28.5.16

Il Gioco della Cuccagna (John Dickie)

I giochi da tavola divennero popolari nel XVII secolo. Nei territori dello Stato Pontificio, di cui Bologna era entrata a far parte nel 1506, la ragione di questo successo era dovuta anche al fatto che i dadi e i giochi di carte erano diventati una fonte di introiti fiscali ed erano sottoposti a censura da parte della legge. Un decreto emesso a Roma nel 1588 dichiarava: «Vedendosi per antica esperienza quanto sia pernicioso il gioco, dal quale nascono per lo più la perdita delle facultà private et la rovina delle famiglie intiere». La legge escludeva esplicitamente dai suoi provvedimenti i giochi da tavola.
Alcuni di questi passatempi inventati per sostituire le carte e i dadi consistevano in percorsi disseminati di trabocchetti, un po’ come il gioco dell’oca, mentre altri prevedevano penalità e ricompense in base al risultato dei dadi: i giocatori dovevano seguire le istruzioni riportate sulla casella del tabellone corrispondente al numero uscito con i dadi. Alcuni numeri consentivano di guadagnare soldi, altri li facevano perdere; alcuni numeri imponevano imbarazzanti penitenze, come fare la pernacchia a tutti quelli presenti nella stanza, altri autorizzavano chi vi capitava a imporre penitenze agli altri giocatori.
Giuseppe Maria Mitelli fu il più grande disegnatore di giochi da tavola della Bologna del Seicento. Era nato nella città felsinea nel 1634, secondo figlio di un pittore di successo. Con sua grande frustrazione, i suoi sforzi in campo artistico non incontrarono lo stesso successo conosciuto dal padre, e in mancanza di meglio si dedicò all’incisione, arte minore e più a buon mercato, raggiungendo in questo settore una certa notorietà. Le stampe si rivolgevano a un pubblico più ampio di quello dei dipinti a olio e degli affreschi: anche gli ignoranti potevano apprezzarle. Mitelli realizzava stampe satiriche, ma senza mai discostarsi dai canoni della moralità ufficiale (il fratello, d’altronde, era un gesuita).

Realizzò trentatré giochi da tavola, tra cui, nel 1691, il Gioco della Cucagna. Le caselle illustrate corrispondono ognuna a una specialità delle diverse città italiane: tira un quindici e avrai pane di Padova; tira un undici e avrai la gatafura genovese (la torta di formaggio già menzionata da Scappi); tira un nove e avrai i cantuchij pisani (i cantucci che oggi ritroviamo come dessert nel menù tipico toscano proposto dal ristorante La Vecchia Macina, quello del «Mulino Bianco»); tira un diciassette e vincerai un altro prodotto tipico in circolazione ancora oggi, il «turone» di Cremona (questo però sei autorizzato solo a succhiarlo). I premi più squisiti sono destinati a quei giocatori che riescono a tirare lo stesso numero con tre dadi: con un triplo due, vinci la busecha (trippa) milanese, con un triplo quattro ti porti a casa le provature romane, e il premio più grande di tutti, non c’è bisogno di dirlo, lo conquisti tirando un triplo sei, la raffa maggiore. Nella casella centrale del tabellone è raffigurato un uomo in piedi fra due salsiccioni appesi, grandi quanto la sua testa: «W le mortadelle di Bologna», recita la didascalia della casella, «tira tutti» (hai vinto tutto).
Il Gioco della Cucagna affondava le sue radici nel patriottismo cittadino bolognese e nella diffusa concezione dell’Italia come terra di specialità gastronomiche locali, ma esibiva lo stesso moralismo allegro di altre incisioni del Mitelli. «Il Gioco della Cucagna, che mai si perde e sempre si guadagna», recitava il titolo per esteso riportato sul tabellone: ma Mitelli doveva essere ben consapevole che solo in un gioco o in una festa cittadina la terra dell’abbondanza dell’Italia urbana, la sua Cuccagna di piatti tipici, poteva essere accessibile senza sforzo a chiunque.


Da Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, 2009 (I ed. inglese 2007)

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