5.2.12

Meraviglioso architetto Gaudì (dai "Quaderni" di Leonardo Sciascia)

Barcellona, Parco Guell
Mi piacerebbe fare tutto un discorso su Gaudì, l’architetto della Sagrada Famiglia, del parco Guell. Dieci anni fa, quando sono venuto per la prima volta a Barcellona, non ne conoscevo nemmeno il nome: camminavo per il paseo de Gracia, e improvvisamente mi sono trovato di fronte alla casa Milà. Ne ho avuto una impressione così forte che i due giorni che mi restavano li ho passati cercando tutte le cose di Gaudì. E ora rifaccio il pellegrinaggio, cominciando appunto da casa Milà.
Dieci anni fa ho avuto soltanto il piacere della scoperta, il senso di trovarmi di fronte all’opera di un genio. Ora sono in grado di potere analizzare le mie sensazioni, di trovare rapporti e rispondenze, di collocare questo grande architetto nella storia della sua arte e del suo tempo (grazie, soprattutto, alle tre o quattro monografie che ho letto in questi anni). Ma qui mi preme fermare due impressioni. La prima riguarda l’uso del ferro battuto, i capricci e le fantasie cui Gaudì lo piega specialmente nelle ringhiere dei balconi; e mi pare provenga dalla tradizione di attaccare alle ringhiere, nelle case di Barcellona e un po’ anche in quelle di Madrid, quegli intrecci di foglie di palma e le palme stesse, della domenica che precede la Pasqua. La seconda riguarda l’uso delle ceramiche a colori, particolarmente nel parco Guell: in cui ritrovo il giuoco infantile della ricerca a disposizione decorativa dei cocci di vecchi piatti, un giuoco che oggi i ragazzi non fanno più ma cui un tempo tutti, nella estate, in campagna, ci dedicavamo con passione. I cocci erano chiamati “lisciari” nell’agrigentino, “granapiatti” nel nisseno: e non sono mai riuscito ad accertare da dove provenga il primo termine (a meno che non venga appunto dallo spagnolo “lijar”, far rilucere, forbire), mentre il secondo, denaro-piatti, dice dell’uso di scambiare i cocci tra i ragazzi, quasi come moneta. E ritrovare in Gaudì questi due elementi di tradizione e di memoria, della Spagna come della Sicilia, è un fatto che mi commuove.

“L’Ora”, 21 agosto 1966

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