11.9.10

Luigi Pintor scrittore. 2. (Alberto Asor Rosa - "la rivista del manifesto" - giugno 2003)

Propongo, in due diversi post, due brevi saggi su Luigi Pintor scrittore, di Walter Cremonte e di Alberto Asor Rosa. Questo, di Asor Rosa, è stato pubblicato da "la rivista del manifesto" nel giugno 2003. Quello di Cremonte lo si ritrova al seguente link: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/09/luigi-pintor-scrittore-1-walter.html

Il politico e il suo doppio

Può sembrar strano che si parli di uno scrittore politico e uomo pubblico come Luigi Pintor, cominciando a ragionare del suo `stile'. Il fatto è che la `verità' di Luigi Pintor scrittore è lo stile, anzi, più propriamente, Luigi Pintor è lo stile. Parlo, s'intende, del Pintor scrittore inteso in senso stretto, quello per intenderci di libri come Servabo (1991), La signora Kirchgessner (1998) o il recentissimo I luoghi del delitto (maggio 2003). Certo, una relazione con lo stile del Pintor giornalista c'è, e non andrebbe sottovalutata in un'analisi più ampia, - quel Pintor giornalista, il quale pensa che in un articolo «c'è sempre una riga su tre di troppo» e che «due pagine…bastano a esaurire qualsiasi argomento» (Servabo, p.61). Ma ora io parlo del Pintor narratore e testimone del nostro tempo, di cui, libretto dopo libretto (libretto quanto alle dimensioni, s'intende, e questa è già un'approssimazione alle caratteristiche del quadro), ha dato un'interpretazione eccezionale per sintesi e forza espressiva.

Pintor racconta per piccoli capitoli, centrati da titoli perentori come uno sparo: L'isola, La città, La guerra, L'avamposto, Il dolore, Il borgo, Il soldatino, Il cerchio, Il demone… Ognuno di questi capitoli definisce sinteticamente una situazione, un ricordo, uno stadio dell'esistenza. La sintassi, a guardar bene, non è altrettanto asciutta ed essenziale dell'effetto finale. La frase può anche essere, - anzi, generalmente è, - ampia e complessa: «Eppure questo avamposto del deserto dei tartari, sorto in obbedienza al precetto del mio ignoto antenato, ha resistito quasi per miracolo a molte intemperie, non ha abbassato del tutto le insegne, non è stato ingloriosamente invaso dai rovi come altre fortezze che si dicevano inespugnabili» (Servabo, p. 79; sta parlando del «manifesto»). Ma ognuna di queste frasi è composta di segmenti svelti e scattanti, scanditi uno a uno come in un antico `cantare di gesta', per effetto di un'affabulazione che preferisce scolpire che descrivere.

Se si fa la prova concreta della segmentazione prosodica su di una frase qualsiasi di siffatto modo di raccontare, si proverà subito l'impressione del ritmo interiore, che percorre come un fremito, dall'inizio alla fine, ognuno di questi libri e tiene, per così dire, in agitazione il lettore, lo sollecita e lo disturba, e lo affascina:

«Era solo un giornale, ma per noi era molto di più, ed entrarci non era una scelta di mestiere, ma un arruolamento volontario.

Si diceva che il carcere avesse fatto per alcuni le veci dell'università formando combattenti di pasta speciale.

Un giornale era molto più comodo di un carcere, ma poteva avere la stessa funzione, esser vissuto anch'esso come un centro di addestramento, una comunità e una scuola, una frontiera dove lo stato d'emergenza è quotidiano per definizione» (Servabo, p. 59, La punteggiatura è quella originale; sempre a proposito del «manifesto»).

Con uno stile del genere, - questa è la mia tesi, - si possono dire solo alcune cose: quelle essenziali. Anche il campo delle cose `dette' da Pintor riserba molte sorprese. Letti o riletti di seguito l'uno dopo l'altro, i libri narrativi di Pintor dimostrano che, al dunque, la lunga esperienza politica e pubblicistica dell'autore si è come introiettata, anzi, letteralmente inabissata nei meandri della sua esistenza individuale, dove la gerarchia dei valori è diversa da quella da lui stesso (e dai molti come lui, o come noi) professata in pubblico per tanti anni: e il ricordo di un piccolo cane sotto il tavolo in una lontana estate sarda s'incontra e si integra senza soluzioni di continuità e senza contrapposizioni con il ricordo dei giorni passati in carcere a Roma nelle mani degli aguzzini fascisti.

Naturalmente, questo non significa che le `memorie' di Pintor raccontino di lui una storia diversa da quella dell'agitatore politico e del progressista avanzato, che tutti potrebbero comunque conoscere, scorrendo le cronache degli ultimi sessant'anni della storia di questo paese. Ma di quella storia i libri raccontano il rovescio, la parte interna ed oscura, il profondo del vissuto, - e quel naturale arrovesciamento degli eventi, che la memoria sempre produce, quando appena appena lavora a scalfire la superficie ben lucidata delle cose. Quindi, in primo, anzi primissimo piano, non la Politica e la Storia, ma la scomparsa, la perdita e l'assenza, le morti, le cadute, gli stravolgimenti e gli orrori incomprensibili dell'esistenza (per esempio: le guerre; oppure, ma più semplicemente, se si può dir così di un fatto tanto duro, quando i figli scompaiono prima dei padri). A partire dalla ri-contemplazione, ossessiva e infinita, dei due traumi originari irredimibili, la morte del fratello Giaime e la cancellazione per bombardamento dell'infantile casa cagliaritana, che segnano di una ferita non più rimarginata il difficile passaggio dall'adolescenza alla giovinezza, dalla guerra alla pace, dalla felice libertà individuale alla costrizione della milizia collettiva.

Visto sotto questo profilo, che si direbbe il più autentico, il `messaggio' del Pintor narratore è di uno sconfinato, desolato pessimismo. Chi scrive così, sa che non c'è scampo: non si può che restare al `quia', e questo, penso, è principalmente quel che Pintor ha voluto dirci. Di Giano, il vecchio dio bifronte, di cui assume le fattezze e le caratteristiche ne Il nespolo (2001), l'autore scrive sconsolatamente che «molti dei suoi anni li ha vissuti chiuso in una stanza a scrivere nei giornali contro qualcosa o qualcuno» (p. 12); d'altra parte, «l'esperienza non si trasmette» (ivi, p. 31), e dunque ogni generazione e ogni individuo ripeterà per proprio conto gli errori di sempre; la guerra «sta scritta nel cuore dell'uomo e pulsa all'unisono. La pace ha la funzione delle pause in musica e sta scritta sui sarcofaghi» (La signora Kirchgessner, p. 83); e, ancor più radicalmente e irrimediabilmente: «La vita continua è un'espressione cinica oltre che ovvia e la storia non finisce è una cantilena. La riproduzione e la continuità della specie sono un automatismo che nasconde una presa in giro. È una rincorsa a perdifiato su un cilindro che ruota a vuoto, e l'asino che cammina seguendo la carota appesa a un palmo dalle sue narici» (Il nespolo, p. 30).

D'altra parte, è l'operazione scrittoria stessa intrapresa da Pintor in questi libri ad averlo messo su di una strada diversa da quella più abituale del grande polemista politico (anche se qualcuno potrebbe studiare utilmente il percorso inverso, che è anch'esso possibile, dal pessimismo di scrittore a quello di giornalista). Questi libri, infatti, sono prodotti non precoci della sua immaginazione, anzi piuttosto tardivi, anzi, quanto allo spirito, decisamente postumi: ossia scritti come se lui si guardasse (non vorrei enfatizzare, ma mi pare sia proprio così), nella tomba e dalla tomba, attribuendosi al contempo, quasi per un'ultima sfida al destino avverso, una sopravvivenza puramente virtuale - ovvero scrittoria e immaginativa, appunto. Nel percorso doloroso, anzi, dolorosissimo, di un'esistenza individuale, segnata da una moltitudine di sconfitte sia pubbliche che private, Leopardi, - stando ai testi, - si direbbe abbia prevalso alla fine su Marx. È un percorso che altri hanno fatto, e che del resto non ha minimamente leso l'ossatura robusta, laica, razionale e virtuosista, della personalità pintoriana, che è, se vogliamo dirlo in termini filosofici, d'impronta nettamente stoica. Ma nel suo profondo `spes ultima dea' si è come ritirata nei recessi profondi e imperscrutabili del proprio tempio diruto. Ad altri - sembra dire malinconicamente e strenuamente Pintor - il compito di ridarle una vita nuova e migliore.

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