8.11.10

Il romanzo nero dei monaci di Mazzarino (di Leonardo Sciascia)

Caltanissetta, gennaio.  
Sono stato a Mazzarino due volte. La prima volta, quando ancora lo scandalo dei monaci non era scoppiato, in compagnia di un amico, professore universitario, che appunto nel convento sperava di trovare non so che libri: poiché Mazzarino fu, nel Seicento, un fiorente centro di stampa. Accompagnati da notabili del luogo, entrammo nel convento. Un monaco silenzioso, e forse dalla nostra visita irritato (mi pare, guardando ora le fotografie sui giornali, fosse padre Agrippino), ci aprì una stanza dove i libri stavano ammucchiati come vi fossero stati rovesciati a ceste, a carrettate. Era impossibile dar dentro a quel mucchio: il mio amico aprì un paio di volumi che stavano a portata di mano, la vita di un santo, un breviario; le mani gli si inguantarono di polvere. Uscimmo nel corridoio. C’era una finestra aperta sulla vallata. Una signora che era con noi, che ci aveva accompagnato in macchina, disse: “Che bellezza! Che pace!”, e aggiunse che l’onorevole, nell’ultima sua visita al convento, aveva promesso che vi sarebbe tornato per un suo ritiro spirituale. L’onorevole usa ritirarsi ogni anno a fare esercizi spirituali in un convento. Non c’era bisogno di chiederne il nome: era uno dei più brillanti e inquieti uomini della Democrazia cristiana in Sicilia.
La campagna era davvero molto bella: si intrideva del colore della sera e vibrava di solitudine. Ma, chiusa la finestra, mi parve impossibile che un uomo potesse sentire aleggiare dentro le mura del convento, in quei corridoi e in quelle celle, lo spirito: e quello con la esse maiuscola per di più. Io vi sentivo invece aleggiare il disfacimento della materia: il polveroso disfarsi del legno, della carta; la grommosa lebbra dell’intonaco, la ruggine, la rancida cera, l’infracidire dei tessuti. E, al di là di queste sensazioni fisiche, l’acuta sensazione di un disfacimento morale: quel che è di sordido, di parassitario, di tenebroso in una chiusa comunità maschile. Sensazione che, per la verità, ho sempre provato visitando un convento di monaci.
Tre mesi dopo sono tornato a Mazzarino accompagnando Enrico Emanuelli. Stavolta non sono entrato nel convento: lo scandalo era già esploso, i monaci non ricevevano giornalisti. Abbiamo fatto un giro intorno al convento. Era già notte. Un’atmosfera da Castello di Otranto gravava sul convento e sulla campagna: quei luoghi appartenevano ormai alla più nera letteratura.
Emanuelli è uno dei più scrupolosi giornalisti che io abbia mai conosciuto. Volle conoscere in ogni dettaglio, da persone ben informate, la storia dei monaci. Un familiare di uno dei ricattati ci raccontò un episodio che Emanuelli riferì su La stampa e che Giovanni Ansaldo commentò poi sul Tempo. Ed è davvero il dettaglio più feroce dei terribili avvenimenti di cui sono stati protagonisti i quattro monaci: quello che da solo basterebbe a consumare quel piccolo residuo di giustificazione umana, di compassione, di pietà che solitamente – specie in un paese come il nostro – concediamo ai rei.
Come è noto, la banda fece oggetto dei ricatti due persone anziane che avevano bambini: e appunto li ricattava minacciando la vita dei bambini. Terribile e sottile accorgimento psicologico quello di minacciare un padre anziano nella vita di un bambino, di un figlio che ha appena tre o quattro anni di età. E poiché uno dei padri resisteva al ricatto, un giorno uno dei monaci, incontrandolo insieme al bambino, questo atroce complimento pronunciò – “Quant’è bello! Pare vivo”. – che voleva dire il bambino essere già morto, per il fatto che il padre non pagava il ricatto, e soltanto illusione era il crederlo vivo.
Non so se questo episodio figura negli incarti istruttori, né so quale peso possa avere nel giudizio penale: ma è certamente, nell’umano giudizio sui fatti di Mazzarino, il peso decisivo.
Tenebrose storie di monaci furono di moda nell’Inghilterra del settecento. La leggenda nera, creata intorno ai conventi dalla letteratura dei paesi cattolici, veniva ripresa con furore antipapista dagli inglesi e complicata da incidenze erotico-patologiche. Nacque così, nei conventi cattolici visti con fantasia protestante, il romanzo dell’orrore, il romanzo nero.
Di fronte ai fatti di Mazzarino possiamo dire che ancora una volta la realtà si è adeguata alla fantasia: e che la nera torbida storia dei frati di Mazzarino è, in pieno ventesimo secolo, molto somigliante ai tales of terror del settecento inglese. Ci sono tutti gli ingredienti: il subdolo ricatto, l’omicidio spietato, il fosco erotismo, la allucinata avidità, la pazzia. E in più – quasi a seguire l’evoluzione del “genere”: dal romanzo nero al romanzo giallo – c’è un margine di mistero destinato a durare al di là del processo e della sentenza. Perché a Mazzarino, nessuno sembra convinto che la delittuosa associazione abbia fatto capo al Lo Bartolo, giardiniere del convento morto suicida nelle carceri di Caltanissetta. Il suicidio del Lo Bartolo pare anzi che aggiunga un elemento di concretezza ai vaghi sospetti che evidentemente si agitano nei pensieri – soltanto nei pensieri: e appena tralucono nei discorsi – dei mazzarinesi.
Perché si è suicidato il Lo Bartolo? Perché si è visto perduto o perché temeva di perdere qualche altro?
Ma non si può su dei fatti che sono già abbastanza romanzeschi, costruire romanzesche ipotesi. Questo romanzo nero ha già fatto, indirettamente, un’altra vittima: il giovane Cosimo Cristina che, pubblicando sul suo giornaletto una indicazione, chi sa come raccolta o fantasticata, ebbe querela dal professionista che si riconobbe indicato come capo della gang; e fu condannato; e atrocemente si suicidò.
In effetti la ricerca di un capo, di una mente dirigente, nasce dalla presunzione borghese che un contadino – come in questo caso il Lo Bartolo – non abbia, a dirigere una anonima assassini, più capacità di quanta ne abbia a dirigere un’azienda agricola o commerciale. Paradossalmente, la borghesia rivendica a sé la capacità organizzativa del delinquere associato. E può darsi che sia vero: che, cioè, ogni associazione delittuosa che prosperi in Sicilia abbia un capo sconosciuto, ben mimetizzato nella rispettabilità borghese: ma non si può, per questa presunzione, sistematicamente scartare la possibilità che un contadino, come il Lo Bartolo, abbia tanta astuzia e attitudine da tenere in pugno una organizzazione.
Il vigile urbano Giovanni Stuppia, che è stato il Maigret dei fatti di Mazzarino, esclude che l’inchiesta giudiziaria non sia riuscita a raggiungere il capo: secondo lui, capo della banda era il giardiniere del convento. Si parla, negli atti dell’inchiesta, di un certo “Vincenzo” rimasto ignoto: ma pare sia stato un gregario e non un capo.
Il vigile Stuppia, di cui spesso i carabinieri si avvalevano nelle indagini, cominciò ad avere sospetti sull’attività delittuosa del Lo Bartolo per il fatto che costui, padre di nove figli e sempre in condizioni di ristrettezze economiche, aveva cominciato a fare delle spese: una casa, un pezzo di terreno, dei vitelli, delle pecore. Così pure un giovane amico del Lo Bartolo, certo Azzolina: cronicamente disoccupato, si permetteva il lusso di comprare un radiofonografo-bar e una potente motocicletta.
Questi indizi, all’indomani dell’omicidio del cavaliere Cannada, decisamente aggravati a carico del Lo Bartolo dal fatto che la vedova Cannada ricordava come privo di due dita della mano sinistra uno degli uccisori del marito, e il Lo Bartolo aveva quella mutilazione, portarono al fermo di costui. Ma dopo sette giorni, chissà come e perché, il Lo Bartolo venne rilasciato. E cominciarono i guai di Stuppia: per strada gli sussurravano insulti e minacce, “cornuto”, “sbirro”, “ti ammazzeremo”, e così via, finché non gli spararono, ma non, a quanto pare, con l’intenzione di ammazzarlo (alle gambe: ed anche al cavaliere Cannada pare avessero sparato per dargli una lezione, non per liquidarlo).
Il ferimento di Stuppia portò all’arresto di Azzolina: il quale “cantò”. Il Lo Bartolo scomparve da Mazzarino: e fu arrestato più tardi a Genova; ma appena trasferito nelle carceri di Caltanissetta si impiccò. Più tardi furono arrestati quattro monaci: padre Agrippino (Antonio Jaluna), frate Carmelo (Luigi Galizia), frate Venanzio (Liborio Marotta) e padre Vittorio (Ugo Bonvissuto).
“Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro…”: ma i quattro frati e padri, di cui uno addirittura teologo, si erano ricalzati. Il Procuratore della Repubblica dice che “sarebbe addirittura da ingenui ritenere i religiosi succubi delle minacce dei banditi”: e dunque la loro responsabilità è stata pienamente, e senza attenuanti, accertata. I reati di cui debbono rispondere sono molti: estorsione a danno del signor Francesco Bonanno; assassinio del cavalier Angelo Cannada; estorsione a danno della vedova Cannada; altre estorsioni a danno del dott. Ernesto Colajanni, del signor Giuseppe Bartoli, del padre provinciale dei Cappuccini di Siracusa, del padre Costantino del convento di Caltagirone; e infine tutto un giro di abigeati. Come si vede, non avevano ritegno a spremere soldi anche ai loro superiori e confratelli: ed è strano che costoro abbiano pagato senza fiatare, senza toglierseli dai piedi con un trasferimento da Mazzarino a Rimini (che, in forza di quel che accadde a padre Cristoforo per ben altre ragioni, è la prima città del nord che viene sotto la penna). Ma forse i superiori e i confratelli ricordavano quel che, non molto tempo prima era capitato al vescovo di Agrigento: quasi mortalmente impiombato da un monaco della Quisquina che, appunto, si sentiva minacciato di trasferimento. E c’è da dire, manzonianamente ancora, che uno il coraggio non se lo può dare.
In questa terribile vicenda se ne inserisce un’altra, non sappiamo precisamente con quali collegamenti, che ha per protagonisti un altro frate o padre (diceva messa: e dunque era un padre, anche se i giornali lo chiamano frate) Benigno, al secolo Giuseppe Occhipinti, e certa Pasqualina Tasca, assistente ecclesiastica: Il Procuratore della Repubblica Lamia la definisce “vicenda amorosa di sapore boccaccesco sulla quale sarebbe di cattivo gusto indugiare nella narrazione”. Ma i giornalisti non hanno il buon gusto del dottor Lamia (e, confesso, nemmeno io); e si sono dati alla ricerca delle lettere che padre Benigno scriveva alla Pasqualina: o perlomeno di quei brani la cui pubblicazione non faccia incorrere nel reato di oscenità. Da lettere come questa – “Egregio Signore, la invitiamo a versare un piccolo contributo di dieci milioni, altrimenti ne va di mezzo la vita di sua moglie” – con padre Benigno passiamo a ben diverse espressioni: “Mia dolcissima, ti penso e ti sogno sovente. Con te tutto mi sembra soave…”: “Difendi il mio amore con le unghie e la passione e ricorda le ore di intimità trascorse insieme”: “Mia dolcissima Lina, quando dirò Messa mi ricorderò del mio tesoruccio perduto e lontano”.
E questo tocco da “messa nera” è quel che ci voleva a far completa la storia.

Da "Mondo nuovo" N.3 - 15 gennaio 1961

1 commento:

Gian Claudio Scaglione ha detto...

Padre Vittorio è stato assolto in primo grado e la sua assoluzione non è stata appellata, in quanto riconosciuto estraneo ai fatti.

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