11.3.17

Quegli usurai che vendono i nostri giorni e le nostre notti (Andrea Fumagalli)

Banchiere a Zurigo
Il ricatto del debito 
come volano 
dello sfruttamento sul lavoro

In una raccolta di saggi di Le Goff, intitolata O la Borsa o la vita (Laterza, 2003) veniva riportato un manoscritto del XIII secolo in cui si affermava: «Gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro, un cavallo dal cavallo o un mulo da un mulo. Inoltre, essi sono dei ladri poiché vendono il tempo che non gli appartiene e vendere un bene altrui è un furto. E dal momento che non vendono null’altro che l’attesa di denaro, cioè il tempo, essi vendono i giorni e le notti» (p. 34). Come nota Lazzarato in proposito (La fabbrica dell'uomo indebitato, Derive Approdi): «Mentre nel Medioevo il tempo apparteneva a Dio, oggi in quanto possibile, creazione, scelta decisione, è il principale oggetto dell’espropriazione/appropriazione capitalistica».
Come fatto rilevare da Amato e Fantacci, nel libro La fine della finanza (Laterza, 2009) l’origine del termine «finanza» deriva dalla parola latina «finantia», ovvero «conclusione amichevole di una controversia», da «finire», terminare, concludere, o da «finis», fine, conclusione e anche confine, limite. Tale etimologia sta a indicare che lo scambio finanziario, pur non essendo immediatamente solvibile nel presente (come qualunque scambio di merce, ovvero scambio simultaneo di quantità contro valore - prezzo) ma sottoscrivendo un contratto duraturo nel tempo, è comunque caratterizzata da un termine temporale oltre il quale la transazione si esaurisce e viene risolta in modo consensuale. Con l’avvento del capitalismo, la finanza si è sempre più allontanata dal suo motivo d’essere o almeno da come era stata pensata originariamente, ma si è sempre più trasformata, strutturalmente, in speculazione finanziaria, ovvero debito senza limite. Anzi, i debiti stessi sono diventati oggetto di scambio finanziario.
L’attività finanziaria esiste dunque solo laddove si genera un debito. E l’esistenza di un debito implica che vi sia necessariamente un rapporto di asimmetria e di gerarchia di potere: il debitore è sempre subalterno e dipendente dal creditore. In un sistema capitalistico, non c’è accumulazione se non c’è preliminarmente un processo di indebitamento. Da questo punto di vista, essendo lo Stato uno delle fonti principali di indebitamento funzionale alla produzione di ricchezza, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio appare da un punto di vista economico una vera idiozia.
Il sistema capitalistico nasce e si sviluppa sulla base della continua ridefinizione del rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Sono le imprese che si indebitano inizialmente con il sistema creditizio-finanziario e per far fronte a tale obbligo seguono solitamente due strade: la prima è quella classica, immanente alla stessa natura del capitalismo: estrarre plusvalore dalla capacità lavorativa umana, relegando il lavoro a merce (forza-lavoro) e variando continuamente le forme del lavoro produttivo (di plusvalore). La seconda consiste nel socializzare il debito necessario all’accumulazione al di fuori della stessa forma impresa. L’evoluzione delle strutture di proprietà, dalle SpA alle holding finanziarie non è altro che l’esito di questo processo. La finanziarizzazione degli ultimi 30 anni ha fatto sì che il debito necessario per l’accumulazione capitalistica non sia più concentrato solo nelle imprese, ma si sia sempre più esteso, ieri, ai bilanci nazionali, oggi, alle famiglie. Tale processo ha coinciso con una mutazione della condizione sociale, che ha fatto perno sulle ideologie liberiste dell’individualismo proprietario (l’uomo impresa) e contemporaneamente sul senso di colpa e del dovere del debitore. Non è un caso che in tedesco debito significhi anche «colpa» (schulde), mentre nelle lingue neolatine rimandi all’idea «obbligo, costrizione, dovere» (dal latino: debére).
In questo contesto, la dipendenza dal debito diventa un formidabile strumento di controllo sociale, che va oltre la semplice sfera economica per innervare tutto l’insieme dei comportamenti sociali. E in particolare diventa, soprattutto, forma del disciplinamento del lavoro, sia a livello collettivo che individuale-soggettivo. Non è un caso che, nel nome del risanamento del debito, si intraprendono misure economiche volte a smantellare ulteriormente il welfare, incidere negativamente sulla sicurezza economia e sociale e ultimare il processo di precarizzazione, guarda caso, del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro apparentemente non ha a che fare con i bilanci pubblici, ma, in Italia, come in Spagna, in Grecia e in tutti i paesi sottoposti alla pressione speculativa sul debito pubblico, diventa un grimaldello fondamentale per definire la nuova disciplina del lavoro nel contesto della produzione immateriale e cognitiva. In secondo luogo, a livello individuale e soggettivo, la dipendenza dal debito acuisce quelle forme di ricattabilità e subalternità che incidono pesantemente sulla libertà d’azione e di scelta degli individui, incrementano il senso di paura e di subalternità culturale e sociale.
In altre parole, il ricatto del debito (collettivo o individuale che sia) agisce come volano dello sfruttamento sul lavoro esattamente come il ricatto del reddito e del bisogno ha sempre segnato la subalternità del lavoro al capitale. Come scriveva Marx, la Rivoluzione Francese ha reso libero il lavoro, ma non ha liberato i lavoratori, in quanto costretti a vendere la propria forza per poter sopravvivere.
Nel biocapitalismo cognitivo contemporaneo, la disciplina del lavoro non è più svolta solo dalla tempistica della macchina e dei tempi (che si traduce nel furto dei tempi di vita), ovvero non è più regolata da una tecnostruttura, come lo era nel contesto predominante della produzione materiale manageriale e che è stata, non a caso, il centro della sovversione operaia negli anni ’60 e ’70.Se oggi la valorizzazione capitalistica tende a basarsi sempre più sull’utilizzo del corpo e delle facoltà umane, è evidente che necessitano nuovi meccanismi di controllo per tener conto della soggettività e della cooperazione sociale che oggi è la fonte principale di quella ricchezza che viene espropriata a diversi livelli. Il debito e la precarietà del reddito sono oggi due facce della stessa medaglia: definiscono quel dispositivo di auto-disciplina che viene introiettato a livello individuale, funzionale all’assoggettamento dei corpi e dei cervelli. Gli effetti sul corpo sociale sono pesanti e pervasivi e vengono accentuati dalla crisi economica. In primo luogo, si acuisce la frammentazione sociale a vantaggio di quell’individualismo comportamentale condito da mutua indifferenza che rappresenta proprio il primo obiettivo della disciplina del debito e della precarietà. In secondo luogo, si mantiene elevato quello «stato di eccezione», che, divenuto norma, instaura condizioni di emergenza permanenti, in grado di far imporre profondi stravolgimenti non solo sul piano economico e sociale ma anche sul piano delle libertà e della partecipazione democratica. In terzo luogo, cresce la paura, il più potente e antico strumento di soggezione: ma si tratta non tanto della paura della punizione, ma piuttosto della minaccia di una potenziale punizione. L’accanimento quasi maniacale sull’art. 18 svolge più la funzione di disciplinamento e minaccia potenziale piuttosto che di effettivo pericolo, dal momento che esistono già parecchi dispositivi che consentono di poter licenziare senza problemi e senza eccessivi costi per le imprese.
Ogni dispositivo disciplinare, tuttavia, crea potenzialmente anche i propri antidoti e anticorpi. Il primo potrebbe essere il diritto al reddito di base individuale e incondizionato. Il secondo è il diritto all’insolvenza delle famiglie, inteso come diritto individuale e collettivo (diritto al default). Con ciò, intendiamo anche una sorta di moratoria per i debiti delle famiglie in un contesto in cui i redditi diventano sempre più precari. Così come il diritto al reddito è un diritto della persona ma nello stesso strumento di ricomposizione sociale che va oltre la singola persona, così vale per il diritto all’insolvenza. Se il diritto al reddito incondizionato significa riconoscimento della proprio essere produttivo anche solo semplicemente vivendo, il diritto all’insolvenza significa riappropriazione diretta di reddito, ponendo le esigenze di produzione e riproduzione sociale prima di qualsiasi altra esigenza compatibile con la logica dello sfruttamento capitalista della cooperazione sociale.
Si tratta in ultima istanza della riappropriazione del proprio debito e del proprio tempo contro il furto della nostra vita che ogni giorno viene reiterato. Perché la vita e il tempo non sarà di Dio, come si pensava nel Medioevo, ma non è neanche del capitale: è solo nostra.

“Alias il manifesto”, 31 marzo 2012

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