13.2.12

Tanucci, la storia e la famiglia. Ministri di ieri e di oggi (Leonardo Sciascia)

Bernardo Tanucci
Da Nero su nero di Leonardo Sciascia recupero questa pagina, sospesa tra il ricordo di viaggio, la rievocazione storica, la riflessione morale. Ho pensato, rileggendola, a ministri e politicanti dei giorni nostri e mi sono sentito anch’io molto moralista. (S.L.L.)
Leonardo Sciascia
Stia, in provincia di Arezzo. Penso a quel che dice Tomasi di Lampedusa del paese che aveva dato i natali a padre Pirrone: «era una delle stie-satelliti di Palermo», cioè uno di quei paesi che fornivano la città di pollame. Stia, capoluogo e «mercatale» della contea dei Guidi, ebbe forse da uguale nomea il nome.
Ma mentre nella piazza assolata la facile e stracca immaginazione gremisce i portici di starnazzanti polli dalle zampe scure e terrose, che hanno appena li mio di ruspare sull'aia, ecco il barbaglio di una lapide sulla facciata di un palazzetto. Mi allontano a cercare un filo d'ombra (e il giusto fuoco alla mia presbiopia in progresso), e non senza emozione leggo: « Qui nacque e abitò Bernardo Tanucci ministro e confidente di Carlo III e Ferdinando IV di Borbone nel Reame di Napoli e Sicilia politico esperto dei tempi suoi governò per XLIII lo Stato con potenza di principe ed ebbe nelle cose d'Italia e Spagna voce autorevole morì lasciando di sé quasi povertà alla famiglia e molto nome alla storia». La lapide è stata murata nel 1877, quando ancora non era un disonore, per un uomo politico, per un uomo di governo, lasciare di sé quasi povertà alla famiglia.
Nella sua Italia del Settecento, Montanelli dice che quando Tanucci morì e si seppe che aveva lasciato un patrimonio irrisorio, lo stupore fu grande: «anche allora l'onestà, in Italia, faceva grande impressione». Ma non l'impressione che fa ai giorni nostri. Se i ministri X o Y (il lettore ha a sua disposizione l'intero alfabeto) morissero lasciando non solo nessun nome alla storia ma quasi povertà alla famiglia, le opinioni, univoche per il mancato retaggio alla storia, si dividerebbero riguardo alla quasi povertà: i più non lo crederebbero, i meno direbbero « che fesso! » (non voglio essere pessimista, e perciò lascio i più all'incredulità e i meno alla vituperazione). Ma onestamente bisogna riconoscere che i ministri X o Y non godono dell'alternativa di cui godeva Tanucci. Tanucci poteva lasciare molto patrimonio alla famiglia o molto nome alla storia. Loro no: soltanto il patrimonio. (Nel racconto Suor Scolastica Stendhal fa dire a Carlo III, che teme le dimissioni di Tanucci: «Dove potrò trovare un altro ministro così onesto, così attivo, che ha rifiutato diversi milioni dalla Curia Romana?». Ma Ferdinando IV, meno intelligente del padre e succubo della moglie, ebbe nei riguardi del Tanucci ambiguo sentimento di soggezione e di insofferenza. Casanova racconta di una lettera che il giovane re scrisse al padre: che tra le cose che non capiva e che lo stupivano c'era quella «che tutti muoiono alla fine della loro carriera, tranne Tanucci che vivrà, credo, sino alla fine dei secoli ». E alla fine lo licenziò: poco prima che, a ottantacinque anni, l'uomo che con mente illuminata e mano ferma aveva guidato il Regno per quarantatre anni morisse in un suo ritiro di campagna. Ma forse aveva ragione Ferdinando: non sarebbe mai morto, se avesse continuato a governare).

Naturalmente, il fatto che io trovi sublime la frase che chiude la lapide in memoria di Tanucci - «lasciando di sé quasi povertà alla famiglia e molto nome alla storia» - mi pone nel novero dei moralisti: esigua specie di sopravvissuti, fortunatamente sul punto della totale estinzione. «Questo è moralismo» mi disse un giovane al quale mi ero azzardato a dire che, in tempi di confusione, bisognava almeno cercare di far bene ciascuno il proprio lavoro. Bisogna farlo male. O addirittura, e meglio, non farlo.

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