11.9.10

Luigi Pintor scrittore. 1. (Walter Cremonte - "micropolis" - giugno 2003)

Propongo, in due diversi post, due brevi saggi su Luigi Pintor scrittore, di Walter Cremonte e di Alberto Asor Rosa. Questo, di Cremonte, è stato pubblicato da "micropolis" nel giugno 2003. Quello di Asor Rosa lo si ritrove al seguente link: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/09/luigi-pintor-scrittore-2-alberto-asor.html .

Moralità e stile di uno scrittore comunista

Di Luigi Pintor, dopo la sua morte, è stato detto quasi tutto. Io vorrei soltanto aggiungere una cosa, che mi preme particolarmente: Luigi Pintor ha saputo parlare del dolore come solo chi lo ha conosciuto veramente è capace di fare. Anche in questo è stato maestro. Mi piace ricordare adesso un fatto, anche se è molto personale e so che, se si parla di un morto che ci è caro, si finisce per parlare sempre anche un po’ di sé. Qualche tempo fa ho pubblicato un libretto di poesie e, come epigrafi, ho utilizzato due citazioni, una di Pintor e l’altra di Leopardi. Quella di Pintor, tratta da Il nespolo, dice: “Ogni tanto il dolore si deposita nel fondo, poi riaffiora per uno stimolo occasionale ma prepotente, poi torna sul fondo. Va su e giù ma non si altera né quando viene in superficie né quando scende in profondità. E’ il caso di ripetere che il tempo non è un medico sapiente ma un puntiglioso aguzzino che non risana ma infetta”. L’altra, da Ultimo canto di Saffo, dice: “Arcano è tutto /fuor che il nostro dolor”. Quest’ultima l’avevo scelta perché Saffo è la poesia stessa e dice, attraverso Leopardi, che la poesia non conosce proprio nulla tranne il dolore (anzi il nostro dolore: quello che si è provato direttamente); e che se vuole parlare seriamente solo di questo deve parlare oppure, come Clint Eastwood nel film Un mondo perfetto, dire: “Io non so niente”. Ora penso che l’unico merito di quel mio libricino sia stata la scelta delle due epigrafi, e l’accostamento dei due Autori.

Pintor con le sue “operette” Servabo, La signora Kirchgessner, Il nespolo e I luoghi del delitto (edite da Bollati Boringhieri), è stato uno dei maggiori scrittori (non giornalisti) del Novecento Italiano e forse l’unico grande che, nello scrivere, cerca le basi di una nuova morale possibile non sulla base di astratte categorie filosofiche (il minaccioso “dover essere”) ma esclusivamente sul dato dell’esperienza e del materialissimo conflitto/convergenza tra il vissuto (e il pensato) e lo stile. Come le Operette morali di Leopardi i quattro libri di Pintor demoliscono con ironia per lo più dolente, ma anche acremente divertita, tutti i luoghi comuni, tutte le certezze e la falsa coscienza dell’epoca e ci restituiscono un’idea di come siamo privi di ogni alibi e di ogni consolazione; ma proprio come quelle ci persuadono dell’esigenza di rifondare, nel deserto in cui siamo (tra “ceneri e macerie”), questa moralità pratica intessuta di affetti, amicizia, solidarietà ... Guardiamo, ancora una volta, al leopardiano Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove la tesi/tentazione del suicidio è respinta non in nome di principi filosofici o teologici, ma proprio di un concretissimo bisogno di socialità e di apertura all’altro (“Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senz’altro pensiero di noi, metterci in abbandono”); e poi a questo lascito incredibilmente grande e bello (da Servabo): “Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi”. Servabo (1991) è l’educazione sentimentale sospesa tra mito e storia: dalla memoria favolosa dell’infanzia (nell’”isola dei mori”, nei “giardini dell’Eden”) alla consapevolezza adulta dei lutti e della guerra e delle scelte della maturità; la storia - cioè la realtà - è vissuta come offesa, come ferita irrimediabile all’innocenza e alla gioia. Di fronte a ciò anche la fine della guerra si connota negativamente: “quella normalità somigliava a una diserzione” ed è sentita come colpa, per la morte degli altri e la propria “incidentale”

sopravvivenza (non ricorda, questo, un altro grandissimo testimone, Primo Levi?). La signora Kirchgessner (1998) ripercorre in gran parte la stessa trama memoriale, ma a un livello più profondo; la chiave di questo approfondimento è data dall’inizio del libro, quando si distingue tra memoria mentale, memoria corporale e memoria sentimentale. Queste ultime due (che potremmo anche riunire in un’unica “memoria poetica”) danno ora piena verità a quanto conservato dalla memoria mentale di Servabo e determinano un flusso che si fissa per un momento in episodi-immagini sempre sull’orlo di dissolversi. La vicenda culmina nella perdita del figlio, nuovo inizio di tutto, capace di dare una luce nuova a tutto il resto. Da qui deriva un’elaborazione autopunitiva (ma Pintor non accetterebbe nessuno di questi termini) che lascia il lettore annichilito, senza fiato. Il tema del lutto per il figlio, toccato in La signora Kirchgessner esplicitamente solo in un capitoletto, diventa il motivo conduttore de Il nespolo (2001), dove il dolore lascia pagine definitive come quella che si ricordava all’inizio: alla morte del figlio segue poco dopo la morte della figlia, poiché “il male ha una fantasia illimitata” (anche se io direi, piuttosto, che è monotono e privo di fantasia).

La pena (anche nel senso di espiazione di una colpa) tocca vertici quasi insostenibili: “La condizione di un genitore che sopravvive è piena di vergogna”; “Si fanno odiosi i gesti quotidiani, diventa abusivo respirare e camminare”. Stilisticamente ne deriva un percorso narrativo divagante, quasi alla ricerca continua di una via d’uscita seguendo pensieri che sembrano quasi allontanarsi da quel pensiero: ma esso è sempre lì, sullo sfondo,anzi “sul fondo”. L’ultimo libro, I luoghi del delitto (2003) è appena uscito, postumo, e forse è presto per poterne parlare. Troviamo tuttavia una conferma sul carattere non speculativo ma tutto esperienziale della ricerca di Pintor: proprio all’inizio “Se fossi un filosofo (...) Ma sono un archivista”. E anche sul tono “umile” della sua morale non categorica (quella che lui chiama, scherzando con se stesso e con il lettore, la “morale della favola”) a cui è dedicata l’ultima, perfetta, intuizione: non c’è differenza tra un’oca inchiodata al pavimento per essere ingrassata e Gesù Cristo che muore sulla croce: sono degni della stessa pietà.

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