8.5.11

"La bellezza è una canzone". Una conferenza musicale di Garçia Lorca.

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Qualche anno fa, da poco rientrato a Granada in vacanza dalla mia università madrilena, passeggiavo con Manuel de Falla lungo una delle strade della città dove sorgono quei tipici orti orientali unici al mondo. Era estate e discorrevamo asciugandoci il sudore argentato prodotto dalla luna piena andalusa. Falla parlava della degenerazione, dell’oblio e del dispregio che avvolgevano le nostre vecchie canzoni, tacciate dai più di cosa volgare, ridicola, roba da mantenute, e mentre protestava e si rivoltava contro tutto ciò, da una finestra fuoriuscì una canzone antica, pura, eretta con coraggio di fronte al tempo. 
Ci affacciammo alla finestra e attraverso le persiane verdi vedemmo una stanza bianca, asettica, senza un quadro, come una «macchina per vivere» dell’architetto Le Corbusier, e in essa due uomini, uno con la chitarra e l’altro con la sua voce. Era talmente puro l’uomo che cantava, che quello con la "vihuela" sviava soavemente lo sguardo per non vederlo così nudo. E notammo perfettamente che quella chitarra non era la chitarra contenuta nelle custodie di uva passa, con macchie di caffellatte, bensì la cassa liturgica, la chitarra che esce di notte quando nessuno la vede e si converte in acqua di sorgente. La chitarra fatta con legno di barca greca e criniera di mula africana.
Fu così che Falla decise di organizzare un concorso di "cante jondo "con l’aiuto di tutti gli artisti spagnoli e la festa fu da tutti i punti di vista un trionfo e una resurrezione. Coloro che prima lo detestavano, adesso lo adorano, ma io li conosco. Sono trattenuti da un principio di alta autorità, ma saranno i primi a rivoltarsi contro, perché non lo hanno mai compreso. Per questo quando mi imbatto in qualche intellettuale freddo o in qualche signorino da biblioteca che ascolta le "soleares" con gli occhi fuori dalle orbite, gli getto in faccia con impeto quella manciata di panna che il cinematografo mi ha insegnato a portare sempre nascosta nella mano destra (…). È indubbio che la chitarra abbia dato forma a molte canzoni andaluse, le quali hanno dovuto adattarsi alla sua costituzione tonale, come dimostra il fatto che nelle canzoni che si cantano senza di essa, come i "martinetes" e le "jelianas", la forma melodica cambia completamente e acquisisce una maggiore libertà e un impeto che, anche se più diretto, è meno costruito.
La chitarra nel "cante jondo" deve limitarsi a marcare il ritmo e a seguire il cantaor; è un sottofondo per la voce e deve sottomettersi a colui che canta. Ma poiché la personalità del chitarrista è forte quanto quella del "cantaor", questi anche deve cantare e nasce la" falseta", che è il commento delle corde, a volte di estrema bellezza quando è sincero, ma in molte occasioni falso, sciocco e pieno di italianismi senza senso se interpretato da uno di quei virtuosi che accompagnano i "fandanguilleros" negli spettacoli deplorevoli che si chiamano "ópera flamenca".
La "falseta "anche è tradizione e alcuni chitarristi fanno come il magnifico Niño de Huelva che, pur lasciandosi trasportare dalla voce del suo buon sangue, non si apparta dalla linea pura né pretende mai, sommo virtuoso, di dimostrare il suo virtuosismo. Ho parlato della «voce del suo buon sangue» perché la prima cosa di cui si necessita per il "cante" e il "toque" è questa capacità di trasformazione e depurazione della melodia e del ritmo che possiede l'andaluso, specialmente il gitano. Sagace nell’eliminare il nuovo e il superfluo per far risaltare l'essenziale, un potere magico nel disegnare o calibrare una "siguiriya" con un accento assolutamente millenario. La chitarra commenta ma al contempo crea e questo è uno dei maggiori pericoli per il "cante". A volte un chitarrista che vuole mettersi in mostra sciupa del tutto l'emozione di un verso o lo slancio di un finale.
Ciò che è indubbio è che la chitarra ha costruito il "cante jondo". Ha arato, approfondito, l'oscura massa orientale, ebraica e araba antichissima, ma per questo balbuziente. La chitarra ha occidentalizzato il "cante" e ha creato la bellezza senza pari e la bellezza positiva del dramma andaluso, Oriente e Occidente in lotta, che fanno della Betica un'isola di cultura (…). Perciò mentre molti canti della penisola hanno la facoltà di evocare i paesaggi nei quali vengono cantati, il "cante jondo" canta come un usignolo senza occhi. Canta cieco e per questo nasce sempre dalla notte. Non ha mattina né sera, né montagne né pianure. Non ha altro che una luce di notte astratta dove una stella in più sarebbe un irresistibile squilibrio.

Postilla
L’Unità del 17 ottobre 2019 pubblicava, come anteprima, una conferenza “musicale” di Federigo Garçia Lorca risalente ai primissimi anni trenta e contenuta nel volume
Sotto altre lune e altri venti,  a cura di Maria Cristina Assumma, pubblicato da Nova Delphi, una raccolta di conferenze del grande poeta e drammaturgo che costruisce una sorta di racconto della Spagna attraverso le sue melodie. E’ un testo  che rivela competenza musicale, acume critico e storico, passione. Io lo considero, per molte ragioni, assai vicino agli scritti pasoliniani sul canto popolare.

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