19.6.13

La Signora delle camelie. Cuore di cortigiana (di Gian Carlo Roscioni)

Greta Garbo nel ruolo della "Signora delle Camelie"
Chi non conosce la storia di Marguerite Gautier? In verità, almeno in Italia, quella che tutti più o meno bene conosciamo è la storia di Violetta, protagonista del melodramma più popolare del nostro Ottocento. Quanto al romanzo La Signora dalle camelie che Dumas figlio pubblicò nel 1848, e al dramma che egli stesso ne ricavò pochi anni più tardi, sono assai meno noti; e chiunque ne intraprenda la lettura si trova subito a contatto con un' atmosfera che se coincide, grosso modo, con quella della Traviata, presenta anche caratteri diversi e inattesi. In particolare il romanzo, ora ripubblicato nella traduzione di Antonietta Sanna e con una postfazione di Maria Teresa Giaveri (Serra e Riva, pagg. 260, lire 17.000), colpisce per vicende e situazioni molto più intricate, e forse più convenzionali di quelle che i versi di Piave e la musica di Verdi ci hanno reso familiari. Per rendersene conto basta leggere, all' inizio dell' opera, la descrizione della salma della protagonista, che Armand (prudentemente ribattezzato Alfredo nella versione italiana: ve l' immaginate Violetta cantare "Amami Armando, amami com' io t'amo"?), preso da morbosa curiosità, ha fatto, due mesi dopo la morte, riesumare: "Gli occhi erano solo due buchi, le labbra erano scomparse, e i denti bianchi erano serrati gli uni contro gli altri. I lunghi capelli neri e secchi erano come incollati alle tempie e nascondevano un po' le cavità delle guance verdastre". Ma non bisogna attribuire troppo peso a questi terrificanti dettagli: La Signora dalle camelie non è un romanzo dell'orrore. Il "nero" è solo uno dei molti colori e ingredienti di cui Dumas si è servito, con abile eclettismo, per costruire un romanzo di successo. Sebbene giovanissimo - aveva ventitre anni -, possedeva già un ottimo mestiere, con il quale riuscì ad amalgamare espedienti e cliché attinti a fonti e generi disparati in una trama serrata e avvincente. La varietà dei registri ammette letture diverse, ma non si può non constatare, a più di un secolo di distanza, che quella in chiave sociologica ha quasi sempre prevalso; e qui sta la fortuna e la disgrazia della Signora dalle camelie. Il romanzo e il dramma sembrarono nel secolo scorso audacissimi, e la redenzione della protagonista non parve sufficiente a riscattare una parte che persino un'attrice intelligente come Adelaide Ristori rifiutò sempre d'impersonare. D'altro canto, un vasto pubblico e uomini come Verdi non furono insensibili alle idee e tesi dell'autore: idee e tesi che, manco a dirlo, appaiono oggi conformiste e ipocrite (si legga in proposito la brillantissima postfazione di Maria Teresa Giaveri), legate come sono a un mondo e a una cultura da cui ci sentiamo molto lontani. Ma, si dirà, è indispensabile leggere La Signora dalle camelie in chiave sociologica e storico-culturale? Temo di sì, perché a parte le riflessioni che il dramma di Marguerite può suggerire sulla condizione della donna nell' Ottocento (particolarmente sottili le notazioni della Giaveri sul ruolo del denaro nella tessitura del racconto), il libro di Dumas non sembra in grado di provocare nel lettore di oggi molte reazioni. Dumas commette oltretutto l'imprudenza di evocare continuamente il proprio modello - Manon Lescaut dell'abate Prèvost -, e il confronto tra i due romanzi, che si è portati di riflesso a istituire, si rivela disastroso per l' autore della Signora delle camelie. Si pensi al personaggio di Armand, brutta copia di quello di Des Grieux, che costituisce a sua volta il punto debole del capolavoro di Prèvost. In tedesco, per indicare la balordaggine di un individuo si dice che è "dumm wie ein Tenor", stupido come un tenore. Non credo affatto che i tenori siano più stupidi dei baritoni, o dei professori di lettere. Se tenore ha potuto diventare sinonimo di stupido, questo si deve, secondo ogni verosimiglianza, alla figura, tra patetica e comica, di personaggi come Armand e come Des Grieux, i quali nei due romanzi come negli adattamenti teatrali mostrano di non capire situazioni e atteggiamenti che risultano chiarissimi anche all' individuo meno perspicace. Armand soprattutto non ha attenuanti: a differenza di Des Grieux non deve scoprire nulla, sa fin dall'inizio chi è la donna con cui ha a che fare, la quale, oltretutto, è a differenza di Manon, una professionista. La vera vittima del professionismo di Marguerite non è però Armand ma il romanzo. Mentre Manon ha qualche cosa di singolare, di irripetibile nella sua contraddittorietà, Marguerite appartiene a una categoria, a una specie: lei stessa non fa che parlare delle "donne come me". Se quindi il romanzo viene oggi letto come un documento, subisce una sorte che l'autore si è meritata. E' la sua protagonista che, lasciandosi andare a dichiarazioni come "Non ci apparteniamo più", "Non siamo degli esseri ma delle cose", inizia l' analisi sociologica del proprio caso. Persino quelle che nella sua condotta possono sembrare delle stravaganze, nulla hanno di veramente soggettivo e d' imprevedibile, ma vengono presentate come peculiari di un mestiere e di un ruolo. Dice Marguerite: "Il nostro cuore di noi cortigiane ha dei capricci". Sono dei plurali che mortificano il personaggio e impoveriscono letterariamente il racconto. Prostitute e cortigiane hanno costituito in ogni tempo per gli scrittori un tema d'elezione: un senso di solidarietà nella marginalità ha portato poeti e romanzieri a "odiare e amare" creature che Dumas ci invita invece a compiangere. Raccontandoci la storia di una cortigiana che si redime, La Signora dalle camelie infrange questa solidarietà e costringe l'autore a mentire: perché la protagonista non è una vera cortigiana, ma un personaggio che tende a comportarsi, nel male e nel bene, come la società e la morale del tempo immaginavano che le cortigiane dovessero comportarsi. Ci voleva l'estrosa, ardente musica di Verdi per liberare da una così pesante ipoteca la storia e gli amori di Marguerite.

 “la Repubblica”, 14 agosto 1984

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