28.4.14

Canapa curativa (da "micropolis" - 27 aprile 2014)

La demonizzazione, che negli Stati Uniti d'America colpì la canapa indiana fin dagli inizi del secolo scorso attraverso vere e proprie campagne d'opinione, aveva connotazioni se non razzistiche almeno etnocentriche. Il nome con cui si chiamarono le sigarette riempite con le foglie di quella pianta, marijuana (“mariagiovanna”), ne designava la provenienza dal Sud, dalle terre degli “ispanici”, e ad esse vennero subito associati comportamenti criminali piuttosto gravi. Anche per gli effetti di lungo periodo di quelle campagne, il proibizionismo verso il fumo di quelle foglie e quello dell'hascish, diffuso in tutto l'Occidente industrializzato, ha creato una sorta di barriera non solo intorno alle varietà di Cannabis (l'indica, appunto, e la sativa) che contengono in quantità elevate il famigerato THC, l'agente che rende psicotrope foglie e resine, ma perfino intorno alle canape usate per i tessuti, in cui il principio attivo è assai poco presente. Particolarmente grave è stata poi la proibizione dell'uso terapeutico dei derivati della cannabis. Sebbene ostacolati dalle autorità esistono ormai da decenni studi seri, con sperimentazioni più che attendibili, che comprovano l'efficacia di farmaci a base di “cannabinoidi” in numerose patologie e particolarmente contro certi dolori quasi insopportabili. La scelta dei governi è stata però, in genere, quella di ostacolare la produzione e l'uso della cosiddetta “marijuana terapeutica”, proibendo ogni coltura della pianta, con la scusa dell'esistenza di farmaci ugualmente o maggiormente efficaci. Tutto ciò ha spinto diversi sofferenti, singoli o in gruppo, sulla via dell'autocoltivazione illegale oppure a costose importazioni.
La battaglia politica per la legalizzazione delle cure a base di canapa, iniziata una trentina di anni fa, ha ottenuto buoni successi negli Stati Uniti, ove – in seguito a referendum popolari – una decina di Stati ha spezzato il proibizionismo, ma continua una sorta di guerra – a volte aperta a volte sotterranea e strisciante – delle istituzioni federali antidroga per sabotare le nuove, più tolleranti legislazioni. In Italia la strada per una legislazione regionale favorevole alla marijuana terapeutica distribuita dal servizio sanitario pubblico è stata aperta nel 2010 dalla Puglia. Leggi analoghe sono state promulgate negli anni successivi da altre regioni, specie dopo che il governo Monti ha emanato direttive che in sostanza convalidavano l'efficacia delle cure. Il Consiglio Regionale dell'Umbria, ai primi d'aprile, sulla spinta del pronunciamento contro la Fini-Giovanardi della Corte Costituzionale, ha finalmente approvato con un voto trasversale (contrari solo i Fratelli d'Italia) una legge in materia: la Regione è la nona del gruppo e la sua legge, a sentire gli esperti, è ben fatta, la più avanzata, giacché i farmaci a base di derivati delle canape, dopo il placet ospedaliero o specialistico, saranno dispensati gratuitamente con ricettazione del medico di base. In più s'è deciso – per ridurre i costi – di avviare sperimentazioni produttive controllate nel territorio regionale. Il nostro augurio è che questa vittoria del buon senso scientifico apra le strade in Umbria e in Italia a politiche sulle droghe che abbiano come criterio la riduzione del danno individuale e sociale e che contemplino la legalizzazione, ormai più che matura, dell'uso di droghe leggere controllate. La nostra preoccupazione è che in Umbria accada quel che è successo nelle vicine Marche, ove al Consiglio Regionale, nel marzo scorso, una interrogazione dei Verdi denunciava come la legge sulla marijuana terapeutica, emanata un anno fa, sia tuttora totalmente disattesa.  

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