9.5.11

Ricordo di Ernesto Sàbato. "Sognando don Chisciotte" (1985).

A fine aprile è morto, quasi centenario (era nato nel giugno del 1911), il grande scrittore argentino Ernesto Sàbato, l’autore tra l’altro di Sopra eroi e tombe, uno dei massimi capolavori della letteratura latino-americana del Novecento.
Era nato da genitori italiani nei sobborghi di Baires. Laureato in Fisica nel 1937, visse a Parigi negli ultimi anni Trenta, mentre lavorava per effetto di una borsa di studio nel prestigioso laboratorio Curie. Fu comunista fino al 1936, fino ai grandi processi di Mosca.
Nel dopoguerra lasciò la ricerca scientifica per dedicarsi interamente alla letteratura. Fortemente ostile al peronismo, negli anni 70 diede credito alla dittatura militare incontrando il generale Videla, ma fu tra i primi intellettuali a denunciare pubblicamente i crimini di costui e dei suoi sodali e successori nelle diverse giunte.
Dopo la caduta del regime militare, alla fine degli anni Settanta, fu scelto, per la sua indipendenza intellettuale, come presidente della commissione che investigava sui desparecidos. In questo ruolo fu tra gli autori della bellissima relazione Nunca mas (Mai più), base dei successivi processi contro i generali argentini golpisti. Negli ultimi decenni definiva la sua posizione politico-ideologica “anarchismo cristiano”.
In letteratura si distinse sempre per una attitudine sperimentale e per una scrittura che non si limitasse a divertire o a rappresentare, ma che “inquietasse”. La letteratura è per lui un linguaggio vicino al sogno o al mito, cioè una “ontofonia”, rivelazione della realtà tutta intera, una realtà che – come disse in una intervista negli anni Ottanta – che “è impregnata di ciò che è obiettivo, ma conserva con esso una relazione sottile, intricata e perfino contraddittoria".
Ricevette a Madrid, a fine aprile 1985 il più prestigioso dei premi letterari per gli autori in lingua spagnola, il premio Cervantes. Quello qui “postato” è uno stralcio dal discorso tenuto in quell’occasione. L’ho tratto da “l’Unità” del primo maggio di quell’anno. Non è indicato il nome del traduttore, ma potrebbe essere Giannantonio Orighi che firma la breve nota di presentazione. (S.L.L.) 

Ernesto Sàbato e la statua di Cerere
Sapeva Cervantes di scrivere un’opera trascendentale? No certamente, quando cominciò a scriverla. Un ingegnere conosce già ciò che diventerà il ponte che ha calcolato nei sui progetti; però non si può calcolare una grande invenzione, perché non si costruisce unicamente con le ragioni del cervello, quelle che servono per dimostrare teoremi, bensì anche – e soprattutto – con ciò che Pascal chiamava “les raisons du coeur”, le incomprensibili e contraddittorie verità del cuore. Dovstoievski si propose di scrivere un opuscolo sull’alcolismo e ne uscì Delitto e castigo. Cervantes voleva scrivere una divertente parodia dei romanzi cavallereschi e finì per creare una delle più commoventi parabole sull’esistenza, una patetica e melanconica testimonianza della condizione umana, un ambiguo mito sullo scontro delle illusioni sulla realtà e sulla intima frustrazione che questo scontro produce. Questo non lo sapeva quando cominciò la sua impresa, non lo poteva sapere neanche con la sua prodigiosa intelligenza, perché il cuore non si può misurare con il cervello; ne prese coscienza man mano che avanzava, secondo gli avvenimenti imprevisti e i personaggi, che andavano molto al di là o in direzioni differenti dal prestabilito. E forse non lo seppe mai del tutto, neppure dopo aver terminato la grande avventura, come mai siamo in grado di decifrare compiutamente il significato dei nostri propri sogni; perché tutte le spiegazioni che la ragione ricerca sono impotenti, perché il sogno è una ontologia, una rivelazione di quell’oscura realtà dell’inconscio nell’unica forma in cui si può esprimere. da qui tutte le interpretazioni che si fanno dello stesso sogno, a seconda delle epoche e delle teorie che si utilizzano, e da qui, e per diversi motive, le diverse e perfino contrastanti letture di una invenzione profonda come quella di don Chisciotte. Se non fosse qualcosa di più della satira di un romanzo cavalleresco, non sarebbe durato tanto a lungo, quando queste narrazione erano già dimenticate e mancavano di una minima validità. E neppure si spiegherebbe perché questa presunta satira, oltre a farci ridere, ci stringe la gola. tutti comprendiamo come le avventure di don Chisciotte siano grottesche e contemporaneamente intuiamo che un qualcosa tanto visibile quanto i mulini a vento costituiscono un mito rivelatore della condizione umana.
I personaggi di questa grande invenzione sono emanazione, ipostasi dell’io più recondito dello scrittore e per questo sono inaspettati e prendono cammino che l’ideatore non aveva previsto, o cambiano le loro attribuzioni a seconda di come si sviluppano, nella misura in cui l’azione avanza. Niente di più sensato di don Chisciotte quando consiglia a Sancho come governare l’isola, e niente di più donchisciottesco di Sancho quando crede in questa isola. Lo scrittore esperto sa che questo fenomeno è inevitabile e che deve essere moderatamente contrastato, perché è ciò che assicura autentica vita alle sue creature. Non si deve supporre che, vivendo solo sulla carta ed essendo stati inventati da un autore, esse siano del tutto prive di libero arbitrio, burattini con cui lo scrittore fa quello che vuole. Al contrario, l’artista si sente davanti al suo personaggio tanto incuriosito come davanti a un essere in carne e ossa, un essere con volontà propria che realizza i propri disegni. La cosa curiosa, la ragione ontologica della meraviglia è che questo personaggio è un prolungamento del suo autore: accade come se una parte del suo essere fosse testimonio dell’altra parte, e testimonio importante. Questa caratteristica delle grandi invenzioni è proprio quello che le converte in grandi verità. Di un sogno si può dire qualsiasi cosa, meno che sia una menzogna. mediante ciò che in tempi antichi si chiamava ispirazione, pur senza proporselo, lo scrittore riscatta da questo territorio arcaico simboli e miti che infondono verità alle proprie creature e che daranno loro la perennità della specie umana. Lo spirito puro produce idee, e le idee cambiano, perciò Hegel è superiore ad Aristotele. Ma l’Ulisse di Joyce non è superiore all’Ulisse di Omero. I sogni non progrediscono: danno verità immutabili e assolute. In una lettera ad un amico Karl Marx manifestava la sua perplessità perché le tragedie di Sofocle continuassero a commuovere, sebbene le società moderne fossero così fondamentalmente diverse dalle antiche. Ma accade che gli attributi ultimi della condizione umana non soffrano le vicissitudini della storia.
Questa condizione di complessità fa sì che sia impossibile giudicare razionalmente il capolavoro di Cervantes. Dolce, abbandonato, ramingo, coraggioso, donchisciottesco Migue de Cervantes Savaedra, l’uomo che una volta disse che per la libertà. come per la dignità, si può e si deve rischiare la vita. Che emozione sento ora, alla fine della mia  esistenza, nell’essere protetto dalla sua generosa e incalcolabile ombra.

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