11.3.17

USA. L’informazione locale salverà il giornalismo? (Angelo Paura)

New York
Alle 13 di lunedì 20 aprile 2015, Rob Kuznia si era abituato già da qualche settimana al suo nuovo lavoro alla Shoah Foundation della University of Southern California di Los Angeles. Un ripiego, certo, dopo aver passato oltre dieci anni a consumare le suole delle scarpe sulle strade, nelle scuole, nei tribunali e nei palazzi del potere dell’area metropolitana della città. Ma anche un sollievo, visto che in questo modo, facendo il giornalista in una piccola pubblicazione, non riusciva ad arrivare alla fine del mese. E tutto sommato, nonostante l’interesse per questa professione, lui e la moglie erano abbastanza stufi di «vivere in una condizione precaria», mi dice Kuznia, che quel lunedì è stato premiato con il Pulitzer per un reportage su uno scandalo scolastico scritto insieme a due ex colleghi del Daily Breeze.
È passato un anno e mezzo da quel giorno, e la crisi che ha colpito il giornalismo americano non è per nulla finita anzi continua a essere molto dura, soprattutto con i quotidiani locali. «Credo che il senso di locale sia iniziato a cambiare molto prima della crisi dei quotidiani. Credo sia iniziato a cambiare quando gli americani hanno iniziano a spostarsi», ad abbandonare le aree rurali, ha detto in un’intervista il direttore del “New York Times”, Dean Baquet, convinto che la crisi dell’informazione locale sia un pericolo non solo per il giornalismo ma anche per la democrazia.
Ci sono però anche molti segni positivi. Un’anima raffinata come quella di David Carr – esperto di media e decano dei reporter al “New York Times”, scomparso nel 2015 – sosteneva che, nonostante le difficoltà, c’è poco da lamentarsi. Anzi, dovremmo essere felicissimi perché «stiamo entrando nell’età dell’oro del giornalismo». Un’età nella quale ci sarà sempre più bisogno di notizie locali e iperlocali di qualità.
Se considerassimo solo le tirature e i numeri di quotidiani attivi negli Stati Uniti il futuro non sembra poi così radioso. Dal 2004 al 2014 sono stati chiusi oltre 100 giornali, anche se dall’ultimo rapporto sullo stato del giornalismo del Pew Research Center sembra che la situazione si sia stabilizzata dopo la grande depressione del giornalismo americano che tra il 1994 e il 2014 ha bruciato 20 mila posti, il 39% della forza lavoro del settore. Se invece il punto di riferimento fossero innovazione e qualità, in questi ultimi due anni ci sono stati segnali chiari di una ripresa del giornalismo, soprattutto di quello che si occupa delle piccole comunità. «Il giornalismo locale si trova ancora in pericolo, ma ci sono segni incoraggianti ed esempi di iniziative online come Charlotte Agenda e Daily Philly che funzionano bene e riescono a sostenersi economicamente», mi dice Benjamin Mullin del Poynter Institute, tra i migliori centri per lo studio del giornalismo nel mondo.
Attraverso il gruppo Times Publishing Company, Poynter controlla il “Tampa Bay Times” di St. Petersburg, in Florida, un esempio perfetto per descrivere il cambiamento del giornalismo locale americano: ha vinto 12 Pulitzer (l’ultimo quest’anno) e dopo il tracollo delle copie cartacee è riuscito a costruirsi un fortissimo gruppo di lettori online grazie a investimenti mirati allo sviluppo di storie digitali. Ma il “Tampa Bay Times” è solo uno dei giornali che sta guidando questa rinascita. Il “Des Moines Register” – quotidiano della capitale dell’Iowa di proprietà del colosso dell’editoria Gannett – ha puntato sullo sviluppo tecnologico della sua redazione, scommettendo anche sul giornalismo virtuale, una scelta molto rara per le redazioni più piccole. Anche molte startup hanno deciso di dedicarsi all’informazione locale. Watchup ha raccolto quasi 5 milioni di dollari proponendo la prima piattaforma che distribuisce notizie video locali di qualità su dispositivi mobili.
C’è da dire che il giornalismo locale non ha solo a che fare con aree rurali disperse nel nulla. Anche la città di New York e il New Jersey offrono molti spunti a riguardo. Nella metropoli americana ci sono decine di gruppi media che si occupano in modo approfondito dei singoli quartieri, osservando da vicino le istituzioni e garantendo maggiore trasparenza. Tra questi, pubblicazioni che puntano solo sul digitale come “Dnainfo” e “Gothamist” continuano a raccontare la città da vicino raccogliendo pubblicità e facendo abbastanza profitti per continuare a crescere.

Secondo Carrie Brown della Cuny Graduate School of Journalism di New York è fondamentale puntare su nuovi modelli e «cercare di restare connessi in modo molto più diretto con i lettori e le comunità a cui si fa riferimento. Più piccole sono, meglio è», continua Brown che insieme a Jeff Jarvis ha creato il primo corso in social journalism pensato per far ritornare a crescere il giornalismo locale, liberandolo dalla dipendenza dalla pubblicità e impostando piattaforme digitali finanziate direttamente dalle comunità.
Dall’altra parte dell’Hudson River, in New Jersey, invece, da poco è nata una delle iniziative più interessanti del settore: si chiama Local News Lab, è finanziata dalla Dodge Foundation e coinvolge 150 pubblicazioni locali e iper-locali dello Stato. Ne parlo con Joe Amditis che ha appena ricevuto una borsa di ricerca per lavorare allo sviluppo mobile di questi quotidiani. «Oltre a studiare nuovi modi per distribuire le notizie locali attraverso gli smartphone facciamo incontri con i quotidiani che hanno aderito al programma». Amditis è convinto che il lavoro su piccole comunità è un modo «diretto e molto semplice per capire quale impatto hai sul tuo pubblico».
Il problema infatti non è certo l’assenza di un pubblico, ma l’incapacità di raggiungerlo. Il punto di forza dei piccoli quotidiani è che Facebook spesso non è in grado di lavorare sulle piccole geografie. «Facebook tende a mostrarci solo notizie basate su quello che un algoritmo ritiene noi vogliamo vedere – spiega Benjamin Mullin –. Invece i quotidiani locali sono l’ultima piazza pubblica rimasta nella nostra società, che non è mediata da un algoritmo e in cui le persone possono discutere, confrontarsi su notizie sulle quali sono in accordo o in disaccordo. E penso che questa possibilità non sia mai stata così importante come oggi».
Oltre alla teoria servono ovviamente strumenti per garantire denaro ai media. «Oggi non possiamo più pensare di sopravvivere solo attraverso la pubblicità. Ci vogliono entrate diverse: dagli abbonamenti ai contenuti sponsorizzati fino alla creazione di non profit in grado di fare giornalismo senza per forza cercare un profitto», dice Matt Carroll, professore di giornalismo alla Northeastern University School of Journalism di Boston. Tra il 2009 e il 2011 le non profit che si occupano di informazione hanno ricevuto 527 milioni di dollari soprattutto da quattro fondazioni: Carnegie, Knight, Ford, Rockefeller.
Ma ci sono anche proposte più spregiudicate. In un articolo apparso sulla Columbia Journalism Review, l’esperto di media Steven Waldman sostiene che un modo per rilanciare il settore sia quello di creare un AmeriCorps per il giornalismo, un ente federale che distribuisca i fondi di associazioni filantropiche e così cercare di ricostruire una rete di startup dell’informazione diffusa su tutto il territorio. Per Bob Schieffer, veterano di Cbs, è importante agire subito per proteggere la democrazia. «Se qualche ente non arriverà e farà quello che i giornali locali hanno fatto in questi anni, avremo la corruzione a un livello mai visto finora».


Pagina 99, 26 novembre 2016

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