Artemisia Gentileschi, Autoritratto in vesti di pittura |
«Mi ritrovo una figliola femina con
altri tre maschi e questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola
drizzata nella professione di pittura, in tre anni si è talmente
appraticata, che posso ardir di dire che hoggi non ci sia pare a lei,
havendo per sin adesso fatto opere, che forse principali maestri di
questa professione non arrivano al suo sapere...». Chi parla così,
nella Roma dei Papi e della Corte pontificia nel 1612, è Orazio
Gentileschi, seguace non tra i minori del Caravaggio e autore, con
Agostino Tassi, degli splendidi affreschi ordinati dal cardinale
Scipione Borghese per il Casino delle Muse, nel palazzo Rospigliosi —
Pallavicini.
Orazio descrive con pochi tratti sua
figlia Artemisia Gentileschi (che aveva a quel tempo compiuto
diciotto anni), «l’unica donna in Italia», secondo Roberto Longhi
— che, riscoprendo Caravaggio e la sua scuola, se ne era occupato
fin dal 1916 —-, «che abbia mai saputo cosa sia la pittura». Il
nome della pittrice è stato legato a lungo a un quadro, Giuditta
e Oloferne, in cui i valori formali e pittorici si mescolano in
maniera assai stretta a quelli simbolici derivanti dall’episodio
della giovinetta ebrea che uccide il generale assiro, compiendo la
vendetta del suo popolo oppresso e nello stesso tempo riscattando la
violenza subita.
Ma ora la pubblicazione, a cura di Eva
Menzio e con interventi di Roland Barthes e di Anne Marie Boetti,
degli Atti di un processo per stupro (Edizioni delle donne),
consente di ricostruire con assai maggior precisione le vicende e la
personalità umana di un’artista divenuta negli ultimi anni,
soprattutto in Italia, una sorta di punto fermo nel complicato
dibattito che riguarda le attitudini della donna alla produzione
artistica, all’ interno di un universo costruito a misura
dell’uomo.
L’episodio narrato dal libro, o
meglio documentato attraverso una scelta degli atti processuali (cui
si aggiungono lettere scambiate dalla pittrice durante i suoi viaggi
e la sua attività a Napoli, Londra, Firenze, Genova) appare centrale
nell’esistenza di Artemisia. Proprio nel 1612, Orazio Gentileschi
accusa Agostino Tassi, amico e compagno di lavoro, di aver usato
violenza alla figlia Artemisia e lo trascina davanti al Tribunale di
Roma dove per sei mesi (dal marzo all’ottobre) si svolge un
clamoroso processo davanti a testimoni che mentono, con uso di
torture nei confronti sia di Artemisia sia di Agostino, fino a che il
pittore viene ritenuto colpevole di stupro.
Ma il processo mette a nudo
contraddizioni e ambiguità che rivelano un intrico complesso e
ancora oggi difficile da decifrare. Artemisia accusa implacabilmente
Agostino e regge anche al tormento delle cordicelle di seta
inflittole perché dica la verità, ma ammette di aver continuato a
frequentare e ad amare il giovane pittore (che era stato, per
desiderio del padre, il suo maestro di prospettiva) e si lamenta
piuttosto di non essere stata sposata dal Tassi, che pure glielo
aveva promesso. Agostino, da parte sua, nega la violenza ma in modo
non molto convincente, insistendo piuttosto sul fatto che Artemisia
era donna «di malaffare» perché aveva già avuto molti amanti.
Infine, Orazio Gentileschi si comporta in maniera a dir poco
contraddittoria: aspetta un anno prima di denunciare Tassi con una
supplica al papa Paolo V, parla senza nesso apparente del furto di un
quadro che potrebbe essere stato compiuto dal compagno di lavoro e —
quel che è ancora più strano — dopo il processo riprende a
frequentare Agostino, una volta uscito di prigione, come se nulla
fosse accaduto.
Un succedersi così incredibile di
azioni e di comportamenti autorizza i biografi dell’uno e
dell’altro personaggio (anche Agostino Tassi, pittore «maledetto»
di stupendi paesaggi, è stato di recente riscoperto e studiato con
attenzione da Teresa Pugliatti in un libro intitolato A.T. tra
conformismo e libertà) ad avanzare ipotesi divergenti sia
rispetto al reale andamento dei fatti, sia riguardo all’analisi di
una pittura come quella della Gentileschi, intrisa in ogni punto di
una sensibilità fortemente auto-biografica.
Se il discorso dovesse riguardare
soltanto il capolavoro su Giuditta e Oloferne e il suo significato,
si potrebbe ricordare il penetrante commento di Longhi a proposito
della cifra che caratterizza l’uccisione sacrale del generale
nemico: «qui non v’è nulla di sadico, anzi ciò che sorprende è
l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è
persino riuscita a riscontrare che il sangue, sprizzando con
violenza, può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo
centrale! Incredibile, vi dico! Eppoi date per carità alla signora
Schiattesi - questo è il nome coniugale di Artemisia - il tempo di
scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna!
Infine, non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di
scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo
novissimo di seta gialla!».
Non c’è dubbio sul fatto che
l’analisi di Longhi colga un elemento importante del capolavoro di
Artemisia e forse, più in generale, del suo modo di rappresentare
attraverso i colori. Ma l’allargamento dello studio a tutta la sua
produzione, a quadri ora apprezzati come Ester davanti ad Assuero
o l’Autoritratto in veste di pittura, come la riflessione
sul significato di quel processo del 1612 con i rapporti ambigui e
complicati di Artemisia con Agostino e con il padre Orazio, inducono
a una visione più problematica del suo itinerario complessivo di
pittrice e di donna.
Le notizie che, dopo l’avventura
romana del 1611-12, abbiamo di lei, malgrado le nuove ricerche e i
documenti pubblicati, sono abbastanza scarne: amata e stimata come
artista di talento, girò per l’Italia al servizio di principi e di
Corti che apprezzavano in lei non certo l’originalità dei soggetti
prescelti o delle storie narrate (sempre di argomento biblico,
nell’Italia della Controriforma) ma la ricchezza e l’intensità
dei sentimenti femminili (dalla dolcezza allo spirito di rivolta, al
languore e alla sensualità) che emergono nei suoi quadri e nei suoi
ritratti. Fu questo un modo, per Artemisia, di esprimere nelle tele
un mondo di desideri e di bisogni che nella sua vita erano
conculcati? Da un confronto tra i quadri e la sua esistenza si può
ricavare una trama nuova ed eccezionale della sua vicenda e dei suoi
tempi?
Sono interrogativi a cui né le curatrici del volume, né chi scrive sono in grado, almeno per ora, di rispondere.
Sono interrogativi a cui né le curatrici del volume, né chi scrive sono in grado, almeno per ora, di rispondere.
"la Repubblica", ritaglio senza data, probabilmente 1977.
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