16.5.16

Grandi eventi. Il mercato della paura (Gabriella Colarusso, Domenico Lusi)

L’escalation di attentati ha costretto i governi ad aumentare le spese per la sicurezza.
A guadagnarci sono le multinazionali del settore,
ma anche una miriade di medie imprese high tech.
Che puntano soprattutto sui maxi eventi. 
Come i prossimi Europei.
Il 17 marzo gli abitanti di Nimes, tranquilla cittadina nel sud della Francia, si sono visti piombare nelle strade un esercito di poliziotti, militari, vigili del fuoco, corpi speciali con addosso tute anti-batteriologiche e tutto il necessario per far fronte a un attacco chimico. Era la prima di una serie di esercitazioni antiterrorismo che il governo francese ha pianificato in vista dei prossimi Europei di calcio, obiettivo di possibili attentati jihadisti, come rivelato da Mohamed Abrini. Euro2016 sarà il primo grande evento continentale dopo le stragi di Parigi e Bruxelles, che hanno spinto gli Stati europei ad aumentare le spese per la sicurezza, e le aziende del settore ad affilare le armi per far fronte alle mutate esigenze del mercato. Accaparrandosi lauti profitti.
A giugno, a Parigi, arriveranno oltre 7 milioni di spettatori, a cui bisognerà garantire protezione dentro e fuori dagli stadi che ospiteranno le partite e nelle cosiddette fan zone distribuite in dieci città della Francia. Uefa ed Eliseo si spartiscono oneri e responsabilità. «Il budget di nostra competenza per la sicurezza privata è già stato incrementato fino a 34 milioni di euro», spiega a “pagina99” la Uefa, che sorveglierà i siti ufficiali: gli stadi, i luoghi dove soggiorneranno e si alleneranno le 24 squadre coinvolte, il media broadcasting center. «Abbiamo ingaggiato circa 10 mila agenti privati, ognuna delle 51 partite in calendario sarà vigilata da 900 uomini», precisa l’organizzazione. Il resto è nelle mani del governo francese che, dopo le stragi del 13 novembre, ha decretato lo stato di emergenza, stanziando per il 2016 815 milioni di euro in più per la sicurezza, con l’ok della Commissione Ue. «Il patto per la sicurezza viene prima del patto di stabilità», ha dichiarato il presidente François Hollande.
Bfm Business calcola che dopo Charlie Hebdo, nel gennaio 2015, Parigi ha aumentato la spesa per la lotta al terrorismo da circa 1,2 a 1,8 miliardi di euro l’anno, e lo stesso è accaduto in molti altri Paesi europei.
Ma la tendenza a maggiori investimenti ha radici più lontane. Dall’11 settembre 2001 Olimpiadi, Mondiali, Esposizioni universali sono diventati obiettivi altamente sensibili: un aggravio per le casse pubbliche, un grosso business per l’industria globale della security. «Gli eventi di portata mondiale come le Olimpiadi sono un affare rischioso e spesso alla fine dell’arcobaleno c’è un pentolone pieno d’oro», spiega in un’intervista ad Al Jazeera America Stu Smith, esperto di sicurezza, che ha partecipato all’organizzazione dei Giochi invernali di Salt Lake City: «I prezzi che gli organizzatori sono costretti a pagare alle aziende per garantire la sicurezza sono quasi sempre gonfiati».
Per avere un’idea dell’incremento esponenziale dei costi, basta guardare a quanto è accaduto con i Giochi. «Dopo l’11 settembre», scrive in Olympic Risk (Palgrave Macmillan, 2012) Will Jennings, ricercatore associato al Centre for Analysis of Risk and Regulation della London School of Economics, «dai 180 milioni di dollari di Sidney 2000 si passa ai 400 milioni dei Giochi invernali di Salt Lake City (2002), per arrivare a 1,5 miliardi di Atene (2004) e ai circa 7 miliardi di Pechino 2008». Una spesa, quest’ultima, gonfiata dal gigantesco apparato di videosorveglianza voluto dal governo cinese e messo a punto dalla Tsinghua Tongfang Company: 430 mila videocamere tutt’ora in funzione. Anche le ultime Olimpiadi, quelle di Londra, non si sono sottratte al trend. Dopo gli attentati alla metropolitana del 7 luglio 2005 la spesa per la sicurezza dei Giochi, stimata in 282 milioni di sterline, è lievitata a 1,1 miliardi, in buona parte utilizzati per pagare gli oltre 40 mila uomini impiegati, il più grande dispiegamento di forze militari sul suolo inglese dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Numeri che impallidiscono se confrontati con le Olimpiadi di Rio de Janeiro in programma ad agosto. Il Brasile metterà in campo 85 mila addetti alla sicurezza. Il costo previsto per il solo personale è di 65 milioni di dollari, mentre la spesa complessiva per la sicurezza è stimata in 255 milioni, con ogni probabilità destinati ad aumentare. Per i mondiali del 2014 Brasilia aveva sborsato circa 900 milioni, usati per acquistare, tra le altre cose, 30 PackBot, bracci meccanici hi-tech prodotti dall’americana iRobot in grado di disinnescare materiale esplosivo; droni Hermes 450 e Hermes 900 forniti dall’israeliana Elbit; metal detector e scanner a raggi x della cinese Nuchtech; sistemi di riconoscimento facciale integrati in speciali occhiali in grado di catturare 400 immagini al secondo da inviare a un cervellone capace di memorizzare 13 milioni di volti. Perché cambiano i budget, ma cambiano anche le modalità di gestione del rischio e le tecnologie necessarie a ridurlo.
Il business della sicurezza oggi non ruota più intorno alle classiche tre G – guns, guards and gates (armi, guardie e vigilanza ai varchi, ndr) – «ma è legato a una varietà di strumenti e a una sempre maggiore integrazione con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione», sostiene Dave Tyson, presidente di Asis International, la principale associazione internazionale di addetti alla sicurezza ed ex capo della security ai Giochi invernali di Vancouver (2010). «Dall’11 settembre in poi il mercato è cambiato», conferma a “pagina99” Manuel Di Casoli, ex carabiniere prestato al mondo della security, prima per grandi imprese multinazionali poi per l’Expo milanese, di cui è stato responsabile della Sicurezza. «Molte tecnologie prima riservate solo al settore militare sono state rilasciate in ambito civile».
Oggi è possibile reperire facilmente dispositivi sofisticati come il sistema di analisi muscolare VibraImage, prodotto dalla russa Elsys Corporation e impiegato per la prima volta ai Giochi invernali di Sochi del 2014. Un mercato diffuso nel quale accanto a una manciata di multinazionali, tra cui General Electric, Ibm, Finmeccanica, Honeywell, Cisco, Hp, Siemens, Panasonic, LG, operano numerose piccole aziende. I grandi gruppi globali non sono in grado di fornire tutto il necessario, e ogni volta gli organizzatori devono rivolgersi a una pluralità di interlocutori. «Ci sono una miriade di imprese che realizzano tecnologie avanzate e specifiche, la maggior parte americane, israeliane, inglesi», dice Di Casoli. Secondo Carol Evans, responsabile dei programmi di ricerca della fondazione no profit Battelle, più che dalle competenze, l’aggiudicazione degli appalti dipende però dal Paese organizzatore. Nelle nazioni tecnologicamente più avanzate, ha spiegato l’esperto ad Al Jazeera, si tende a favorire soprattutto i player nazionali. È stato così ad esempio per il Giappone e il Regno Unito. Dove invece manca ancora il know how, a essere favoriti sono i colossi stranieri. Gran parte dei miliardi di dollari usati per le Olimpiadi di Pechino sono andati per esempio a multinazionali americane e giapponesi, mentre una fetta consistente dei 51 miliardi spesi a Sochi se la sono aggiudicata, oltre che aziende russe, società israeliane e austriache.
Per l’Italia, l’ultimo banco di prova è stato l’Expo. L’evento ha impiegato 160 mila lavoratori a cui veniva concesso l’accredito solo dopo un’accurata procedura di background check, e ha ospitato in sei mesi oltre 20 milioni di visitatori. «Dopo gli attentati di Charlie Hebdo abbiamo dovuto ripianificare tutto», racconta Di Casoli. I controlli su uomini e mezzi venivano effettuati a cerchi concentrici: dalle frontiere di Shengen fino agli accessi al sito espositivo. «Abbiamo scannerizzato più di 43 mila automezzi grazie a delle macchine in grado di fare uno scanning radiogeno del veicolo e distinguere le masse metalliche da quelle organiche», spiega il manager. Si tratta di dispositivi che possono penetrare fino a 40 centimetri di acciaio e individuare armi e ordigni. Le società produttrici di questo genere di apparecchi, solitamente usati alle dogane e ai valichi di frontiera, sono poche: le americane Rapiscan, Vacis, L-3, Ase (American Science Engineering), Leidos, l’inglese Smiths Detection.
Alla Fiera c’erano poi 108 varchi costruiti sul modello di quelli aeroportuali – l’equivalente degli scali romani e milanesi – dotati di metal detector, macchine radiogene per l’ispezione dei bagagli a mano e per il controllo di densità dei liquidi. L’intera superficie era sorvegliata con telecamere e videocamere termiche, che consentono di individuare la presenza di masse umane non visibili a occhio nudo. I controlli di tipo biometrico invece sono stati effettuati solo sul personale che aveva accesso a specifiche aree come quelle in cui erano state installate le centrali elettriche. Il tutto coordinato da due centri di comando situati in via Drago. «Le comunicazioni sensibili e riservate da e per la centrale transitavano su una linea protetta», rivela Di Casoli. Il centro di comando e controllo è stato gestito con la piattaforma tecnologica City-OS di Finmeccanica che, attraverso modelli di simulazione, riesce a prevedere e gestire le situazioni di crisi selezionando in tempo reale le informazioni raccolte da varie fonti (sensori, satelliti, reti etc). Un progetto che ha portato nelle casse del gruppo 28,3 milioni di euro.
Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza MarketsandMarkets, nel 2015 il mercato mondiale della sicurezza fisica (il complesso di misure necessarie a impedire a eventuali aggressori l’accesso a luoghi e informazioni sensibili, ndr) ha raggiunto i 64,5 miliardi di dollari e crescerà al ritmo del 14% l’anno fino a raggiungere i 105,2 miliardi nel 2020. «Il solo fattore in grado di arrestare questa crescita è l’eventualità che i fornitori non riescano a stare dietro alla domanda crescente», scrivono gli analisti di Memoori Business Intelligence in un report analogo. Così anche le compagnie di venture capital hanno iniziato a investire nel settore. «Nella sicurezza stiamo assistendo a un flusso di capitali proveniente da società di private equity senza precedenti», rivela in un report di Security InfoWatch Merlin Guilbeau, direttore della Electronic Security Association, «un segnale che questa industria continuerà a espandersi». L’ultimo esempio risale allo scorso autunno: Nice Systems, società israeliana specializzata in software per la sicurezza che si è aggiudicata appalti per i Giochi di Sochi e per i mondiali in Brasile, è stata acquistata da Battery Ventures per circa 100 milioni di dollari. Il fatto che la scelta del fondo d’investimento sia caduta su una software house non è casuale. Dal punto di vista dell’efficacia, spiega Di Casoli, conta più il software che l’hardware: «La tecnologia è più o meno la stessa, cambiano invece gli algoritmi che sono capaci, oppure no, di effettuare determinate operazioni». Ma, avverte l’esperto, il fattore umano resta il più importante: «La sicurezza non si fa solo con le macchine. Abbiamo un’enorme quantità di informazioni e dati, ma non ancora la necessaria capacità di analisi. A fare la differenza è sempre l’uomo».

“pagina 99”, 16 aprile 2016

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