa ed ha le sue buone ragioni. Nuovi giochetti, nuovi cubetti, nuove conversazioni, nuovi secchielli si susseguono a rotazione continua, fino alle quattro. Il borbonico è al limite. Ora la geisha lo cavalca, all’orientale, e ne agevola la penetrazione. Ma la speranza è ancora disillusa: sul più bello arrivano i cubetti. Stavolta lui si lagna. “Potevi dirlo prima” dice lei in inglese.
“Solo all’alba - concludeva Pizza - sono arrivato alla fine. E lo sfogo aveva le proporzioni della fontana di Trevi”. Sicuramente esagerava.

9. Seguire gl’impulsi
Mentre Teodoro mentalmente si riconfortava con queste cazzate, la donna gli giunse caracollando a portata di mano, accennò un inchino e, con pronunzia correttissima e insospettata disinvoltura, disse: “Mi perdoni, signore, se non la chiamo onorevole, ma so che in Italia l’appellativo può suonare come un insulto. Saprebbe dirmi ove posso trovare la villa Clitennestri ?”.
Teodoro spiegò balbettante che il cognome gli era noto, ma che, non essendo del luogo, non sapeva aiutarla; trovò tuttavia il coraggio di domandare cosa mai andasse a fare nella dimora del famoso ministro socialista.
La stella d’oriente portò il ventaglio davanti alla bocca, come per nascondere una risata, e cominciò: “Glielo dirò molto volentieri, mio buon signore più curioso che discreto”. Era stata ingaggiata per allietare un week-end di politici e imprenditori d’assalto anche per la perfetta conoscenza dell’italiano, con un compenso favoloso e proporzionati rimborsi-spese. “Noi giapponesi - concluse - abbiamo i liberali, voi italiani i socialisti”.
“Beh, veramente, noi italiani abbiamo anche i liberali. E i socialdemocratici, e i democristiani, e altri ancora” - disse Teodoro. “Però! - pensò - Il napoletano aveva ragione. Ne capiscono davvero di politica. Come avrà fatto a capire che non sono socialista?”.
Dopo un nuovo inchino e un tradizionale sayonara gli volse le spalle. La pelle, nella postura frontale del tutto celata da abiti e trucchi, era adesso valorizzata dall’ampia scollatura. Quella nuca, solo in parte coperta da bistri, era più eccitante del culo della Sandrelli. Teodoro cedette all’impulso. Chiese, alzando un po’ la voce: “Ha mai visto la fontana di Trevi?”.
La geisha volse il capo: “Sì, signore, ed anche il Colosseo e il Cupolone”.
Teodoro corse verso di lei e gridò: “Ti amo. Parti con me. Vieni a Malindi.”.
Lei rispose serena: “Sì, signore !”.

10. L'amore cieco
Chissà perché la geisha aveva accettato. Teodoro non era un Adone e non aveva la faccia da ricco. Ma anche lei lo amava e l’amore è cieco, o piuttosto ha un’altra vista, capace di penetrare l’opaco e percepire l’altrove, come i poeti, telescopica e radioscopica, come Nembo Kid.
Malindi aveva detto Teodoro, e non Budapest o Tegucigalpa, ma per il Corno d’Africa non aveva alcuno speciale interesse. Forse gli era scappato perché lì viveva, tra il villeggiante e l’affarista, un antico compagno di dissipazione, Tigrotto.
Sette giorni a Roma, lo stretto necessario a svendere per procura un magazzino ereditato in Sicilia, incassare il malloppo, agganciare Tigrotto acciocché gli procurasse a Malindi una sistemazione confortevole e non proibitiva.
Hotel Raphael, quello di Craxi, ma anche di Agostino, un suo paesano che lì faceva il portiere di notte e otteneva lo sconto del cinquanta per quelli che presentava come parenti. Camera squallidina, non dico incimiciata, ma con un sentore sgradevole di disinfettanti e disinfestanti, anche per mascherare l’olezzo di stantio, non come l’ala craxiana, totalmente rinnovata e rinfrescata. Unica consolazione le arachidi salate nel frigobar e la vicinanza con piazza Navona.
Sette giorni d’amore, come in gioventù, come in un film osé. Così era nei voti. Ma a Kyoto non lavorano sulla tecnica, curano piuttosto l’adji e le sue impalpabili malie, e nelle camere d’albergo i giochi d’atmosfera sono molto pericolosi. Se ne immetti troppa, la pressione cresce a dismisura e rischi di scoppiare.
Al Raphael, pertanto, si trattenevano l’indispensabile: scarsi i sonni notturni, ridotte al minimo le voluttà del sesso, una sveltina postprandiale opportunamente seguita da una breve pennichella. Piuttosto Ottone sperimentava gioie ineffabili in certi contatti estemporanei, di quelli ridicoli, trastulli innocui per bambini scemi, il popi popi alle mammelle, il ganascino alle guance, il tiraggio delle orecchie, all’in su o all’in giù. Più volte durante la giornata, di preferenza in pubblico, sentiva salire prepotente un desiderio di pizzicotto mordiefuggi, da azzeccare nell’interstizio tra vulva e sfintere, ma gli abiti orientali che la geisha s’ostinava ad indossare rendevano pressoché impossibile la manovra.
Passeggiavano.
E l’estate romana, soli, pini, scalinate, tramonti, venticelli serotini, zefiri sereni e ponentini complici, pittori di strada, musicanti collettori, norcini, fruttaroli, negri, negre, palazzi principeschi, parchi, ruderi imperiali e facciate barocche, gatti randagi, bar e clacson, componeva un fondale perfetto. Non che si guardassero intorno, passeggiavano e parlavano, ma in fondo sapevano che Roma era lì, sfarzosa e miserabile, satolla e allupata, divina ed infetta, gloriosa e indecente, sfavillante e puzzolente, Roma papalina e pasquinesca, monarchica, aristocratica e repubblicana, Roma imperiale, Roma fragile ed eterna, Roma casta e pervertita, magica, fratacchiona, Roma. Altro che vacanze, era come marinare la scuola.
Ma ai piaceri della carne non rinunciavano, andavano per trattorie, al ghetto, a Trastevere, al Testaccio, abbacchio, coda alla vaccinara, trippa, matriciana e puttanesca, carciofi alla giudìa.
Non ha occhi l’amore, ma quanto mangia!


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