Al centro Paola Pitagora e Renato Mambor
C'è
un ciclo di romanzi fantastici di C. S. Lewis, molto popolare in
Inghilterra, dove un gruppo di bambini entra in un regno misterioso,
un fiabesco universo parallelo, attraverso un vecchio armadio di
casa. È una bella fantasia, corrisponde a una speranza che ci
portiamo tutti in cuore. E in fondo, ci sono solo due cose nella
nostra vita reale che corrispondono all’armadio magico di Lewis,
l’armadio che conduce in altri mondi: l’amicizia, e, in maniera
molto più drammatica e incisiva, l’amore. Si dice generalmente che
amare qualcuno rappresenta un’occasione per conoscere bene se
stessi, capire i propri limiti e le proprie possibilità. Questa
teoria narcisistica (il cui trionfo sta a mio parere nei Frammenti
di Roland Barthes) sarà anche fondata, almeno per qualcuno. Ma
nessuno può negare una verità palese e universale, anche se poco
«pensata»: una storia d’amore, è sempre un grande evento di
estroversione dello spirito. Il desiderio è prensile. Assorbe
conoscenze, con intuito e velocità vertiginosi, ed è costretto a
farlo perché vuole condividere. E dunque, come tutti sappiamo bene,
di cose di cui non ci importava niente, o di cui non sospettavamo
nemmeno l’esistenza, a un certo punto ci importa moltissimo, e
arriviamo anche a conoscerle profondamente, perché l'amore vuole
questo, nel bene e nel male. L'innamorato è sempre un personaggio
romanzesco, in una certa misura: perché si trasforma, ridisegna il
suo mondo, esce dal seminato.
È
fin troppo ovvio, inoltre, che se la storia d’amore è lunga,
ingarbugliata, piena di passione fisica e litigi anche violentissimi,
infelicità di vario grado, ore passate a scriversi o telefonarsi,
buoni propositi, momenti ineffabili di comprensione e tenerezza, il
senso di vivere in un perenne stato d’emergenza e caos interiore...
ebbene sì, durante quella storia, si sta imparando tutto quello che
davvero, nella vita, è possibile imparare.
Quando
Paola Gargaloni, in arte Paola Pitagora, conosce Renato Mambor, a
Roma nel 1958, lei ha sedici anni, lui ventidue. Nei dieci anni
successivi, svilupperanno i loro rispettivi talenti: lei diventerà
l’attrice che tutti conosciamo, protagonista dei Pugni in tasca
di Bellocchio e icona pop nei panni di Lucia nei Promessi sposi
televisivi. Mambor, che all’inizio del racconto lavora ancora alla
pompa di benzina dei genitori, dalle parti di Cinecittà, sarà tra i
pittori eminenti del grande fermento artistico che si chiamerà
Scuola di Piazza del Popolo, assieme a Schifano, Festa, Tacchi,
Angeli, Pascali, Giosetta Fioroni, Twombly, Kounellis...
In
Fiato d'artista. Dieci anni a Piazza del Popolo (Sellerio,
pp.175, L.18.000, introduzione di Angelo Guglielmi) Paola Pitagora
racconta quel clima felice dalla distanza dell’oggi, ma recuperando
in corsivo molte lettere e brani di diario, suoi e di Mambor. Il
titolo scelto è quello di un’opera di Piero Manzoni: fiato
d’artista conservato in un palloncino, con la stessa filosofia
della più celebre merda d'artista nelle scatolette sigillate.
Dicevamo
dell’armadio magico dell’amore. C’è chi impara le delizie
della musica barocca, chi impara a cucinare ricette complicate, chi a
farsi le canne... a Paola Pitagora, singolarissimo tra i destini, è
capitato di piombare nel bel mezzo della Storia dell’Arte - il più
inabitabile, forse, degli universi, per chi non è del mestiere. È
affascinata da quell’esplosione di colori squillanti (i «toni
smalto per unghie» di cui parla Goffredo Parise a proposito di
Giosetta Fioroni), dalla novità dei materiali, dalla genialità di
galleristi come Plinio de Martiis e, un po’ più tardi, Fabio
Sargentini. È testimone di una sperimentazione che investe i modelli
d’esistenza alla pari delle forme artistiche - dando luogo a una
leggenda dura a morire, anche oggi che il Caffè Rosati è ormai solo
uno dei tantissimi luoghi opachi e indefinibili di una città
socialmente frantumata, senza più «conversazione», senza più
baricentri culturali e osterie a buon mercato e incroci significativi
tra pittura, poesia, musica, arte della maldicenza, arte del perdere
tempo...
Tutte
cose, probabilmente, fin troppo risapute: ma come le racconta Paola
Pitagora, bisogna ammettere, non le aveva mai raccontate nessuno.
Perché Fiato d’artista contraddice una regola essenziale
del libro di memorie, che è quella di mettere in scena un’identità,
un soggetto singolare, che racconta certe sue esperienze, una sua via
nel mondo. Questa strategia, in fondo, sarà sempre meno interessante
di un esperimento come quello tentato da Paola Pitagora, che nel suo
libro divagante e disordinato crea lo spazio ideale per un soggetto
plurale: un uomo e una donna che, al momento di conoscersi, non fanno
quarant’anni in due e che attraversano assieme, facendosi molto
bene e molto male, le loro linee d’ombra. E in questa ostinazione
duale, sta la grande sapienza del libro, la sua capacità di far
slittare, di far giocare il punto di vista, di farlo rimbalzare
perpetuamente tra i due poli della storia, tra maschio e femmina. E
questo strano animale a quattro gambe che parla nel libro, crea
davvero un mondo tutto proprio e inconfondibile - perché è un mondo
totalmente erotizzato. Tanto che, mentre leggiamo quest’operetta
folle e dolcissima, senza nessuna pretesa di «stile», ci rendiamo
conto che, finito l’eros, finirà anche lo spazio del racconto, le
cose perderanno di narrabilità. E se il 1968, con la nascita di
un’«avanguardia diffusa» e la morte in moto di Pino Pascali,
spazzerà via la piccola utopia di Piazza del Popolo, Paola Pitagora
racconta pure questo tramonto collettivo, ma ci confessa che lei, per
quanto la riguarda, non era più lì - o stava lì da sola, che è la
stessa cosa. Iniziato con qualche letterina d’amore scambiata tra
una ragazzina borghese e il «benzinaro» di Cinecittà, il racconto
termina veramente un po’ prima della fine materiale del libro,
quando si parla del momento in cui due persone, che si sono molto
amate, fanno l’amore l’ultima volta. «I corpi consapevoli si
toccano, si lasciano andare, ma qualcosa in loro avverte che è
diverso: uno sguardo, un’esitazione o una fretta impercepibile, il
corpo amato si appresta a divenire corpo estraneo. Io avevo le
cellule innamorate, in consistente ritardo sulle ragioni del cuore,
le cellule si sa, sono più lente». Con la sua assurda
punteggiatura, Paola Pitagora ci sta raccontando una grande verità:
il cuore più veloce delle «cellule», già altrove mentre i corpi
sono ancora uno sopra l’altro, uno dentro l’altro. L’animale a
due teste, l’animale amoroso si è diviso: e da questo punto in
poi, non c’è davvero più nulla che sia possibile raccontare - o
bisogna inventare un’altra storia, infilarsi in un altro armadio.
alias il manifesto, 15 giugno 2001
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