Una volta Matisse, in una
intervista, disse che i giovani che avessero voluto prendere la via
dell’arte avrebbero dovuto farsi tagliare la lingua.
Spesso mi sono pentito di
non aver seguito questo saggio consiglio. Ma saggio io non sono, né
so distinguere il vino della passione da quello della quiete.
Inoltre i tempi non sono
più quelli di calme, luxe et volupté. Né è mai stato vero
che ai pittori tocchi solo dipingere e agli altri di parlare.
Perché non dovremmo
parlare noi di pittura se, ragionevolmente, siamo quelli che più
sono dentro al cuore della questione? Non siamo forse quelli che,
maneggiando questa materia continuamente, se ne intendono di più?
Il critico è lo
specialista, il pittore è l’uomo-attore, a cui non è dato di
separare da se stesso alcunché di ciò di cui è fatto. A me, per
esempio, non riesce di separare la «ragione poetica» da ciò che
Vittorini chiamava la «ragione civile». Il grembiule che indosso
per non sporcarmi quando lavoro, non mi nasconde a me stesso, non è
un diaframma, una separazione da aggiungere alle «separatezze » a
cui l’uomo d’oggi è sottoposto. La mia pittura è solo il mio
specifico, ma non può vivere di specificità, divorare se stessa;
essa de ve divorare me, per avere giusto nutrimento. La pittura non è
un concetto, né una idea, né una religione, neppure una stanza
immunizzata da ogni umano batterio, una cella dove non entrano rumori
di mondo, sangue, amici, amore, rissa...
Il materiale qui raccolto
è pescato, senza scrupoli antologici, da pacchi di appunti, che
testimoniano delle mie reazioni su alcune delle cose in cui mi è
accaduto di imbattermi.
Non so che cosa si potrà
estrarre da queste note, alcune delle quali rimontano a più di
trent’anni fa (e mostrano il loro volto infantile). Non certo una
teoria, né una precettistica, neppure una immagine di maniera, cosa
che non mi piacerebbe, tra l’altro, si deducesse neppure da ciò
che ho dipinto.
Io non ho teorie, forse
dei principi (ma non dentro la pittura) che caso mai si riflettono
nella pittura perché fanno parte della mia vita. Penso piuttosto che
ci sia dentro di me un congegno di spinta e freno, che entra in
azione per impedirmi di andare verso strade che mi apparirebbero
convincenti e nelle quali mi avventurerei, a volte, volentieri. Al
contrario tale congegno può spingermi in zone dove non so orientarmi
e mi induce a conclusioni imprevedibili. Credo si tratti di un
congegno di subconscia ostinazione, che mi riporta, in definitiva, a
misurarmi con alcuni nodi fissi che si ripresentano senza che io li
abbia cercati. Ma se le cose stanno cosi vuol dire che in fondo io li
cerco, questi nodi; e li cerco perché non li ho ancora sciolti.
Leonardo Sciascia ha
creato per me una formula che riassume un po’ la mia condizione:
«roso dalla certezza» (in contrapposizione a se stesso, «roso dal
dubbio»). Ma che razza di certezza potrebbe essere quella che mi
rode, se non fossi roso dal dubbio? Ciò coincide, mi pare, con il
congegno di subconscia ostinazione di cui dicevo.
Mi illudo che,
comportandomi come altrimenti non potrei, ciò che io chiamo arte o
più propriamente pittura, sia solo in apparenza una finzione, ma in
realtà una cosa concreta, che non nasce da me, ma è
nell’oggettività del mondo. Si tratta solo di liberarla da ciò
che la ricopre (o di metterci sopra la mano perché può darsi
benissimo che non sia coperta da nulla).
Ripeto, qui, in modo
assai più prolisso e oscuro un pensiero di Michelangelo secondo cui
l’artista («ottimo», nel suo caso) non ha «alcun concetto» che
il marmo già in sé non racchiuda.
Evidentemente ostinazione
e certezza non sono misteri della psiche o fatalità, ma elementi
razionali utili a rendere plausibili, se non a risolvere, le tante
contraddizioni della pratica. Ma Brecht dice che «nelle
contraddizioni risiedono le nostre speranze». Così è infatti, dato
che senza contraddizioni non si dà movimento.
Ho già detto che non
concepisco distinzione tra «ragione poetica» e «ragione civile»,
e che credo nell’oggettività del mondo (o del reale, senza
occuparmi della distinzione tra i due termini) e che perciò io,
soggetto, riesco a vedermi solo se mi rendo conto di essere un
oggetto. Inoltre credo al legame tra presente e memoria: la «memoria»
è il nostro vero spazio, ma non per me sotto il segno del sogno
all’indietro o come nostalgia; piuttosto come strumento di
ricognizione del proprio presente. Credo cioè alla materialità
della memoria. Così come credo che «un’opera d’arte non è
eccelsa se non è nello stesso tempo un simbolo e l’esatta
espressione della realtà», come dice Maupassant a proposito della
Venere di Siracusa.
Queste sono forse teorie?
Neppure principi; solo «certezze» che mi rodono e contro cui vado
continuamente a sbattere, proprio perché le rimetto continuamente in
causa.
Naturalmente ho sempre
pensato e penso molto alla pittura. Penso anche al quadro che
dipingo, durante il lavoro, nelle pause, o per la strada, se c’è
qualcosa che non mi è chiara, una conclusione che non riesco ad
afferrare. Ma non mi è mai accaduto di risolvere un quadro «in
crisi» dopo averci pensato. Pensare alla pittura, o al lavoro in
corso, è solamente professionale. Ciò che veramente conta è
pensare sulle cose, pensare in genere, su ciò che si vede, che si
legge, su ciò che si ama e su ciò che si odia, su ciò che ci è
indifferente.
Si può però anche
pensare «secondo pittura». Tutti sanno, per esempio, che, parlando
di pittura, non solo i critici ma anche i pittori — ed io stesso —
usano citare pensatori e filosofi e che mai si fa ricorso per farsi
capire alla filosofia e al pensiero di altri artisti, del passato o
contemporanei. E intendo dire non delle cose pronunciate da questo o
quell’artista, ma della filosofia, del pensiero contenuto nella
loro pittura. Per esempio perché non si dice mai: «Come afferma
Caravaggio nella parte alta a destra delle Opere di Misericordia...»,
oppure « Come dice Van Gogh nel cielo del Caffè di Arles...»?
Forse questo tipo di citazioni potrebbero essere assai utili, più
vicine come argomenti, e tangibili, quando si parla di pittura.
Ma non accade mai di
leggere citazioni siffatte. Il rapporto della pittura con la
filosofia non viene più tenuto nel dovuto conto. Al contrario «le
filosofie» (e, a livello più basso, le ideologie) si servono delle
operazioni artistiche, o intervengono a spostare il terreno d’azione
dell’artista, o di chi oggi si assume il ruolo di creare stati
emotivi, immagini o antimmagini.
Io lavoro un po’ come
un operaio o un impiegato. Voglio dire che ho press’a poco un
orario, comincio alle otto, smetto all’una, riprendo alle quattro
fino alle otto. E mi accade spesso, quasi sempre, di constatare che «
non ho niente da dire ».
Credo che non ci si mette
mai al lavoro pensando a quel che si vuole dire o perché si pensa
che si ha qualcosa da dire. È questa una condizione di libertà, non
preconcetta, che sebbene a volte mi sgomenti, in definitiva mi
consola, perché trasferisce tutto sul lavoro materiale, sulla
costruzione che si modifica nel suo stesso processo.
Con ciò non intendo dire
che il vuoto sia la condizione più favorevole perché nel vuoto si
può iscrivere tutto. Evidentemente non c’è il vuoto, ma piuttosto
la non coscienza di ciò che si è accumulato, condensato, dentro di
noi, in modo direi fisiologico. Purezza forse, che sembra o forse è
una quiete ebete. Se si pensa al carnet degli artisti, alla varietà,
al disordine, alla casualità degli appunti registrati, ci si può
rendere conto di quanto dico. Ma forse io mi riferisco agli artisti
come erano qualche tempo fa. Oggi i carnet contengono progetti, o,
nei casi migliori, ideogrammi di progetti.
Dalla prefazione a Il
mestiere di pittore, De Donato,
1972 in “Rinascita”, n.46, 24 novembre 1972
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