26.3.17

Bachtin. Michail l'oscuro (Cesare G. De Michelis)


Si chiude oggi a Cagliari, presso il Dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell' Università, un convegno internazionale dedicato a "Bachtin teorico del dialogo". Per tre giorni, studiosi italiani e stranieri (questi ultimi convenuti a Cagliari dagli Usa, dal Canada, dalla Germania, da Israele) si sono misurati con questa straordinaria figura di studioso che - tra gli anni Venti e i primi anni Settanta - ha impostato in maniera lucidamente innovativa una serie di tematiche diversissime tra loro - dall' estetica alla teologia, dalla psicologia alla linguistica e alla critica letteraria -, dando avvio alla moderna scienza semiologica (della "scuola sovietica", ovviamente, in particolare).
Negli ultimi anni, e segnatamente dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1975, Michail Bachtin ha goduto dei favori - per la verità talora scomodi - della "moda culturale", venendo variamente citato (a proposito, ma anche a sproposito) per i suoi lavori fondamentali, il Dostoevskij e il Rabelais; e tuttavia la sua figura rimane per i più un "oscuro oggetto di desiderio", piuttosto che un limpido termine di confronto.
Bachtin è stato "scoperto" all' inizio degli anni Sessanta, quando, su richiesta di Vittorio Strada, egli approntò una nuova edizione del suo vecchio saggio su Dostoevskij (che poi apparve da Einaudi nel 1968): ma via via che si andavano riscoprendo i tasselli della sua vasta ed eterogenea attività intellettuale (in Francia, ad esempio, fu naturalmente il Rabelais a suscitare il maggior interesse), si scoprivano anche i lati oscuri della sua parabola umana e scientifica, cui nessuno sapeva dare plausibile o documentato chiarimento. Così, nel 1973, Vjaceslav Ivanov faceva enigmaticamente sapere, senz'altra delucidazione se non quella di "testimonianze dirette", che il testo di base di alcuni libri apparsi decenni prima sotto altro nome (alcuni avevano anche fatto scalpore, come il Freudismo di Volosinov, o Il metodo formale di Medvedev) "apparteneva a M.M. Bachtin". All'alone di mistero che ha avvolto - e in parte ancora avvolge - la figura di Bachtin hanno contribuito almeno tre fattori: la notevole complessità e novità del suo pensiero; la sua vicenda biografica, che presenta molte zone oscure (sembrò spuntare all'improvviso da una università sovietica di provincia); infine, la labilità dei confini della sua stessa opera. Paradossalmente, si può dire che l'immagine più compiuta di Bachtin è quella offerta dalla misteriosa figura del "filosofo" d'un negletto romanzo sovietico del 1928, Il canto del capro (=trago-oidia) di Konstantin Vàginov. Una figura, quella di Bachtin, più da "romanzo dei misteri" (come s' esprimeva negli anni Venti il suo interlocutore/antagonista Viktor Sklovskij), che da storia erudita del pensiero estetico contemporaneo.
Gli equivoci e i paradossi, nel modo stesso d' interpretare i testi di Bachtin, sono stati molti. Basti ricordare che per anni il suo lavoro giovanile è stato interpretato come quello di un "giovane marxista" non asservito alle banalità d'una asfissiante ortodossia staliniana; mentre con gli anni appare sempre più chiaro che esso è frutto d'una complessa meditazione filosofico-religiosa, saldamente ancorata alla sua matrice russo-ortodossa, anche se connessa col pensiero teologico contemporaneo. Del resto, l'episodio più triste nella biografia di Bachtin - il suo arresto nel 1929 - è da riconnettere con l'inasprirsi della campagna antireligiosa di quegli anni. La sobornost' (conciliarità) ortodossa, e non il collettivismo marxista, sembra dunque doversi porre alle radici del "dialogismo" bachtiniano. All'immediata vigilia del convegno cagliaritano, è apparso un lavoro che può far uscire la figura di Bachtin dalle nebbie che l'hanno sin qui avvolta, per restituirle il posto giusto nella travagliata storia intellettuale di questo secolo: dico il volume di Katerina Clark e Michael Holquist, Mikhail Bakhtin pubblicato dalla Harvard University Press. Ci sono dunque le premesse perché il discorso su Bachtin approdi finalmente ad una riflessione matura, sganciata dalle trappole della moda culturale.


“la Repubblica”, 18 maggio 1985  

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