29.10.14

L'inferno e l'ostia consacrata. Gli studi di Camporesi (Michele L. Straniero)

Raffaello, Disputa del Santissimo Sacramento, particolare, Palazzi vaticani, Roma
Partendo dai suoi studi di letteratura italiana (materia che insegna all'Università di Bologna), il professar Piero Camporesi è arrivato inopinatamente all'Inferno. Un inferno di parole, naturalmente, che si colloca — nell'urbanistica del mito cristiano — appunto in luogo basso, nei sotterranei di quel triplex habitaculum che Dio stesso ha allestito e che comprende due piani stabili (l'aldilà celeste e quello infero), tra i quali sta come sospeso il nostro mondo terrestre, a differenza di quello destinato a perire.
La conoscenza del testi e la loro assidua, divertita frequentazione, consentono all'autore (già ben noto per le sue escursioni terrificanti nel Paese della fame, tra la Carne impassibile e il simbolismo del sangue inteso come Sugo della vita, avviate con successo a partire dal 1978) un caleidoscopico itinerario infernale nel suo nuovo saggio La casa dell'eternità, (Garzanti). Vi s'incontrano, come da copione, tutti i più raffinati e afflittivi tipi di pena che l'immaginazione sadica degli autori più pii ha saputo escogitale a partire dallo scritturale «pianto e strider di denti» (Matteo 8:12).
Naturalmente «il mulino del tempo e la macina dei secoli — osserva Camporesi — hanno alterato non solo gli spazi e gli scenari del mondo sotterraneo ma, funzionali al ricambio sociale, alla modificazione del costume, alla formazione di nuovi ceti e gruppi sociali, alle mutazioni culturali, hanno delineato nuove invenzioni nella tipologia dei peccatori e dei dannati, una nuova utenza delle pene».
Dal modello dantesco, feudale e comunale, si passa a quello della Controriforma, entro il quale trovano posto — grazie a una casistica enumeratoria degna del grande secolo barocco — «legulei scorretti, notai mendaci, speziali contraffattori di medicamenti, mercanti disonesti, chirurghi che tormentavano il paziente tenendo aperte con vari artifici piaghe e ferite, macellai che rubavano sul peso, osti adulteratori di vino, [..,] religiosi incontinenti, offensori dei superiori e comunque di poco rispetto per i gradi più elevati, prelati, confessori, predicatori impari al loro grado o inetti al loro ufficio, profanatori di sacramenti, istigatori al meretricio di mogli e figlie, giuocatori di carte e di dadi, saltimbanchi, buffoni e frequentatori di bettole e bagni, spensierati ingrassatori della carne» e così via, per pagine e pagine, con evidente divertimento linguistico dell'autore e dei suoi lettori.
Miniera inesauribile di tali descrizioni sono I grandi quaresimalisti del secolo, soprattutto i gesuiti (Gluglaris, Zuccarone, Orchi — nomina sunt omina! — Corto Gregario Rosignoli) e il padre Paolo Segneri, che rappresenta l'inizio dell'attenuazione settecentesca, un prodromo del razionalismo e della successiva lenta decadenza di un «Dio neroniano» che era «moneta corrente nei pulpiti del Seicento».
La profanazione dei sacramenti, alla quale il Medio Evo fu a sua volta assai sensibile, offre a Camporesi un ponte per completare il suo saggio passando a trattare dell'ostia, ossia del pane azzimo consacrato attorno al quale si costruisce la Messa, il momento più alto del culto cristiano. «E' difficile oggi rendersi conto — nota Camporesi — della forza irradiante del "pane di vita", del fascino della particella nella quale era calato prodigiosamente un dio nascosto e invisibile; misurare la suggestione emanante da un concentrato di divinità miracolosamente imprigionato in un fragile dischetto di pane sacro. Era il soprannaturale alla portata di tutti...».
Ma era anche, e soprattutto — nell'ottica visionaria dei testi avventurosamente esplorati dal nostro autore — una continua fonte di prodigi (il più frequente, quello sperimentato da fedeli che riuscivano a nutrirsi soltanto di ostie, senza più avvertire fame per un'intera settimana).
E infine, una sequela di preoccupate meditazioni mistico-biologiche circa tutto il terrificante tragitto che l'ostia consacrata, una volta deglutita, si trovava a dover percorrere: «Il corpo dell'Agnello purissimo immesso nella sozzura dell'apparato digerente, la carne divina contaminata dal contatto con le mucose ed i succhi della carne corruttibile, tutta la sporcizia delle viscere». Un tema orfico che non poteva sfuggire alla magnificenza del poeta secentesco Giambattista Marino, «erudito lettore di carte sacre della biblioteca del cardinale Aldobrandini nel "deserto ravennate"», che infatti vi dedicò alcuni versi, ovviamente stupefacenti.
Ma il vero corpus del dibattito è quello prodotto dai teologi, e forma il nucleo degli ultimi due capitoli del libro di Camporesi, intitolati Nel fondo dello stomaco e L'orrore delle viscere: una lettura che, seppur ben nota agli addetti ai lavori, non mancherà di stupire e forse scandalizzare chi di quesr. argomenti non si sia mai nutrito.


“Tuttolibri – La Stampa”, 11 luglio 1987


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