16.4.14

Ovidio il "francese". Il fascino sempre attuale delle “Metamorfosi” (Paolo Mauri)

Il Narciso del Caravaggio
Pubblio Ovidio Nasone era francese? A dirlo, cioè a dire che tra i poeti antichi era quello che avrebbe avuto l'aria meno forestiera alla Corte di Luigi XIV, fu in pieno Settecento il conte Francesco Algarotti che lo trovava brillante, cultore del meraviglioso e in più galante e cortigiano quel tanto che — se conveniva ad Augusto — non poteva spiacere a Luigi. Una boutade (uno «scherzo poetico», secondo il Tiraboschi) eppure con quel tanto di vero che i paradossi contengono sempre.
A rileggere oggi le Metamorfosi — appena ripubblicate da Einaudi con una nota di Italo Calvino e con introduzione e vivacissima traduzione a fronte di Piero Bernardini Marzolla, si possono commettere « peccati » anche maggiori di quello consumato dall'Algarotti: immaginare che il suo Giove, sempre alle prese con trafficati adulteri, s'infili per esempio — nell'Albergo del libero scambio o che balli il tiptap con Fred Astaire come partner in un girotondo di ninfe...
Gran teatro delle meraviglie, le Metamorfosi possono «anche » funzionare da deposito o miniera, da grande enciclopedia del racconto possibile con una ricchezza di repertorio che non per nulla ha fruttato molto a chi (Dante, Boccaccio, Lope de Vega tra i mille) ha deciso di servirsene. Il ventaglio amplissimo dei toni e dei generi, dal tragico all'epico, dai grottesco al burlesco, sono un invito irresistibile all'estrapolazione,, un suggerimento continuo a giocar di metamorfosi anche coi contenuti, quasi come se Ovidio avesse messo in moto una maccina dei racconti incapace di arrestarsi e ammaliatrice come poche altre.
Come resistere allo stupendo episodio del miscredente Erisictone, punito per aver violato una quercia sacra a Cerere e quindi invaso dalla terribile Fame? Sconvolto da una insaziabile voracità, eccolo approdane a dimensioni rabelesiane e subito dopo impennarsi in una perfetta «trouvaille» di stampo boccaccesco. Per liberarsi dalla terribile ospite, Erisictone vende la figlia; ma essendo costei stata amante di Nettuno, chiede ed ottiene la facoltà di trasformarsi e gabba il suo padrone mutandosi all'istante in un pescatore. L'esito è bellissimo: appena scopre questa facoltà della figlia, Erisictone «la vendette più volte, a più padroni. E la nipote di Triopa li piantava andandosene ora cavalla, ora uccello, ora vacca, ora cervo, e in questo modo procurava all'ingordo genitore viveri non meritati ». L'esito è dantesco: Erisictone mangia... se stesso.
L'operazione, si dirà, è arbitraria. Ma quanto poi? Ovidio realizza il sogno allucinato di Borges e la lettura diventa come un fiume che cammina ail'indietro, verso la propria antichissima e inesauribile sorgente.
Ma se ci limitassimo a vedere in Ovitìio una spedie di grande bibliotecario, capace finalmente di ordinare tutta la sapienza mitica che va dalle origini del mondo ai giorni suoi, avremmo in fondo ceduto il passo ad una considerazione pensino ovvia. Come catalogo di circa duecentocinquanta trasformazioni le Metamorfosi rischiano di diventare noiose e prolisse; il filo che sostiene la narrazione non è quello lievissimo che intreccia in un gioco di scatole cinesi un racconto con un altro, ma è la sottintesa vocazione a fare della «trasformazione» il simbolo dalla vita, di un inarrestabile fluire verso la finale degradazione del corpo. Sebbene sia suggestivo il richiamo all'attenzione «scientifica» con cui Ovidio descrive le forme animate e inanimate (ne parla uno strutturalista sovietico ampiamente commentato da Bernardini Marzolla) Ovidio è ai nostri occhi «scienziato» in un altro senso. Come poeta, e proprio perché vive in un'epoca che ancora mescola scienza e poesia, può permettersi il lusso di un poema che abbracci il Tutto, sciogliendolo nell'infinita varietà delle cose. Dall'età dell'oro, in cui il mondo è immobile in una eterna primavera, in un'assenza di contrasti comincia a scandire le malefatte degli uomini e degli dèi tino alla prima apocalisse, al grande diluvio che restaurando una condizione geologica preumana riporta ala partizione fatale tra mare e terra.
Di lì, da Deucalione e Pirra, unici scampati, la creazione comincia: e sono uomini che nascono dalle pietre e poi Febo che insegue Dafne trasformata in lauro e poi Fetonte che vuoi sfidare il cielo guidando il carro del Sole suo padre e precipita la Terra in una vera e propria età del fuoco dove tutto brucia e «dicono che fu allora che il popolo degli Etiopi per l'affluire del sangue a fior di pelle, divenne nero ». E man mano nascono animali e stelle e Cicno diventa il cigno e Gallisto, figlia di Licaone ohe le già divenuto lupo, cede a Giove e da Giunone viene mutata in orsa e come tale splenderà in cielo. E poi Atteone vede Diana nuda e senza sua colpa e divenuto cervo sarà sbranato dai suoi stessi cani. Clizia si ammala d'amore e diventa un girasole. Ermafrodito, concupito dalla ninfa Salmàcide, si fonde con lei.
E ancora le figlie di Minia, colpevoli per aver disdegnato Bacco, il nuovo dio, si mutano in pipistrelli. Atlante si gonfia a dismisura e diviene un monte. Ciane si liquefa e diviene acqua. Perseo con in mano la terribile testa di Medusa pietrifica più di mille guerrieri. Muoiono i mostri uccisi dagli eroi, i fiumi inseguono sogni d'amore e di gloria, gli dèi recitano abbassandosi a trucchi da teatrino parrocchiale e Pallade «si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone»: Latone, trasforma i Lici maleducati in rane; Pelope, squartato dal padre, viene ricomposto dagli dèi, ma un pezzo del suo corpo non si trova più e viene quindi sostituito da una protesi d'avorio. In una girandola continua di eventi i corpi protagonisti si mescolano con le cose: il mondo vive, rapido, incontenibile, quasi indipendentemente dagli dèi stessi, spesso ridotti a dimensioni umanissime, preda di gelosie meschine, incarnazione o travestimento di astuti politicanti o mestatori più che non creature superiori: comunque immuni dall'onnipotenza, legati a ruoli o luoghi, eroi episodici...
In tutto questo, mentre il poema corre verso una conclusione d'obbligo, imposta dalla storia, a cantare le glorie romane dei contemporanei e si leva, nel finale, Pitagora a suggellare un discorso che abbraccia tutti e quindici i libri, trionfa il sesso e l'improvvisa fiamma d'amore che coinvolge dèi e umani in amplessi boscherecci e furtivi o in sconvolgenti passioni. Eh già: perché c'è anche Narciso e c'è Eco e ci sono acque innamorate che si mescolano per restare unite per sempre. C'è insomma tutto il possibile e il pensabile in fatto di miti, che è come dire che c'è il simbolico di tutta una concezione del mondo, già materia sacra ed ora favola se si vuole eruditissima, ma ancora e per sempre avvincente. E questo, crediamo, è il «segreto» di Ovidio: aver tentato la descrizione poetica dellinafferrabilità; poiché, se è vero che ogni storia si conclude e di corpo invecchia o si fissa in una forma nuova, è anche vero che il fluido vitale continua a circolare per proporsi in forme sempre nuove e per dar vita a forme sempre nuove, sicché il contenente diventa un nuovo contenuto e la «narratività» stessa si autopropone come simbolo dell'essere.
E in più c'è il candito della malizia di un poeta-demiurgo che conosce benissimo le proprie debolezze, che ha una precisa coscienza storica e sa «gestirsi» assai bene. Certo, quel che di gioioso c'è nelle Metamorfosi non è tutto Ovidio. C'è anche (ed è stato ben sottolineato da Bernardini Marzolla) un senso di morte, una vena di pessimismo profondo. Il corpo decade, l'atleta Milone contempla i suoi muscoli ormai inflacciditì. Elena piange scoprendo le sue rughe in uno specchio... La trasformazione esige l'idea della corruzione e del resto il mondo di Ovidio è un mondo geograficamente (per noi) risibile, il carro del Sole, cadendo per la sciagurata guida di Fetonte va a finire nel «lontano» Po e l'Ade sembra, per quanto freddo e spaventoso, molto a portata di mano. Ma quel mondo è diventato, come ben sappiamo ancora oggi, il principio di tutto quello che ci riguarda e il poema di Ovidio ne ha riprodotto l'aurora e temuto la fine.
«E ormai ho compiuto un'opera che né l'ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che tutto rode potranno cancellare», scrive nel congedo. Grande blagueur, naturalmente. Ma tutti i torti proprio non li aveva.

“la Repubblica” mercoledì 16 gennaio 1980

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