26.6.13

Storia a sinistra. La contemporaneistica in Italia. (Michele Nani)

Federico Chabod
La storia a sinistra di Gilda Zazzara, da poco uscito per Laterza, ricostruisce e analizza il percorso di crescita e legittimazione della storia contemporanea in Italia. Un percorso che ha segnato la ricerca dell'ultimo mezzo secolo, intessuto di proposte diverse, contestazioni, confronti serrati
Per studenti e genitori è ormai scontato che nell'ultimo anno della scuola superiore si studi la storia del Novecento, fino al Sessantotto o all'Ottantanove. Dopo la maturità, i percorsi di laurea umanistici e delle scienze sociali prevedono generalmente che si sostengano uno o più esami di «Storia contemporanea». E un giovane studente universitario può scegliere di laurearsi in Storia, magari con una tesi sul ventennio berlusconiano. Il ventesimo secolo è inoltre al centro della divulgazione storica e della comunicazione mediatica della storia, anche perché le sue vicende sono oggetto di un continuo uso pubblico, dalle finalità spesso direttamente politiche, quando non meramente strumentali. Questa massiccia presenza della storia recente nelle istituzioni formative e nello spazio pubblico è tuttavia un'acquisizione dell'ultimo mezzo secolo.
Tradizionalmente, da Tucidide e Erodoto in poi, lo storico è storico del proprio tempo, di cose che ha visto o che testimoni affidabili gli hanno raccontato. Ma con la Rivoluzione francese, la politicizzazione di massa, l'industrializzazione e la mercificazione delle relazioni sociali, il presente diviene indecifrabile e imprevedibile, e, al tempo stesso, una cesura lo separa dal passato, anche prossimo, mentre un'accelerazione continua lo spinge verso il futuro. Questa celebre tesi di Reinhart Koselleck ha come corollario che la storia «contemporanea» si sia venuta progressivamente distinguendo da una storia «moderna» in qualche modo conclusa con la fine dell'Antico Regime. «Contemporanea» a parte, delle età precedenti nel corso dell'Ottocento si scrive una storia sempre più fondata: nasce il «mestiere» di storico e la storia si fa scienza, basata sull'esame filologico delle fonti documentarie. Invece la peculiare natura della storia del tempo presente fa sì che, agli occhi degli storici, ogni tentativo di ricostruirne il movimento sia inevitabilmente viziato da passioni politiche, per la mancata distanza dall'oggetto di studio e per l'inaccessibilità delle fonti ritenute più importanti, quelle archivistiche.

Allievi di grandi maestri
Con il «paradosso crociano», l'Italia ha offerto un'esemplificazione diretta di questa dissociazione del campo degli studi storici. Nel fuoco della polemica antipositivistica Croce giunse a teorizzare che «ogni vera storia è storia contemporanea», non essendo lo storico alieno dai problemi del proprio tempo, che si riflettono nella scelta dell'oggetto di ricerca e nel senso stesso dello studio. Scrisse poi una fortunata Storia d'Italia (1928) contrapposta alla sintesi filofascista di Gioacchino Volpe e pensata come una difesa dell'età «liberale» e una denuncia dell'involuzione mussoliniana (alla quale, per altro, aveva offerto inizialmente il proprio sostegno). Dopo il 1945, tuttavia, agli allievi dell'Istituto di studi storici fondato nel suo palazzo napoletano, Croce raccomandava di non impegnarsi in studi su vicende troppo recenti, per non rischiare di incorrere in distorsioni e polemiche politiche. Nei primi anni del dopoguerra era un giudizio corrente e dominante, ma venne superato nel giro di poco più di un decennio, come racconta e spiega ora un importante lavoro di Gilda Zazzara, La storia a sinistra, centrato sulla legittimazione e sulla crescita della «storia contemporanea» in Italia.
Protagonista del riscatto della contemporaneistica dal complesso di inferiorità nei confronti delle discipline storiche fu un gruppo di studiosi nati a cavallo dell'avvento del fascismo, fra guerra e grande crisi. I loro nomi sono oggi noti, ma nel 1945 si stavano per laureare o iniziavano la loro carriera di studiosi: Pavone, Quazza, Collotti, De Felice, Ragionieri, Della Peruta, Merli, Zangheri e molti altri. Quasi tutti uomini (con l'eccezione di Franca Pieroni), generalmente borghesi e di famiglie non attivamente antifasciste, cresciuti e formati nella propaganda fascista, dovettero affrontare le prove della guerra e della resistenza, che nel fuoco di radicali mutamenti imposero loro un riesame accelerato della propria visione del mondo. Allievi di grandi maestri storicisti e idealisti, a vario titolo integrati nelle istituzioni culturali dello Stato fascista (Volpe, Chabod, Cantimori - ma viveva ancora l'esempio dell'esule Salvemini e non va dimenticata l'isolata ma fertile esperienza di Luigi Dal Pane), dovettero rielaborarne l'eredità, conservando la lezione metodologica (condensata nelle Lezioni di metodo storico di Federico Chabod, edite nel 1969 ma circolate per quasi trent'anni come dispense) e segnando una discontinuità politica e ideale. Per farlo trovarono ispirazione e sostegno al di fuori del campo storiografico, in dirigenti politici dall'altissimo spessore intellettuale, come Parri, Togliatti, Sereni e Valiani, e nelle istituzioni culturali della sinistra.

Al di fuori dell'università
Le chiusure universitarie e culturali del dopoguerra li spinsero a diventare socialisti o comunisti, anche perché solo quei partiti offrivano i necessari spazi di discussione e di confronto, proprio mentre il marxismo rappresentava uno strumento di rinnovamento della pratica storica e si andava scoprendo lo straordinario lascito di Gramsci, i cui Quaderni erano pubblicati da Einaudi in volumi tematici in quegli stessi anni. L'impegno suggerì alla «sinistra storiografica» (così la definì uno dei protagonisti, Gastone Manacorda) nuovi oggetti di studio come il movimento operaio e contadino, il fascismo e la Resistenza, affrontati con spirito critico e scientifico, al contrario di quanto voglia far credere l'interpretazione tendenziosa oggi diffusa, che riduce a ideologia un'intera stagione di studi. In realtà i rapporti fra scholarship e commitment non si prestano a facili schematismi: il forte legame con la politica fu allora veicolo di un progresso scientifico, con la conquista agli studi storici della contemporaneità, delle classi subalterne, di nuove fonti (media, memorie, fonti orali) e i primi passi di un dialogo con le scienze sociali, grazie al marxismo e alla storia economica.
Il lavoro della nuova generazione di storici si svolse per lo più al di fuori dell'università, in due sensi: dal punto di vista materiale, i contemporaneisti erano dirigenti politici, insegnanti, giornalisti o impegnati nel lavoro editoriale e il loro rapporto con l'università era legata a studi di storia moderna, specie settecentesca, e allo statuto di «assistenti volontari», cioè non pagati; in riferimento agli ambiti di lavoro, Zazzara insiste opportunamente sul ruolo di supplenza delle riviste (esemplare «Movimento operaio» di Gianni Bosio) e soprattutto dei nuovi Istituti fondati fra 1949 e 1951 (la biblioteca Feltrinelli e l'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia a Milano e l'istituto Gramsci a Roma).
La crisi del 1956 segnò la definitiva maturazione della contemporanestica, sotto il segno di una «sinistra storiografica» che acquisì una maggiore autonomia sia dai condizionamenti più direttamente politici, sia dal giudizio riduttivo delle autorità del campo storiografico. Di lì a poco, la spinta del nuovo antifascismo giovanile, con le manifestazioni contro l'ingresso del Msi nell'area di governo e le migliaia di presenze alle lezioni pubbliche di storia degli ultimi trent'anni, avrebbe creato lo spazio sociale per la definitiva affermazione della «storia contemporanea» come disciplina legittima. Nel 1960 i programmi scolastici di storia arrivarono a includere la nascita della Repubblica democratica e venne bandito il primo concorso per la nuova disciplina, vinto da Giovanni Spadolini, non certo un protagonista della «sinistra storiografica», ma nell'Italia democristiana sarebbe stato ancora impensabile. L'anno successivo, mentre il primo centenario dell'Italia unita si consumava nella retorica istituzionale, Einaudi pubblicò le lezioni di Federico Chabod L'Italia contemporanea, che sembrarono sancire la definitiva legittimazione della storia del tempo presente.
Nel giro di un decennio si diedero sviluppi impensabili: la popolazione universitaria si allargò, nacquero i corsi di laurea in Storia, la produzione contemporaneistica crebbe e si articolò. La «sinistra storiografica» finì in cattedra, mentre gli Istituti dove aveva mosso i primi passi vennero riconosciuti e persino finanziati dallo Stato. La storia contemporanea si fece «canone» (ricerche ispirate alla centralità della dimensione politica, condotte da studiosi impegnati, scientificamente rigorosi, attivi nelle università), e come tutti i «canoni» venne ben presto contestato. Dapprima l'ondata sessantottina investì la «sinistra storiografica» nel suo ruolo docente, incontrando generalmente, va detto, uno sforzo di dialogo, che tuttavia non fu sufficiente.
La contestazione si allargò a temi e metodi della ricerca, proprio mentre lotte e lacerazioni sociali portarono alcuni settori di quella generazione, ormai attorno ai cinquant'anni, su nuove posizioni politiche e storiografiche. Sotto la direzione di Guido Quazza l'Insmli accolse giovani studiosi della «nuova sinistra» e fu laboratorio di una critica alla storiografia della sinistra storica, comunista e socialista. Infine, secondo la celebre tesi di Nicola Gallerano, a cavallo del Sessantotto, molti giovani studiosi si addormentarono storici «politici» e si risvegliarono storici «sociali»: nel giro di un decennio la peculiarità italiana di un rapporto fondativo e fecondo fra storia contemporanea, impegno politico e marxismo si sarebbe riassorbita. La storia a sinistra si chiude con un brano della Presentazione dei curatori della Storia d'Italia einaudiana: due modernisti di vaglia, Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, giustificavano elegantemente, con una citazione dantesca, l'estensione dell'opera «fino ad oggi». Nello stesso anno su «Quaderni storici» si apriva un dibattito sulla contemporaneistica. Fra i critici del primato della storia politica e fautori di una storia sociale strutturale, aperta alle scienze sociali, vi erano anche due protagonisti della lotta per la legittimazione, Alberto Caracciolo e Pasquale Villani. Nel giro di pochi anni, i «Quaderni storici» divennero il laboratorio della nuova «storia sociale» italiana e ospitarono la maturazione di una proposta metodologica ancor più raffinata e radicale, la «microstoria», formulata da Carlo Ginzburg, Edoardo Grendi e Giovanni Levi. Come evidenzia il sottotitolo del Manuale di storiografia occidentale. Dal marxismo alla microstoria italiana, del messicano Carlos Antonio Aguirre Rojas, la proposta «microanalitica» si costituì in un confronto serrato con la «sinistra storiografica» e ha avuto un ampio successo internazionale, mediato dalla storiografia francese, specialmente dagli eredi delle «Annales» di Bloch, Febvre e Braudel.

Una cesura con il passato
A questo filone di studi è dedicata ora una raccolta, Microstoria, che ospita saggi dei protagonisti di quella stagione (Gribaudi, Torre, Allegra, Loriga, Ramella, Ago) e di più giovani studiosi (Favero, Trivellato, Ruspio, Caracausi). Nell'intervista a Giovanni Levi che chiude il volume si colgono i fili di continuità e le rotture fra «sinistra storiografica» e microstoria. Levi era allievo di Garosci, uno dei primi «contemporaneisti» in cattedra, e collega direttamente la genesi del nuovo approccio alle proprie esperienze politiche. Le difficoltà di socialisti e comunisti, ma anche dello stesso operaismo, rimandavano alla mancata comprensione della complessità del mondo sociale, ovvero, come ricorda Maurizio Gribaudi, alla semplificazione della struttura di classe e alla fiducia del progresso tecnologico e sociale, con irrigidimento evoluzionistico del divenire storico e conseguenti danni nel campo degli studi. Come nel rapporto con la politica, anche nell'approccio alle fonti i microstorici non segnavano una cesura, per l'acribia filologica di analisi di singoli documenti o per lo spoglio di ampie serie documentarie e relativa elaborazione quantitativa, con fiducia nella «trasparenza» delle fonti (qui criticata da Angelo Torre). Formatisi negli anni di nascita e affermazione della «sinistra storiografica», ma antiaccademici e impegnati spesso alla sinistra dei maestri, i «microstorici» non diedero vita a una scuola e non proposero un paradigma unitario, bensì una critica delle categorie interpretative, delle narrazioni totalizzanti, delle scorciatoie mentali ormai divenute automatismi storiografici. Costruirono, anche attraverso un'importante collana per Einaudi (una ventina di titoli fra '81 e '91), uno spazio di discussione a partire da un empirismo radicale, da un approccio fortemente «sperimentale» e da riferimenti teorici diversi dal marxismo classico, come l'antropologia sociale britannica o la storia economica estranea al mainstream (sulla quale si veda il contributo di Giovanni Favero).

Successi internazionali
Spesso confusa, a torto, con una deriva localistica, la microstoria sostenne, parafrasando Geertz, di studiare nel locale, non il locale, concentrandosi sulle prospettive degli individui e, come ricorda Franco Ramella, sull'importanza dei loro legami sociali. L'insistenza sulla costruzione di contesti specifici, che quando è accompagnata da una grande capacità narrativa di costruzione del testo fa dei libri di microstoria una lettura affascinante, lascia tuttavia aperto il problema del rapporto fra «micro» e «macro», fra caso di studio e «storia generale», questione ripresa nel volume da Luciano Allegra e da Francesca Trivellato. L'orientamento accademico, fra Italia e Francia, dei capofila dell'approccio microanalitico e il successo internazionale delle loro proposte non ha portato a una istituzionalizzazione, né ha smorzato le diffidenze della storiografia tradizionale e di quel che resta della «sinistra storiografica»: ma le ricerche microstoriche, vecchie e nuove, restano un punto di riferimento ineludibile per tutti gli studiosi che non rinunciano a riflettere sulle proprie pratiche, a confrontarsi con le altre scienze sociali, a servirsi di modelli teorici.

"il manifesto", 27/7/2011

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