29.10.14

Un pentito a tre stadi (Franco Fortini)

Un amico mi ha recapitato fotocopia di un documento della polizia fascista, datato 1939. E' la lettera con la quale M.M., un coetaneo della mia città, iniziava la sua collaborazione, credo retribuita, con la polizia locale, prima di passare alle dirette dipendenze dei servizi di Bocchini. La lettera denuncia in termini verbosi, volgari e violenti le mene antifasciste di Giacomo Ca' Zorzi, ossia Giacomo Noventa, il poeta e scrittore veneziano, che allora viveva a Firenze e vi pubblicava una rivista dal titolo "La Riforma Letteraria". Descrive alcune delle vittime della sua personalità e della sua insinuante propaganda (io fra queste) tuttavia distribuendo ingiurie e commiserazione; o elogi che dovrebbero far arrossire i destinatari.
Il documento di questo pentito di cinquant'anni fa, (o piuttosto, delatore) avrebbe scarsissimo interesse, rientrando in una tipologia assai nota e che la grande letteratura russa ha più volte raffigurato. Semmai sarebbe interessante capire come mai gente di esperienza del mondo, come Noventa era, avessero accolto in casa propria e fatto partecipe del proprio lavoro e degli altri suoi giovani amici quel ragazzotto con una tanto decisa vocazione al mestiere di spia.
Ma l'amico di cui parlavo mi ha fatto avere anche il verbale di un lungo interrogatorio cui fui sottoposto (come, allora, a mia insaputa, tanti altri miei conoscenti o amici) dalla cosiddetta Ovra ossia della "Repressione Antifascismo" (l'ho letto con comprensibile sollievo. Non si può mai ricordare esattamente, cinquant'anni dopo, che cosa si è dichiarato in cinque ore di interrogatorio). E così mi sono ricordato che, negli anni della guerra, qualcuno doveva avermi raccontato che M.M., in preda ai rimorsi per quella e altre, probabilmente assai più gravi, delazioni, e forse per togliersi dalla tutela dei servizi del regime, se n'era andato da volontario in guerra, nei Balcani, dov'era scomparso.
Nel 1946, quand'ero redattore del "Politecnico" mi era arduo rimediare, come si dice, il pranzo con la cena. E così scrissi un racconto, dove immaginavo che un tenente, con precedenti simili a quelli di M.M., sorpreso in Montenegro dall'armistizio e volendosi opporre alla fusione del suo reparto con uno di partigiani di Tito, venisse ucciso dai suoi stessi soldati. Lo detti, nella speranza di ricavarne qualche lira, a Franco Calamandrei, anch'egli redattore del settimanale di Vittorini, e che insieme ad Alfonso Gatto si occupava di una rivista di fuggevole vita e di scarsi lettori. Calamandrei corse a dirmi: «Sei matto? Chiunque capisce che hai parlato di M.M.. Costui, dopo l'armistizio, ha preso parte alla resistenza, ora è un compagno ecc.».
E pensi ora il lettore quale fu il mio stupore quando, pochi giorni dopo, Vittorini mi comunicò che M.M. sarebbe entrato a far parte della redazione del settimanale. Cercai, naturalmente, di evitarlo. Finché un giorno la moglie di colui, che avevo conosciuta ragazza a Firenze, venne a scongiurarmi di avere un colloquio con M. Stavano in una specie di sottoscala proletario, in periferia; con un bambino piccolo, in miseria.
Conversazione dostojevskiana. Pace fatta in nome dell'avvenire. Ma — mi dico — alla larga. Poi Vittorini lo manda in missione non so dove. Lo intravvedo qualche volta. Scompare.
Passa un anno. Mi dicono che è coinvolto in qualcosa di poco bello connesso col periodo resistenziale; e che il Pci lo ha "mollato". Tempo dopo so che è entrato in ambienti industriali. Un giorno incontro, ma senza farmi riconoscere, la moglie, lussuosamente vestita e con un bizzarro aspri sul cappello. Una autorevole testimonianza a stampa lo definì, allora, "uomo di fiducia" di uno dei massimi dirigenti industriali italiani. Da più di trent'anni non ne so più nulla.
Non c'è proprio nessuna morale per queste favole normali, nessun giudizio da pronunciare. Valga semmai per analoghe favole dei tempi vigenti che «la cosa più inaspettata che accade a chi entra nella vita sociale, e spessissimo a chi v'è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già lo crede in teoria» (Leopardi, Firenze, 1832).


L'ESPRESSO - 28 MAGGIO 1988

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