25.12.12

Danilo Nicli, il gappista romano dimenticato (di Massimo Sestili)

Danilo Ticli
Dal blog del mio amico e compagno Massimo Sestili, autore fra l’altro di un bel libro sull’affaire Dreyfus, recupero questa intensa e documentata pagina di storia (in origine un  articolo pubblicato su “Patria indipendente”, la rivista dell'ANPI) che, a sua volta recupera la memoria di un gappista romano, un operaio, da quasi tutti dimenticato. Da leggere. (S.L.L.)
Massimo Sestili con Anna e Mirella Ticli
Nel 1943 piazzò una bomba sotto il palco del Teatro Adriano.

Sopra c’erano il maresciallo Graziani e i comandanti nazisti.

L’attentato fallì per i difetti dell’ordigno esplosivo.

Le storie esistono per essere raccon­tate. Magari per decenni rimangono na­scoste in una via secon­daria, nell’atrio di un portone, in una soffitta abbandonata, sopra una lastra annerita, tra le pagine di una rivista ingiallita. Sono le storie di vite non celebrate, senza medaglie e rico­noscimenti, storie di persone che con umiltà si sono messe a disposi­zione ed hanno dato il loro contributo nella guerra contro il nazifa­scismo. Basta guardarsi attorno. Sono lì che aspettano qualcuno che le racconti. E capita che se non sei tu a cercarle allora ti cercano loro, perché sono in attesa da troppo tempo. Così ac­cade che un giorno di primavera squilla il telefono, rispondi, e ascolti una voce di giovane donna che sus­surra emozionata: «Sono la nipote di Danilo Nicli. Mario Fiorentini mi ha consigliato di mettermi in contat­to con lei». Nello smarrimento cerchi un appiglio! Poi la voce continua: «Anna e Mirella Nicli, le figlie di Danilo, vivono qui a Roma, se vuole le può incontrare». Del gappista ro­mano Danilo Nicli nessuno sa nulla e pensi che finalmente una pagina che mancava nella storia dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) roma­ni può essere scritta dopo sessantotto anni. Pensi che la storia di Danilo ti ha cercato e che la devi raccontare. Stupore e emozione si placano in un silenzio riflessivo e un filo s’addipana.
Solo il nome, nient’altro. Roma era occupata da circa un mese dalle truppe naziste quando Danilo Nicli partecipò alla riunione di fondazione dei GAP Centrali davanti al Fonta­none di Ponte Sisto alla fine d’otto­bre del 1943. Quel giorno, così im­portante per la Resistenza romana, arrivò con Carlo Salinari, “Sparta­co”, comandante della VI Zona che comprendeva San Giovanni, Appio-Latino-Metronio, Monti e Esquili­no, e, successivamente, comandante dei GAP Centrali unificati. Mica con uno qualsiasi! Di quella storica giornata e della presenza di Dani­lo Nicli è testimone Ma­rio Fiorentini, “Giovan­ni”, comandante del primo GAP Centrale “Antonio Gramsci”: «Nel mese d’ottobre del ’43 ci riunimmo Carlo Salinari, Giulio Corti­ni, Danilo Nicli ed io e formammo i GAP Centrali. C’è voluto del tempo per organizzarli e non sono stati costitu­iti tutti contemporane­amente. Quel giorno abbiamo deciso di sepa­rare dalle zone alcuni degli elementi più vali­di, di isolarli completa­mente, non potevano più avere contatti con nessuno. Dovevano es­sere staccati dall’orga­nizzazione in modo che agissero clandestinamente, in misu­ra più pertinente e utile, dovevano fare azioni speciali contro i tedeschi, i fascisti, la polizia, contro i mezzi di comunicazione».
Il filtro utilizzato dal Partito Co­munista per il reclutamento dei gappisti era molto rigido, farvi entrare chiunque avrebbe significato mettere a serio rischio l’attività di tutta l’organizzazione, compresi i capi militari. Dovevano essere uomi­ni fidati, pronti alle azioni più peri­colose, uomini che il Partito selezio­nava tra i suoi migliori combattenti. “Spartaco” lo sapeva molto bene e se quel giorno di fine ottobre lo porta con sé per affidargli un compito così delicato vuol dire che di Danilo ci si poteva fidare, che aveva le qualità morali e caratteriali, la propensione all’azione “senza tregua” contro il ne­mico, lo spirito di abnegazione che venivano richiesti a tutti i gappisti; vuol dire che nel Partito era cono­sciuto e apprezzato.
Tuttavia di Danilo, in tutte le memorie scritte dai gappisti, non compare che il nome quando ricordano l’azione fallita al teatro Adriano di Piazza Cavour. Si trattava di far saltare in aria il palco del teatro e con esso Rodolfo Grazia­ni e lo stato maggiore nazista e re­pubblichino presenti a Roma, com­presi Kesselring e Maeltzer. Non era un’azione qualsiasi: richiedeva una meticolosa preparazione, un attento studio del luogo, tempi giusti per collocare l’ordigno esplosivo, una strategia per mimetizzarlo e farlo en­trare senza destare sospetti. Occorre­va sangue freddo. Era il 18 novembre 1943. Insieme a Fabrizio Onofri, co­mandante dei GAP di Zona, che di­rigeva l’azione, c’erano due partigiani di primo piano: Mario Fiorentini e Rosario Sasà Bentivegna, “Paolo”, comandante del GAP Centrale “Carlo Pisacane”. L’ordigno era stato preparato da Giulio Cortini, “Cesa­re”, primo artificiere dei GAP, in se­guito sostituito da Giorgio Labò e Gianfranco Mattei. A Danilo Nicli venne assegnato l’incarico più delica­to: collocare la bomba sotto il palco, mentre “Paolo” e “Giovanni” erano di copertura e distraevano il custode. Ricorda Sasà: «Danilo ebbe tutto il tempo di scegliere il posto migliore per collocare l’ordigno, e, con disin­voltura, dopo un po’ ci passò di nuo­vo davanti e se ne andò. Io a mia vol­ta salutai il guardiano e mi allontanai dal teatro. Fuori incontrai Fiorentini. Insieme ci avviammo verso il centro» (R. Bentivegna, Achtung Banditen, Mursia, 2004). L’estintore carico di tritolo non esplose per un difetto di costruzione e, a guerra finita, Sasà e G. Cortini lo trovarono dove Danilo l’aveva collocato. Ma, come racconta Sasà, nel frattempo Danilo era morto.
Nient’altro, scompare nel nulla. Nes­suna fotografia. Neppure una bio­grafia scritta dall’ANPI. Non si sa da dove sia venuto, quando e come è morto.
Sfogliando il numero speciale della rivista «Mercurio» dedicato alla Resi­stenza (A.I, N.4, dicembre 1944) ci si imbatte in un articolo di F. Onofri dal titolo Danilo. Quel nome, passa­to inosservato per sessantotto anni, inizia ad avere un corpo e una storia. Siamo ancora nel dicembre del ’44, Roma era stata liberata a giugno, ma al Nord la guerra continuava, quindi era opportuno non scrivere i cogno­mi. È il primo e unico scritto dedica­to a Danilo Nicli da un suo compa­gno di lotta. Un uomo che sembrava arrivato dal nulla per esserne poi di nuovo inghiottito inizia ad avere una fisionomia: il suo corpo, il colorito della sua pelle, l’espressione del suo viso, le sue reazioni emotive, pennel­late da F. Onofri, gradualmente ac­quistano nitidezza tra le incrostazio­ni del tempo: «Era pallido, come sbiadito nei capelli e negli occhi, col viso calmo, quasi immobile: un ope­raio. Ma poi si vedeva che era inquie­to e teso nelle guance, sotto la pelle. Anche le mani e i gesti erano così. Forse perché me lo ricordo durante quell’azione. Era malato di cuore».
L’azione cui fa riferimento F. Ono­fri è quella al teatro Adriano. Da giorni i gappisti studiavano il luo­go e valutavano le diverse possibili­tà che si presentavano loro, e quan­do decisero per la bomba sotto il palco pensarono a Danilo: «Lo in­contrai verso sera, nella tuta grigia da lavoro. Gli dissi di che si trattava. Lui mi ascoltò, senza fare obiezioni. Aveva un cerchietto dorato, all’anu­lare, sulla sua mano d’operaio. Si ac­corse che lo guardavo, e d’un tratto mi parlò della moglie, dei bambini che aveva a casa. Disse: “Mia moglie non sa niente. Ma se mi dovesse capi­tare qualche cosa... Vorrei che quelle creature non mi morissero di fame”. Lo disse con calma, a bassa voce. Poi parlammo del colpo da fare, e gli spiegai tutto il piano».
Danilo aveva due figlie: Anna di cinque anni e Mirella di appena un mese. Non era facile per un uomo con quelle re­sponsabilità prendere una decisione del genere. Proprio lui, che con il suo salario da operaio, in piena guerra, non aveva nulla da lasciar loro per sfamarle. I più non l’hanno fatto e sono rimasti a guardare na­scosti negli angoli più bui: indiffe­renti e invisibili.
Il pensiero di Danilo per la famiglia nel momento di prendere una deci­sione che avrebbe potuto portarlo alla morte restituisce ai gappisti la loro vera umanità: non erano né guerrieri né tantomeno eroi, ma per­sone in carne ed ossa che decisero, in un momento particolarmente diffici­le della storia d’Italia, di prendersi le loro responsabilità e di sacrificarsi per il bene comune. Quel giorno, con il pensiero rivolto alle piccole fi­glie, Danilo decise che l’azione anda­va fatta: «E dopo un po’ Danilo svol­tò da una traversa e avanzò verso di me. Pedalava con gran lentezza. Alla fontanella si fermò, e si chinò per bere. Fu allora che vidi il suo viso, rovesciato sullo zampillo, pallido e teso cogli occhi bui: mi guardava trasognato. Io mi sforzai di sorrider­gli, per dargli un po’ di coraggio. E poi si cominciò. [...]. Le vedrò finché vivo, quelle mani bianche e caute, con quei gesti interminabili, in mez­zo all’aria grigia». Sono momenti di tensione, un piccolo e banale errore potrebbe costargli la vita e mandare l’azione in fumo. I tre partigiani sono fuori che aspettano mentre Danilo deposita l’estintore-bomba sotto il palco. Continua F. Onofri: «E final­mente uscì. Era più pallido, forse, più rigido nella persona, ma calmissimo, lento. Prese la bicicletta, la portò sul­la strada, vi montò su, e cominciò a pedalare: senza fretta. Venne verso di me, come si era stabilito, e anch’io salii in bicicletta, aspettai che mi fos­se accanto, e poi volammo via riden­do come pazzi, col sangue che ci bruciava».
Forse questa è l’ultima azione a cui ha partecipato, perché F. Onofri, che ha continuato la sua attività di co­mandante partigiano fino alla libera­zione di Roma conclude: «Da allora, non l’ho più visto. È morto in un ospedale, qualche tempo appresso, di polmonite, senza che si potesse far niente. Era malato di cuore. Ce lo ri­corderemo sempre con quel suo viso pallido, nella tuta grigia da lavoro».
Insieme a Chiara Sestili, la nipote di Danilo, ci rechiamo in una calda domenica di luglio da Anna e Mirel­la Nicli. Anna ci accoglie sorridente nel suo ombreggiato giardino con dei buoni pasticcini e una bibita fre­sca. Un albicocco carico di frutti ci protegge dal sole pomeridiano. Tutt’intorno fiori rigogliosi e colora­ti. Mi complimento con Anna per la cura del giardino: «Sì – mi risponde – amo tanto i fiori. Forse anche que­sta passione mi è stata trasmessa da papà». Guardo la foto di Danilo e ritrovo negli occhi di Anna la stessa dolce e bonaria timidezza. Iniziamo a parlare di Danilo.
Danilo Nicli era nato a Udine il 30 dicembre 1911. La famiglia Nicli scappò da Udine durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917), quando l’esercito austriaco avanzava sulla città, e si stabilì a Roma. I Nicli era­no poveri e dovevano ricostruirsi una vita a Roma, così Danilo per studiare venne inviato in un colle­gio. A diciotto anni già lavorava come operaio. Durante la guerra la­vorava a “Ottica Meccanica” in via Magna Grecia e abitava in via Si­nuessa 11, quartiere Appio-Latino-Metronio.
Il quartiere, che faceva parte della VI Zona, era molto attivo nella resi­stenza ed era abitato da personaggi di primo piano: a via Licia 56 abita­va Gioacchino Gesmundo, uno dei fondatori dei GAP Centrali. Anto­nio Leoni, schedato e diffidato come antifascista, abitava a via Altino 4 ed era componente di un gruppo che faceva capo a Mario Cambi: si riuni­vano al caffè Quirini che si trovava a via Taranto angolo via Rimini.
Considerando che conosceva perso­nalmente Carlo Salinari si può pre­sumere che Danilo fosse pienamente inserito nel contesto politico e mili­tare della VI Zona e che ne facesse parte da qualche tempo.
Ricorda Anna:
«Io ho un gran bel ricordo di Dani­lo, era un gran bel papà, mi voleva un bene dell’anima ed io ne volevo a lui. Ero molto più affezionata a papà che a mamma. Se fosse morta mam­ma forse non avrei sofferto così tan­to. Per me c’era lui e basta. Invece è morto lui.
Mia madre si chiamava Antonietta Gallo. Si erano sposati nel 1937 e andarono ad abitare prima a via dei Serpenti e successivamente a via Si­nuessa dove siamo rimasti fino al 1951. Io sono stata la prima figlia, nata il 27 marzo del 1938. Poi è nato un maschietto, Costantino, che è morto a tre mesi. Il 18 settembre del 1943 è nata Mirella: papà è morto il 22 febbraio del 1944, quando Mirel­la aveva circa cinque mesi.
Danilo era un uomo molto al­legro, di compagnia, ed ave­va una grande passione per la lavorazione dell’oro che io ho ere­ditato. I miei avevano una grande comitiva di amici e mamma in se­conde nozze ha sposato un amico di papà rimasto anche lui vedovo, lavo­ravano insieme all’Ottica Meccani­ca. Quando c’è stato il bombarda­mento a San Lorenzo [19 luglio 1943] la prima moglie del nostro patrigno stava affacciata alla finestra a chiedere aiuto ed è stata fatta a pezzetti, papà mi ha portata con lui in bicicletta a vedere cosa fosse suc­cesso e l’ha coperta con un lenzuolo. C’era un caos tremendo. Non capi­sco perché durante i bombardamen­ti papà mi portava in terrazza: mam­ma prendeva la valigetta e andava al ricovero e lui mi portava con sé sul terrazzo e mi diceva: se devi morire muori all’aria aperta, non fare la fine del topo. Per me era un divertimen­to, sembravano fuochi d’artificio.
Papà non ha avuto un’infanzia feli­ce, è stato in collegio, e ricordo che mi diceva sempre: se mi dovesse suc­cedere qualcosa non ti far mettere in collegio, non ci andare in collegio, assolutamente, perché si sta male. Era molto legato a me e mi incorag­giava a studiare. In particolare, aven­do delle mani affusolate, mi diceva di fare l’ostetrica o di studiare il pia­noforte.
Ricordo che da via Sinuessa Danilo si recava spesso a via Acaia dove c’e­rano due palazzi che noi chiamava­mo “I Cancelli”. Forse era un luogo d’incontro dei partigiani della zona. Dopo la morte di papà, mamma è andata più volte in quel luogo a chie­dere se poteva avere una pensione, un aiuto per le figlie. Purtroppo que­ste persone, compagni del Partito che mamma conosceva, le hanno detto che non le spettava niente e in­vece non era vero. Questa è una cosa che non perdonerò mai: perché noi eravamo due figlie più mamma, era­vamo talmente piccole che se ci aves­sero dato una pensioncina forse avremmo potuto anche studiare. Il periodo era brutto, però se ci fosse stato un piccolo aiuto... Perché han­no detto di no? Sia io che Mirella ri­sultiamo orfane di guerra; abbiamo un certificato che lo attesta. Infatti Mirella nel 1958 ha ottenuto la pen­sione. Inoltre papà aveva almeno quindici anni di contributi. Per noi era un diritto! Questo è il mio forte rammarico, non avere avuto alcun aiuto di nessun tipo; abbiamo avuto una vita durissima, io ho iniziato a lavorare che ero ancora una bambina.
Danilo non parlava mai della sua at­tività clandestina in famiglia, non si vantava. Ricordo che una volta a piazza Epiro c’erano delle bandierine rosse appese e mi disse, quelle le ho messe io stanotte. Infatti spesso la notte usciva di casa e una volta ricor­do che disse a mia madre: “Anto­nietta se mi succede qualcosa ti ver­ranno a prendere con una macchina nera, tu non fare do­mande, vai via, fai la valigia e vai, ti porta­no loro in un posto sicuro”. Quindi mam­ma pur non sapendo esattamente cosa il marito facesse, sicura­mente aveva intuito di cosa si trattasse.
Spesso papà mi portava con sé in bicicletta a fare la spesa a piazza Vittorio. Una cosa un po’ strana vista la di­stanza da casa. Ma io mi divertivo tanto, ero tanto orgogliosa del mio papà.
Ricordo anche che fa­ceva sempre un gioco con me: mi metteva una monetina tra le gambe per farmi notare che le avevo dritte.
Danilo fu ricoverato per una appen­dicite andata in peritonite. L’hanno operato due volte, il cuore non ha retto ed è morto. Aveva il cuore mal ridotto ed aveva vissuto emozioni troppo forti. Io l’ho visto l’ultima volta in ospedale il giorno prima che morisse. Era convinto di dover mo­rire a 33 anni. Ricordo che in quell’ultimo incontro mi disse: “bella di papà, il Padreterno m’ha fregato un anno. Ricordati una cosa, mamma è giovane e si rispose­rà, tu pensa a tua sorella”.
L’ho rivisto nella cassa e l’ho baciato. Del funerale ricordo solo la cassa e papà che aveva la fronte gelata. Quel­la di fare il partigiano è stata una sua scelta che noi abbiamo sempre ri­spettato. Io sono sicura che se fosse rimasto in vita l’avrei seguito, che sa­rei stata, e sono, dalla sua parte».
Il sole volge al tramonto, arriva da Ostia un leggero ponentino. Anna e Mirella ci offrono un magnifico gela­to. Le due sorelle sorridono. Anche in Mirella rivedo i tratti di Danilo. È arrivato il momento di salutarci.
Con Chiara riprendiamo la strada per Roma. Un leggero silenzio ci ac­compagna durante il viaggio. Quel filo che s’addipana accomuna le no­stre alla vita di Danilo, di Anna e di Mirella.

1 commento:

Unknown ha detto...

Ti ringrazio per questa storia. Sembra incredibile ma il mondo corre e sembra che esistano solo i PICCOLI FATTI, poi le storie della gente, le piccole GRANDI storie di tutti i giorni, sono loro la ''benzina'' delle grandi storie, non ci pensi mai..... poi all'improvviso te ne accorgi. GRAZIE ANCORA ! !

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