29.5.11

Haiku. Nell'impero dei segni.

Shuhei Hosokawa
Tra il 1966 e il 1967, quando il Giappone in Occidente non interessava (quasi) nessuno, Roland Barthes vi soggiornò alcuni mesi e dall’esperienza trasse un libro, L’impero dei segni, pubblicato nel 1970 e tradotto in italiano nel 1984 per Einaudi.
Il Giappone sembrò riattivare il gusto “molto antico” di Barthes per il frammento. Come notò Shuhei Hosokawa (“Alfabeta” n.58, marzo 1984), mentre negli anni 60 egli sembrava preferire una comunicazione più sistematica (Su Racine, Sistema della moda, S/Z), dopo L’impero dei segni realizzò un massiccio ritorno al frammento (da Il piacere del testo ai Frammenti di un discorso amoroso).
Hosokawa nel suo articolo trova una coincidenza significativa tra il tipo di frammento che il grande intellettuale francese praticava e lo (o il?) haiku, la concentratissima forma poetica della tradizione nipponica. Il frammento, così come lo concepisce Barthes, a differenza della “massima” che presuppone un senso profondo ridotto all’essenza, non ha né un senso né un non-senso, è “futile, breve, banale”. Esattamente come lo haiku.
Per spiegarsi Hosokawa opportunamente cita L’impero: “Lo haiku non è un pensiero ricco ridotto alla sua forma breve, ma avvenimento breve che trova tutto ad un tratto la sua forma giusta. La 'giustezza' dello haiku è un adeguarsi del significato e del significante, una soppressione di margini, sbavature, interstizi che ordinariamente eccedono o orlano il rapporto semantico”. O ancora: “Lo haiku è contro-descrittivo, nella misura in cui tutto lo stato della cosa è immediatamente, ostinatamente, vittoriosamente convertito in una essenza fragile d’apparizione”. Il commento diventa pertanto impossibile: “Parlare dello haiku  sarebbe puramente e semplicemente ripeterlo”.
Un paradosso: negli stessi anni Ottanta in cui la traduzione einaudiana proclamava anche in Italia la sentenza di Barthes sulla incommentabilità dello haiku, Longanesi pubblicava i suoi Cento haiku tradotti da Irene Iarocci e presentati da Andrea Zanzotto, definendoli una “antologia commentata”. Carla Vasio, nello stesso numero di “Alfabeta” critica molto la traduzione e, in fondo, l’intera operazione editoriale in un articolo che il titolo (Che cosa è il haiku) vorrebbe definitivo. La sua lettura non sembra di molto allontanarsi dalla tesi della “incommentabilità”, semmai aggiungendovi quella di una difficile, quasi impossibile, “traducibilità”. Vi aggiunge il tema della “illuminazione”, che accosta lo haiku (ma la Vasio preferisce l’articolo “il”) allo Zen, cioè del suo addensarsi intorno a una parola che segna una svolta.
Dell’articolo, complesso e tutt’altro che assolutistico nelle conclusioni (sia sullo haiku che sull’arte del tradurre), riporto come appendice un pezzo, anche per dare un'idea  a chi non voglia cercare approfondimenti per suo conto. (S.L.L.)
Appendice
Che cosa è il haiku
di Carla Vasio
Quella del haiku classico è una struttura ferrea: 17 sillabe suddivise in tre versi di 5-7-5. in questa composizione così rapida vengono riportate immagini di una concretezza materica che evita qualsiasi ambiguità o allusività, qualsiasi alone simbolico, qualsiasi patetismo: nella sua istantaneità il haiku illumina oggetti i una precisione inequivocabile. L’aleatorietà, se così vogliamo dire non sta in una incertezza del tema o in una vaghezza di immagine estompée: sta piuttosto nell’omissione di alcuni nessi che dovrebbero collegare le parti del discorso, ed è in queste omissioni che si realizza l’effetto di choc della composizione.
La fente aperta tra il discorso evidente e il suo significato sotteso (non sottinteso) non viene mai colmata. E non deve essere colmata. La sua funzione è di agire come “buco nero” in cui va ad annullarsi ogni associazione convenzionale, ogni meccanismo logico di apprendimento, spingendo il lettore verso un linguaggio liberato che illumina la distanza del soggetto da qualsiasi identificazione immaginaria o simbolica.
Spesso si è detto che in un certo senso un haiku assomiglia a un koan dello Zen, cioè  a una rottura delle sovrastrutture associative note, per toccare il significante primario che l’immagine contiene e che in questo caso non è sostituibile per sostituzione o per contiguità, ma solo per un annullamento della pretesa stessa di sapere.
Vediamo che cosa si può perdere  della qualità intrinseca di un haiku in una cattiva traduzione. Prendiamo ad esempio un haiku di Basho pubblicato (pa.g. 50) dall’edizione Longanesi, uno dei più noti in Giappone.
Il testo, nella trascrizione fonetica, dice: “Furu ike ya / kawazu tobikomu /mizu no oto”. La traduzione letterale è: Furu, vecchio; ike, stagno; ya è un segno di accentuazione e di pausa; kavazu, rana; tobikomu (parola composta di tobu, volare e komu, entrare), si tuffa; oto, suono; no, di; mizu, acqua. La traduzione che ci viene data è: “Nello specchio antico / d’acque morte / s’immerge / una rana. / Risveglio d’acqua”. … Quello che si perde (soprattutto) è l’efficacia della parola tobikomu, suono di rottura intorno a cui le altre sillabe si aggregano, che significa “balza, si tuffa” e viene graziosamente tradotto con un “s’immerge” ulteriormente addolcito dall’elisione… quel tobikomu, che è il centro dell’interesse dovendo esprimere un colpo improvviso, una rottura, uno choc auditivo ed emozionale...

2 commenti:

...elo... ha detto...

cosa c'e scritto nell'immagine???

Salvatore Lo Leggio ha detto...

Io non conosco il giapponese, ma so che vi è scritto, con i segni di quella lingua, lo (o il) haiku di cui si ragiona nel testo, quello della rana. Grazie dell'attenzione

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