8.3.17

Rita Levi Montalcini. Uno sguardo aperto sul futuro (Mauro Palma)

L’impegno sociale e civile è stato una costante nella vita della neurologa premio Nobel, scomparsa il 30 dicembre. Un appassionato ricordo di chi l’ha incontrata e ha lavorato con lei alla Enciclopedia Treccani e durante la costituzione dell’Osservatorio Antigone sulle carceri.

Non le sarebbero del tutto piaciute le pur giuste e nobili parole che la ricordano e la rimpiangono in questi giorni. Considerava il lungo percorso della sua vita come pieno di soddisfazioni, ma anche come qualcosa che si sarebbe conclusa senza rimpianti. Non si pensava eccezionale, anche se non poteva sfuggirle l’attenzione positiva che tutti le rivolgevano quando prendeva la parolapubblica, quando andava inlaboratorio o semplicemente passava per la strada: in particolare, quando per visitare unapersonaamica, entravain un ambiente ospedaliero e trovava un mondo che si metteva in subbuglio per la sua presenza. Lei era schiva e non amava i modi cerimoniosi, ma aveva anche quel tanto di vanità che oltre a farle mantenere sempre una signorilità nel portamento, la portava a considerare eccezionale il suo percorso: dalla determinatezza nella scelta dell’ambito di studio, alla tenacia dei laboratori improvvisati, alla capacità di costruire gruppi coesi e cooperativi d’indagine scientificaovunque avesse lavorato, fino ai riconoscimenti. Sia scientifici, sia civili e di alta visione umana.

Una fede laica
I commenti per la sua scomparsa si soffermano sugli aspetti altissimi del suo contributo scientifico e sul suo desiderio di vedere la ricerca come processo di cui non considerarsi mai padroni: taluni avviano un progetto, altri lo consolidano con apporti continui, altri ancorane impongono un salto in avanti attraverso intuizioniesco-perte, per poi affidare a una nuova generazione la possibilità di costruirne la catena degli effetti, molti anche imprevedibili. Un po’ come di un iceberg dicuisiè raggiuntalaparte emersa e si scopre viavia quanto non sia affiorato fuori delle acque. Di questo Rita Levi Montalcini era consapevole, quando con una luce brillante in quegli occhi che l’avevano traditanegli ultimi anni, raccontava gli sviluppi dell’impiego del Nerve Growth Factor in varie direzioni e soprattutto nel possibile rallentamento e forse cura futura della malattia di Alzheimer. Una malattia di cui vedeva la connessa sofferenza relazionale anche in persone a lei vicine e amiche, intravedendo le possibilità offerte da quella sua scoperta che l’aveva portata all’onore del Nobel. Era infatti proprio il possibile impiego sociale del suo impegno scientifico a essere per lei il motore nel proseguire e anche il significato da lei attribuito ai riconoscimenti che con continuità riceveva. Perché la dimensione scientifica è stata per lei sempre congiunta ad altre due dimensioni: quella della necessità della promozione della conoscenza e quella dell’impegno sociale.
Tre aspetti, il rigore scientifico, la conoscenza diffusa, l’impegno per le realtà svantaggiate che per lei hanno sempre camminato di pari passo. E se i risultati del primo sono a tutti noti e visibili, poco forse ci si è soffermati in questi giorni di ricordo sugli altri due aspetti che pure per lei erano essenziali e di pari dignità. Di questi ho avuto personalmente esperienza diretta, in un rapporto di amicizia sviluppatosi negli anni.
L’attenzione all’istruzione e allaco-struzione di conoscenza diffusa nel paese è all’origine del nostro incontro, quando lei, nominata Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani aveva avviato un’operazione di rinnovamento di quella realtà, modificandone alcuni assetti, dando responsabilità a persone più giovani e capaci d’introdurre elementi innovativi e guardando con attenzione al compito dell’Istitutonelprocesso di crescita culturale nelpaese. Da qui, la volontà di avviare un protocollo d’intesa con il Ministero della pubblica istruzione, alloraretto da Luigi Berlinguer, per una serie di servizi da offrire alle scuole, in primo luogo una rivista di aggiornamento per i docenti e di accompagnamento nel loro lavoro, che lei teneva a qualificare come uno dei più importanti in assoluto per la crescita del paese. Mi chiamò a dirigere la rivista, su proposta del nuovo direttore editoriale da lei nominato, Massimo Bray, e si avviò il lavoro di un settore rivolto alla scuola, rinverdendo attenzioni che in passato l’Istituto aveva avute e che si erano andate affievolendo: un settore che opera ancora oggi. Con curiosità e precisione seguì i passidiquelpercorso, mentre parallelamente avviò un’altra impresa, volta a utilizzare il patrimonio di conoscenze di cui la Treccani era ed è depositaria, verso i più giovani, cioè i ragazzi delle scuole medie. Ne nacque una Enciclopedia dei ragazzi, curata nella realizzazione da un altro amico a lei caro nonché esperto di scienza, trasmissione dei suoi contenuti e scuola: Andrea Turchi.
Questo il primo ambito d’impegno che dava una connotazione specifica al suo percorso di scienziata: il non chiudersi in quel laboratorio in cui pur trascorreva tanto tempo della sua vita, ma porsi il problema di come la scienza e la cultura divenissero nel concreto il sale di una complessiva emancipazione. Un impegno che aveva una naturale consonanza con l’attenzione che lei rivolgeva ai giovani nella sua attività scientifica, facendoli essere compartecipi di un processo e non meri assistenti di una grande scienziata.

L'incontro con Antigone
L’incontro di allora fu da subito produttivo di un altro ambito di lavoro comune a cui lei ha dedicato molto tempo ed energie: il carcere. Era parte di un afflato civile e sociale che era stato da sempre una sua caratteristica e che verso la seconda metà degli anni Novanta si intensificò per poi divenire ancora più esplicito quando lei ebbe un ruolo istituzionale con la nomina a senatrice a vita. Nel 1996, nelle speranze di cambiamento che accompagnarono il cambio di passo del Parlamento e l’avvio del governo Prodi, entrò in contatto stretto con l’associazione Antigone che io e altri avevamo fondato un po’ di anni prima. Il carcere e le sue condizioni erano già allora fuori dal solco definito dalla Costituzione, seppure con numeri e problemi inferiori agli attuali, soprattutto per un trend che ne andava mutando la fisionomia rendendo la pena una realtà senza progetto destinata soltanto a recludere persone prive si supporto sociale, sulla base di norme che avevano imboccato la linea strettamente punitiva del possesso e del consumo di sostanze stupefacenti e che avevano introdotto la privazione della libertà degli stranieri irregolarmente presenti nel nostro paese. Il carcere diventava progressivamente l’affollato teriitoiio del «non visto» della nostra società, là rinchiuso senza un credibile progetto di ritorno positivo.
Rita Levi Montalcini volle che la Treccani, luogo rappresentativo dell’alta cultura, diventasse il luogo di un affollatissimo convegno sulla pena, sul carcere e sulle riforme possibili. Era il 1996 e quel convegno, dall’emblematico titolo «Il vaso di Pandora», fu un cantiere di progettazione con una serie di interventi, poi ripresi in un omonimo volume che l’Istituto pubblicò. Il gruppo delle persone chiamate allora a discutere fu notevole, perché oltre a lei e all’allora ministro Flick, l’introduzione fu fatta da un saggio del Cardinale Martini che per la prima volta introdusse per la pena detentiva quella locuzione extrema ratio, poi ripresa e abusata negli anni anche da coloro che tutto facevano meno che ridurre il ricorso a essa.
Colpisce rileggere i nomi di quanti intervennero, da giuristi (Ferrajoli, Baratta, Moccia, Pavarini, Resta, Melossi, Mosconi, Margara, Anastasia, solo per citarne alcuni) a esponenti politici, alcuni allora forse meno in evidenza di oggi (Bersani, Finocchiaro, Mannuzzu, Corleone), a rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria e delle associazioni. Le conclusioni, come linee programmatiche da porre al Parlamento che apriva la nuova legislatura, vennero affidate a due relazioni, una di Giuliano Pisapia e una mia.

La visita in carcere
Nel suo intervento lei scrisse allora: «La collettività spesso invoca il carcere, le cui mura chiuse e la cui distanza sembrano l’unica soluzione capace di attenuare il sentimento d’insicurezza che la domina, per l’illusione che esso suscita: dare la possibilità di rinchiudere il male e di non dargli più voce. Ma, proprio chi è fuori dal carcere deve considerare chi vi è rinchiuso come parte della società, deve con il carcere e con l’umanità dolente che lo abita instaurare un dialogo. Non si può rimuoverli da sé, bisogna farsene carico, studiare come andare avanti per superare le attuali difficoltà». E più avanti. «Pare oggi che il carcere sia luogo di sofferenza e di violenza più che di recupero, e che sempre meno si faccia ricorso a forme di pena alternative alla detenzione».
Parole ancora più attuali oggi; ma, sappiamo che la legislatura deluse quelle attese. Lei, nel frattempo nominata senatrice a vita, scese allora nell’impegno diretto, visitando alcuni istituti penitenziari, soprattutto quelli femminili, e favorendo l’avvio di un Osservatorio delle condizioni di detenzione all’interno di Antigone.
Due ricordi in proposito danno il senso dell’infaticabilità di un impegno di una persona ormai novantenne e oltre. Il primo, la sua iniziale visita a Rebibbia femminile, quando venne bloccata - lei che era ben riconoscibile - da un’ottusità burocratica che non voleva permetterle l’ingresso perché priva della carta d’identità. Lei ringraziò, disse che era giusto applicare le regole, che sarebbe tornata, ma non per una breve visita bensì per trascorrere parte del suo tempo in quel luogo così difficilmente accessibile: la direzione corse ai ripari e le concesse di entrare. Il secondo, il suo peregrinare per presentare l'Osservatorio di Antigone in varie sedi culturali, in modo da rafforzarlo affinché non potesse essere rimosso in futuro, passata l'iniziale positiva accoglienza. E oggi, l'Osser-vatorio di Antigone, grazie anche alla collaborazione che negli anni si è costruita con l'Amministrazione penitenziaria, è una realtà viva e operante.

La fiducia nello Stato
Ilsuo rapporto con questi temi - come con quello che l'ha vista sempre impegnata per le donne africane e la loro possibilità di accesso agli studi, attraverso le innumerevoli borse di studio date dalla Fondazione che porta il suo nome - ha sempre avuto una connotazione personale umanitaria, ma non si è mai limitato a questa perché sempre fondato su un grande impegno civico e non su un approccio meramente assistenziale. Profondamente laica, di cultura sociale e politica definibile come liberale, è sempre stata contraria alle forme del liberismo che si andavano espandendo anche in Italia, riconoscendo alla centralità dello stato, la funzione di regolazione e di superamento di localismi ediun individualismo basato sul possesso. Soprattutto riteneva che i temi sociali necessitassero di maggiore analisi continua e di migliore conoscenza dei processi della loro trasformazione. Per questo mi convocava spesso per essere informata; mi chiedeva come le questioni relative alla privazione della libertà mutassero e con quale segno, non solo in Italia, ma in Europa e altrove.
Dopo il mio incarico nel Comitato europeo per la prevenzione della tortura, queste informative divennero per lei anche più pressanti: voleva che le narrassi gli esiti delle ispezioni in parti d'Europa meno sotto i riflettori, nei luoghi dove recenti erano stati i conflitti e nei paesi che soltanto da poco tempo si erano affacciati alla democrazia. Sul divano del suo salotto si snocciolavano questioni relative al post-conflitto nei Balcani e nella regione del Caucaso, dati i miei frequenti viaggi d'ispezione nel drammatico contesto della Cecenia.
Era questa sua curiosità intellettuale e questo suo continuo aggiornarsi che le permettevano di avere molta più competenza di altri negli interventi nella Commissione giustizia del Senato, a cui venne assegnata, e di considerare con indignazione, ma anche con levità gli attacchi circa la necessità per lei di «stampelle fisiche e giuridiche» che la volgarità di qualche politicante di destra le indirizzò. Al contrario disse che tali attacchi erano stati un'ottima occasione per vedere quanto ricco fosse il panorama civile attorno, anche se spesso non visibile, data l'ondata d'indignazione che aveva accompagnato quelle parole e che le si era manifestata con un numero inimmaginabile di messaggi.

I limiti del presente
I processi di cambiamento del resto -ripeteva - sono lenti e tuttavia spesso avvengono a balzi: spetta a noi fare in modo di provocare e di cogliere i balzi in avanti nella società; non lasciarli andare senza riconoscerli. Era una sorta di darwinismo sociale che guidava il suo occhio in avanti, nonostante i limiti del presente che per lei erano dati da indicatori quasi matematici: restava sconcertata nel constatare, per esempio, che all'Istituto di fisica della prima università di Roma ci fosse soltanto una donna docente ordinario. L'ammirazione per lei, Valeria Ferrari, in pranzi comuni di discussione, informazione e amicizia, si tramutava nella constatazione di quanto ancora c'era da fare per promuovere il riconoscimento del valore del lavoro delle donne e per costruire una società di uguali. La conclusione non era mai depressiva, ma sempre d'individuazione di cosa c'era da fare, in parte per noi, in larga parte per le generazioni future su cui lei ha visto fino alla fine il bello e la speranza di un processo che non può che evolvere.
Si tornava così a quel senso di positiva umiltà di una donna che pure all'esterno veniva vista come figura carismatica. Si tornava a mangiare gli gnocchetti di semolino che immancabilmente erano sul tavolo.

“il manifesto”, 2 gennaio 2013

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