15.3.11

Il testamento biologico papale papale.

Su “Il Fatto” di sabato 11 marzo del 2011, un articoletto che con acconcia documentazione disvela la strumentalità degli odierni divieti della gerarchia vaticana sul “fine vita”, contraddittori rispetto alle stesse tradizioni cattoliche, agli stessi detti e atti di papi precedenti, neppure di molto tempo fa. (S.L.L.)
Eugenio Pacelli, detto Pio XII
Proponibili a una doverosa riflessione sono due citazioni autorevoli, attinenti entrambe ai problemi di fine vita connessi al testamento biologico. Espressione quest’ultima alla quale sarebbe preferibile testamento biografico, poiché la vita di cui si parla non è la vita “biologica” dell’organismo, ma la vita “biografica” della persona: una vita intrecciata non alla biomolecole, alle cellule, ai tessuti, agli organi che compongono il suo corpo, come quello di altri, ma alla “storia di una vita”, la sua e non un’altra. Quella appunto espressa dalla parola “biografia”, della cui unicità fanno parte passioni e ideali particolari, intuizioni e motivazioni proprie, nonché affetti ed esempi da trasmettere, scopi e progetti concepiti sia prima che durante il tempo del morire, tutti quanti meritevoli di quella pietas che Immanuel Kant ha tradotto nella categoria del “rispetto”.
La prima citazione autorevole è ricavata da uno dei Discorsi ai medici (editi postumi nel 1959) di papa Pio XII: «Se il tentativo della rianimazione costituisce per la famiglia un onere che, in coscienza, non si può ad essa imporre, questa può lecitamente insistere perché il medico interrompa i suoi tentativi. […] In questi casi, perciò, una richiesta da parte della famiglia di sospendere il tentativo è più che legittima, e il medico vi può lecitamente acconsentire. In tal caso non c’è alcuna diretta disposizione della vita del paziente e neppure eutanasia».
La seconda citazione, altrettanto autorevole, è legata alla voce che papa Paolo VI volle far giungere ai medici cattolici riuniti a congresso nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto impegnarsi ad alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo».
Alle due citazioni tratte dai discorsi pontifici si potrebbe aggiungere la frase che un altro papa, Giovanni Paolo II, di fronte alla minaccia di un prolungamento artificioso della propria agonia, sussurrò ai medici prima della terza tracheotomia: «Lasciatemi tornare alla Casa del Padre».

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