13.4.14

Giuseppe Di Vittorio e il popolo lavoratore (Luciano Lama)

A cura del segretario generale della Camera dei deputati e su deliberazione dell'assemblea nel febbraio del 1973 venne pubblicato il primo volume dei discorsi parlamentari di Giuseppe Di Vittorio, presentato dal presidente della Camera, Sandro Pertini. Il volume comprendeva i discorsi del 1921-24 e dal '45 al '48. “Rinascita” pubblicò in anteprima una parte della prefazione scritta da Luciano Lama, al tempo segretario generale della Cgil, quella che è qui postata. Luciano Lama non è un dirigente che ho amato e più di una volta ne trovai le scelte sbagliate, ma il ritratto che qui traccia di Di Vittorio e del suo ruolo nella storia del sindacato in Italia, mi pare precisa e suscettibile di arricchimenti e approfondimenti. (S.L.L.)
Giuseppe Di Vittorio fu il leader che più autenticamente, nel secondo dopoguerra, portò nel Parlamento della repubblica le istanze e le aspirazioni direttamente provenienti dal popolo lavoratore. Di «popolo lavoratore», appunto, egli preferiva parlare anche se sapeva più esatta scientificamente, e ideologicamente più penetrante, la nozione di «classe» che gli veniva dalla sua formazione e milizia comunista. Ma dicendo «popolo lavoratore», Di Vittorio non faceva dell'oratoria: riteneva politicamente nobilitante una concezione e una immagine nella quale la classe operaia non fosse mai isolata, concettualmente in vitro e socialmente separata.
C'è tutto un bagaglio di espressioni che, nei discorsi e anche negli scritti di Giuseppe Di Vittorio, evocano una visione non chiusa e non «operaistica» della classe e del sindacato stesso. Con questo suo peculiare approccio, Di Vittorio non intendeva certo operare una diluizione del potenziale antagonistico di classe, ma renderlo trascinatore di più vasti strati a cominciare dalle famiglie dei lavoratori per finire ai gruppi più emarginati, quelli ai quali il movimento operaio rischia sempre di dare poco spazio e quindi poche prospettive. Per Di Vittorio era inconcepibile pensare, ad esempio, soltanto ai lavoratori occupati o ai lavoratori attivi. Nel suo afflato popolare — mai genericamente solo umanitario — Di Vittorio è stato forse il dirigente sindacale italiano che più incessantemente ha combattuto contro il corporativismo (esplicito o mascherato) che sempre tenta di tare capolino nell'azione sindacale.
Di Vittorio, nella sua dura esperienza di bracciante, sapeva bene che una unità d'intenti e di lotta fra l'occupato e il disoccupato può solo esser frutto di forte ed organizzata volontà soggettiva; oggettivamente, molto concorre infatti a dividere chi ha un lavoro da chi non ce l'ha. Ancora più fortemente egli sentiva la divisione del paese fra nord e sud, fra operai e contadini, e l'esigenza di superarla facendo leva sulle coscienze per cambiare le strutture, e per questo ripeteva spesso nei suoi comizi, e senza la minima retorica: «Fratelli lavoratori!».
In questa tenace lotta a ogni uso restrittivo della nozione di « classe », cioè ai rischi di un antagonismo minoritario o di corporativismi latenti, Di Vittorio staglia la sua figura di dirigente e stabilisce il divario radicale che lo distingue dal suo predecessore Rinaldo Rigola. Fra i due leaders della prima CGdL e della prima CGIL, come fra le due confederazioni, c'è sì una distanza storica ma ancor più una diversità politica, anche se entrambi furono artefici della nascita d'uno strumento sindacale unico per tutte le categorie e per tutte le regioni e se entrambi portarono nel Parlamento la voce di milioni di lavoratori organizzati. Se Rigola, nel periodo che precedette il fascismo, fu il simbolo della prima unità di tipo organizzativo, realizzata dal movimento sindacale in Italia come somma (più che fusione) delle varie professioni operaie esistenti, Di Vittorio fu, dopo il fascismo, il simbolo, oltreché il protagonista, della prima unità realizzata politicamente su un ormai lontano disegno organizzativo già collaudato e per molti aspetti da superare.
Questa « nascita politica » del sindacato, questa vera « rinascita » espressa nel Patto di Roma del 44, aveva per contrassegno una linea di unità nazionale antifascista che metteva da parte lo spirito categoriale mediato dalla vecchia confederazione con l'apporto di uomini come Rigola. La mediazione pre-fascista, nel movimento sindacale, aveva una caratteristica che si rifletteva anche in Parlamento: c'era uno scompenso, una contraddizione tra l'invocazione dell'interesse di classe e la pratica del compromesso riformistico spesso deteriore. Il sorgere di movimenti e poi di organizzazioni vere e proprie alla sinistra della CGdL (e Di Vittorio si formò proprio lì), era un indizio assai chiaro di quella contraddizione. Di Vittorio porta dunque il rifiuto d'un «classismo» parolaio ma cedevole, tipico di tutta la II Internazionale, e nella nuova CGIL versa il suo ostinato convincimento che una lotta fatta solo dalla classe in senso stretto, non esiste a rigore neppure per l'azione sindacale; e tanto meno per quella politica che alle alleanze, agli schieramenti e alle mediazioni complesse di validità sociale è sempre istituzionalmente rivolta.
Di Vittorio, nel Parlamento repubblicano, era insomma espressione e fautore d'un movimento sindacale che nella sua prima fase aveva realizzato una sommatoria intercategoriale, e che si ripresentava stavolta ai lavoratori sulla base di un patto politico fra le forze protagoniste della Resistenza. In ciò, la distanza rispetto all'esperienza della vecchia CGdL (o della CIL « bianca ») era ancora maggiore. Non c'è chi non veda, in molte vicende ormai classiche del sindacalismo europeo, di ceppo anglosassone o continentale, un nesso insistente fra categorialismo e partitismo. Non alla sola CGdL italiana, infatti, si può retrospettivamente imputare l'incapacità di fare uscire le avanguardie operaie dall'isolamento, e di allargare l'organizzazione al di là del partito elettivo; l'inizio degli anni '20 è indicativo di limiti storico-politici che soltanto un mutamento di rotta avrebbe potuto consentire di superare. Il sindacato che è legato a un partito, la confederazione che subisce l'egemonia della categoria « forte »: questi sono fenomeni tuttora presenti, in altre realtà nazionali.
Orbene, Di Vittorio ereditava un valore, peculiare al movimento sindacale italiano, che pochi avrebbero potuto mettere a frutto meglio di lui: il carattere proletario e anticorporativo, unitario e unificante, delle Camere del lavoro. Questa inestimabile struttura, che precede la nascita della CGdL e che si emancipò anche dai suoi artefici francesi, era la principale garanzia del carattere popolare di tutto il movimento. Ai tempi della vecchia CGdL, questa struttura (e Di Vittorio ne fu uno dei dirigenti, a Bari e nella sua Cerignola) finì con l'essere prevaricata dalle potenti e moderne federazioni di categoria, perché era diventata un terreno di scontro eminentemente politico. Ma l'intuizione e l'esperienza non potevano perdersi.
Si può dire perciò che Di Vittorio, come leader del movimento sindacale, si richiamava al «popolo lavoratore» più che alla classe, non solo per temperamento ma per precise ragioni politiche e ideali. Impersonava infatti un'organizzazione che, dopo il ventennio della dittatura, sorgeva sulle basi di una unità organizzativa collaudata, in cui si recuperava tutta la virtualità del momento «orizzontale», e di una unità politica nuova la quale rompeva i vetusti steccati fra «bianchi» e «rossi» e garantiva la coesione programmatica attraverso una dialettica anche ideale. Per via strutturale e per via politica, la CGIL nasceva insomma con una unità vasta, senza precedenti, che rompeva sia il predominio isolazionistico delle categorie, più grosse o compatte, sia il legame istituzionale col partito elettivo, che era da noi — ed è ancora in molti paesi — il socialista. Il disegno della dialettica aperta (fra correnti ideali precipitò poi, nel '48, non tanto per suo vizio congenito quanto e particolarmente per la «guerra fredda» che spingeva da ogni parte verso le comode tentazioni di tornarsene «ognuno a casa sua». Ma se la scissione provocata dalle forze ohe non seppero sottrarsi al ferreo richiamo dell'atlantismo spezzò l'unità della CGIL nella sua raggiunta compiutezza, l'ispirazione ad una unità organica — strutturale e politica — non venne meno nella CGIL e in Di Vittorio, primo a riparlare dell'unità dopo la scissione e a rivolgersi sempre ai lavoratori di tutte le fedi e correnti politiche. Per Di Vittorio, anzi, il «popolo lavoratore» era una entità nella quale l'affinità d'interessi e di ideali non contrastava con la rispettiva collocazione politica di ognuno, pur senza arrivare ad una omogeneità teorica di classe.
La CGIL deve molto a Di Vittorio per aver mantenuto, in tutti quei difficili anni di discriminazioni verso sinistra, una forza grande, maggioritaria. Ma è il paese che deve molto a un dirigente come Di Vittorio. Il Piano del lavoro che con passione egli lanciò nella CGIL nel '50, fu l'espressione più alta — avrebbe detto Antonio Gramsci —- del suo essere «popolare e nazionale». Nel senso, tra l'altro, che l'avversario di classe ne usciva isolato perché l'attacco più veemente (e Di Vittorio non era né voleva essere «diplomatico») veniva sferrato contro coloro che venivano considerati i principali responsabili di questa situazione.
Di Giuseppe Di Vittorio è stato detto che era un figlio del popolo, e mai espressione come questa fu meglio usata. (Il suo lontano predecessore, Rigola, era un operaio altamente qualificato di vecchio tradizionale mestiere: anche lui figlio del popolo, ma con un minimo di traguardo sociale già raggiunto in virtù della acquisita professionalità operaia). Da qui vengono i suoi tratti umani, che sono peraltro coerenti fino in fondo con gli orientamenti politici. Di Vittorio si sentiva realmente, non oleograficamente o paternalisticamente, una parte di quel “popolo lavoratore”. Rispetto e stima
degli avversari politici e dei - si dice oggi — partners sindacali, sono unanimi e noti. Anche quegli uomini che più duramente sferzava con la sua polemica-infuocata e tagliente, ebbero per lui un apprezzamento indiscutibile.
I discorsi parlamentari di Di Vittorio, oltre ai connotati fin qui accennati, consentono di cogliere un'altra caratteristica dell'uomo e del dirigente. Autorevole esponente comunista, Di Vittorio aveva del Parlamento, diciamo così, post-leninista maturala nella seconda metà degli anni '30. Come politico, egli aveva anzi contribuito ad elaborare una tale concezione dalle colonne dello Stato operaio a cui lavorò in Francia. Il Parlamento, dunque, non era soltanto una «tribuna». E d'altro lato non era solamente una «macchina per legislazione sociale», com'era stato visto fin dai suoi primi predecessori, i gloriosi tradeunionisti, Keir Hardie e John Burns. L'attività parlamentare di Di Vittorio, segretario generale della CGIL, è un riuscito impasto di iniziativa e di denuncia, di agone politico e di promozione sindacale. Per esempio, fu Di Vittorio che, fra gli esponenti della sinistra, diede uno dei maggiori contributi alla definizione del dettato costituzionale, particolarmente per le materie sociali (a cominciare dal ruolo conferito al lavoro nell'articolo 1 e al conseguente diritto di sciopero dell'articolo 40). Ma quando l'offensiva padronale contro il sindacato e le lotte portò a drammatiche condizioni di illibertà nei luoghi di lavoro, Di Vittorio fu il primo che nel 52 sentì il bisogno di presentare, ante litteram, il progetto di uno «Statuto dei lavoratori» che — come dire — desse forza applicativa al disposto costituzionale. Sull'altro e parallelo versante, fu Di Vittorio che recò a tutto il paese, dall'aula di Montecitorio, la proposta avanzata dalla CGIL ma sostenuta da vaste forze, per quel Piano del lavoro che affrontasse la gravissima crisi di occupazione in un clima di concordia nazionale. E non fu la sola volta: nel '52 ci fu anche l'impegno a sostenere, come movimento sindacale, qualsiasi governo che si fosse impegnato in un'azione di pace la quale scongiurasse il pericolo atomico e la svendita della sovranità dell'Italia.


“Rinascita”, 2 febbraio 1973

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