20.3.17

Grand Hotel e letteratura. Quello splendido mondo di carta (Sandro Viola)

MONACO
Nata a Vienna da una famiglia della piccola borghesia ebraica, arpista in gioventù, bruttina d'aspetto, Vicki Baum scrisse nell'«entre deux guerres» libri di enorme successo. Si trattava di romanzi in cui non proprio il gran mondo, ma un mondo in certa misura smagliante (aristocratici spiantati ma ancora eleganti, misteriose avventuriere, celebri danzatrici russe, ricchi affaristi), veniva osservato con occhio piccolo-borghese per un pubblico di piccoli-borghesi. L'una e l'altro, l'autrice e il suo pubblico, covando in petto l'ambizione struggente di giungere un giorno a varcare la soglia di quel mondo. La cornice che la Baum predilesse per ambientarvi le trame dei suoi libri, furono i grandi alberghi. Cominciando nel 1929 da Menschen im Hotel, che sarebbe divenuto nelle traduzioni e al cinema Grand Hotel, proseguendo poi con Hotel Berlin, Hotel Shanghai, Weekend al Waldorf, ed altri romanzetti che avevano per fondale alberghi in montagna o in Riviera, tutti beninteso di lusso.
In quelle pagine, milioni di modesti impiegati, commesse, dattilografe di tutta Europa trovarono di che immaginarsi, favoleggiare, un' altra vita. Schiere di camerieri ossequiosi, cameriere in cresta che sistemavano sul letto le vaporose camicie da notte e i pigiama di seta degli ospiti, guardaportone in cilindro e palandrana che si precipitavano ad aprire la porta delle automobili in arrivo, facchini in uniforme scura che trasportavano le otto, dieci, dodici valigie con cui una coppia approdava all'epoca in un Grand Hotel. E nelle halls, gli incontri affascinanti che cambiano un destino. Più o meno nello stesso periodo, non pochi altri scrittori (e quali scrittori: da Proust a Mann, da Schnitzler a Zweig e a Roth) collocarono in buoni od ottimi alberghi lunghi scorci dei loro romanzi. Ma la scrittrice dei Grand Hotel restò, per il pubblico minuto, Vicki Baum. Quel pubblico non aveva quasi certamente letto Morte a VeneziaAlla ricerca del tempo perduto, ma leggeva avido i romanzi dell'ex arpista viennese. E non a caso ripeteva spesso - quando s'azzardava a filosofeggiare - l'insulsa frase che uno dei personaggi della Baum, il pensoso dottor Otternschlag, pronuncia nelle pagine di Grand Hotel e nei tre o quattro film che se ne trassero: «Grand Hotel: gente che va, gente che viene, e tutto resta sempre uguale».
La Baum aveva insomma lanciato una moda, che ebbe poi ampi ricaschi nel cinema italiano dei «telefoni bianchi», nel cinema austro-tedesco e in quello hollywoodiano. E forse trascinò autori di tutto rispetto (Carco, Maugham, Morand, Coward, per citarne solo alcuni) ad indulgere anch'essi nel tratteggio d'alberghi situati ad ogni possibile latitudine, dall'Avana al Cairo e a Singapore. Del resto, va detto che l'alone leggendario di cui i Grand Hotel erano circondati nel ventennio tra le due guerre mondiali, era più che meritato. Spuntati verso la fine dell'Ottocento nelle località turistiche montane o balneari, e nelle grandi città ai primissimi del Novecento, gli alberghi di lusso avevano nomi che ne indicavano chiaramente le ambizioni, la classe e il ruolo: Royal, Palace, Kaiserhof, Imperial, Konighof, Majestic, Regence, Regina, Savoy. E ai tempi della Baum conservavano ancora il fasto delle origini, con in più il "comfort" della modernità che vi aveva portato un geniale albergatore svizzero, César Ritz.
Né i Grand Hotel erano molto cambiati - salvo, ovviamente, quelli distrutti dai bombardamenti negli anni della Seconda guerra mondiale - quando la gente riprese a viaggiare intorno alla fine dei Quaranta. Le monumentali sale da bagno rivestite di marmo, le massicce e scintillanti rubinetterie, la magnifica spugna degli accappatoi e asciugamani. I tight impeccabili dei "concierges", il loro portamento dignitoso, le loro sterminate conoscenze in fatto di treni, battelli, strade da percorrere, fiorai, spettacoli e musei. L'inarrivabile stiratura delle giacche bianche dei barmen, l'orchestrina che suonava all'ora del tè un po' di musica classica e qualche canzone. Il luccichio dei cristalli e dei portavivande di "Sheffield" nelle sale da pranzo, dove gli uomini scendevano in abito rigorosamente scuro e le signore in "mezzo lungo", le porcellane e la posateria Christofle sui grandi vassoi con cui veniva portata nelle camere la colazione del mattino. Gli enormi fasci di fiori freschi nei vasi della hall, lo scatto con cui "grooms" o "boys" (in Spagna chiamati "botones" per la doppia fila di bottoni che ne decorava il giubbetto) accorrevano ad un cenno del cliente.
Questo mondo, inutile dirlo, è ormai scomparso da decenni. Languiva già alla fine dei Cinquanta dello scorso secolo, e negli ultimi Sessanta fu definitivamente inghiottito dalle oscenità del turismo di massa. Da qui l'amara nostalgia con cui si visita la mostra Grand Hotel allestita dalla Literaturhaus a Monaco di Baviera (fotografie, documenti, oggetti e film) che rievocano "l'age d'or" degli alberghi di lusso, e in particolare l'importanza che essi assunsero nell'opera d'alcuni famosi scrittori del Novecento. Perché, come s'è già detto, Vicki Baum introdusse il mito del Grand Hotel nelle fantasie piccolo-borghesi: ma anche la buona letteratura del Novecento (e finanche una parte di quella che consideriamo immortale) si servì per alcuni suoi fondali e atmosfere dei saloni, sale da pranzo e clientele dei grandi alberghi. A cominciare, ovviamente, da Thomas Mann e Marcel Proust. Provvisto d'ampie possibilità economiche (la dote della moglie Katia Pringsheim, i sostanziosi diritti d' autore), Mann scendeva soltanto in alberghi che potessero vantare una «exklusiven Clientèle». Forse perché quelle erano al tempo le esigenze d'un "grande borghese", o forse - come avrebbe più tardi suggerito il figlio Klaus nelle pagine della Svolta - perché in famiglia circolava un certo snobismo. In ogni caso, Mann viaggiava molto. Una delle fotografie più belle dell'esposizione alla Literaturhaus lo mostra al finestrino d'un Wagon-lit in partenza, l'impermeabile poggiato elegantemente sulle spalle, il sigaro già acceso. In un' altra foto sta riempiendo, o forse aprendo, una sacca di coccodrillo istoriata con le etichette variopinte che sino a qualche decennio fa gli alberghi incollavano sulle valigie degli ospiti. E in un' altra ancora, un "groom" dell' Adlon di Berlino gli sta porgendo su un piccolo vassoio argentato la lettera appena giunta all' hotel.
Quanti alberghi - ricorda la mostra di Monaco-, col loro nome o uno di fantasia, nei romanzi di Mann. Ce n' è uno in Altezza reale, un altro - a Oresund, sulla costa meridionale della Danimarca - dove si rifugia Tonio Kroeger, e ce n' è un' intera serie nelle Confessioni di Felix Krull: il Savoy a Lisbona (nome fittizio per l'Avenida Palace) dove il giovanissimo Felix, nella scena più erotica di tutto Mann, entra nel letto di Madame Houpflé, quindi il Saint James and Albany di Parigi, il Baur au Lac di Zurigo, il Park a Dusseldorf. Ed altri se ne potrebbero spigolare con un po' di pazienza dai suoi libri. Ma l'albergo più importante nella produzione manniana, quello in cui si svolge quasi intera la vicenda di Morte a Venezia, è ovviamente il Des Bains. Ritratto con tale minuzia che «quando s'entra nel salone», diceva Luchino Visconti mentre preparava il film che trasse dal racconto, «sembra ancora di vedere il Prof. Aschenbach che legge i giornali, e poco lontano Tadzo con la famiglia». Quanto a Proust, valga quel che ha scritto il più perspicace dei suoi biografi, George D. Painter: «Per tutta la vita, lontano dalla sua camera da letto si sentì a suo agio solo negli alberghi di lusso, nei salotti della buona società e nei grandi restaurants». Ecco infatti lo spazio - cento, centocinquanta pagine? - che occupa nella Recherche il Grand Hotel de Cabourg (Balbec): le camere, la vista dalle camere, l'ascensore e soprattutto il salone da pranzo pieno di finestre che davano sul lungomare, non tanto chic in verità («l'ambiente è dei più comuni, la gente indescrivibile», scriveva Proust a Robert de Billy), ma ricchissimo di spunti che sarebbero serviti a costruire molti personaggi del libro. Ecco i cinque mesi trascorsi a Versailles senza metter piede fuori dall' Hotel des Réservoirs. E per finire, i lunghi periodi in cui abitò durante la Prima guerra mondiale al Ritz di Parigi, i pranzi ai quali invitava Paul Morand, la Soutzo e uno stuolo di contesse, poi distribuendo al personale mance spropositate. Il Ritz finì col diventare un territorio di caccia, dove Proust - con l'aiuto di Olivier Dabescat, il "maitre de restaurant" dell' epoca - scovava con pazienza i tic, i vizi, le battute (soprattutto le battute, molte delle quasi sarebbero entrate pari pari nella Recherche) del "grand monde": i Murat, i Gramont, i Clermont-Tonnerre, il duca di Sutherland, l'ex re del Portogallo, la coppia Castellane e la regina Maria di Romania. Frasi spiritose, pungenti, a volte anche crudeli: tutta un'altra cosa, per nostra fortuna, di quel «Gente che va, gente che viene» cui la Baum affidò il Pensiero del suo romanzo più famoso.
Il rapporto tra la narrativa del Novecento e i Grand Hotel meriterebbe d'essere indagato a fondo. Che in quella letteratura ci fossero un bel po' d' alberghi, è infatti cosa nota. Ma dall'esposizione di Monaco emerge che non una parte marginale, bensì una assai rilevante, delle trame che leggiamo nei romanzi del secolo scorso, si svolge tra camere, saloni, giardini e terrazze degli alberghi. Da Schnitzler a Durrematt, da Zweig a Roth, dalla Christie a Moravia e a Nabokov. E parecchi sono gli scrittori che la mostra ha trascurato: per esempio Morand e Waugh, Faulkner, Fitzgerald e Capote, Remarque e Green. Senza dire che a volte gli scrittori sono morti, negli alberghi. L'illegibile Raymond Roussel al Grand Hotel et des Palmes a Palermo, a Parigi Oscar Wilde all'Hotel d'Alsace, Joseph Roth nel piccolo Hotel de Tournon, e Tennesse Williams all' Elysée. Oltre, salvo errore, Nabokov al Palace di Montreux, dove aveva vissuto per molti anni in una "suite" con vista sul Lemano, avendo recuperata dopo vari decenni, con i guadagni di Lolita, l'agiatezza dei Nabokov prima della Rivoluzione russa.
Difficile dire che impressione possano ricavare dall'esposizione della Literaturhaus i molti giovani che vi s'avvicendano in questi giorni. Con quale animo guardino le foto dei Grand Hotel, le loro stupende carte da lettere, i "menus" in francese, i servizi da tè in stile "Déco". Probabilmente, il loro sguardo è lo stesso con cui hanno guardato o guarderanno gli scavi di Pompei. Un'epoca lontanissima, un mondo svanito. Eppure resta ancor oggi in circolazione una sparuta, zoppicante pattuglia di settantenni avviati agli ottanta, la cui memoria conserva intatte le immagini dal vero di quella magnifica civiltà. E nella pattuglia ci sono alcuni giornalisti.
Grazie alla prodigalità dei due maggiori giornali italiani dell'epoca (Il Corriere della Sera e La Stampa) una ventina di inviati speciali fecero infatti in tempo, tra l'inizio e la fine dei Sessanta, a cogliere gli ultimi bagliori dell' "hotellerie" di lusso. Il King David di Gerusalemme e il Nyle Hilton del Cairo durante la guerra dei Sei giorni, il Grande Bretagne di Atene nei giorni del "putsch" dei colonnelli, il Sacher di Vienna quando i sovietici invasero la Cecoslovacchia, il Saint Georges di Beirut nel va e vieni dalle crisi mediorientali, il Peninsula di Hong Kong nei primi avvicinamenti alla Cina, il Raffles di Singapore prima delle molte ristrutturazioni, il Palace e il Ritz di Madrid nella penultima e ultima fase del franchismo, il Ritz di Lisbona alla fine del salazarismo, il Savoy di Londra, il Mount Nelson di Città del Capo, il Reid' s di Madeira, e via dicendo.
Si viveva bene, ancora in quegli anni, nei Grand Hotel. Un'atmosfera tranquilla, senza folle scaricate dagli autobus né rumori, i portieri solenni come ambasciatori, gli ascensori foderati di vecchi legni, i sommeliers competenti, le prime colazioni assolutamente perfette. E poi, in questo Vicki Baum aveva ragione, vi si vedevano personaggi che sarebbe stato difficile incontrare altrove. Cole Porter nella sua poltrona a rotelle, in partenza per le Cicladi con un gruppo d'amici, al Grande Bretagne di Atene, Max Frisch con una giovane compagna (forse la protagonista di Montauk) al bar del Plaza di New York, Eugenio Montale al King David, Erich Maria Remarque con la moglie Paulette Goddard al Beau Rivage di Losanna, David Lean e Julie Christie che studiavano la sceneggiatura di Zivago nella hall del Ritz di Madrid, don Juan di Borbone - massiccio, sanguigno e un po' brillo - al bar del Ritz di Lisbona. Certamente meglio che vedere, come succede adesso, "nuovi russi" vestiti Trussardi o Cardin e calzati Tod' s, asiatici miracolati dal galoppo delle loro Borse, italiani convenuti per una partita di Champion's League e già vocianti ancor prima d'arrivare allo stadio. Un materiale che neppure la Baum avrebbe avuto lo stomaco d'utilizzare nei suoi romanzi.


“la Repubblica”, 22 aprile 2007

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