26.12.12

Una storia afroamericana. L'orgoglio di Rubin Carter, Hurricane (Flaviano De Luca)

Nel ritaglio ritrovato un vecchio articolo su una vicenda dimenticata. Bellissima. (S.L.L.)
Rubin Carter detto "Hurricane"
Un giorno d'estate il mensile statunitense “Esquire” propose allo scrittore Nelson Algren di andare a seguire il processo contro Rubin Carter, un pugile classificato nel 1966 tra i dieci migliori pesi medi del mondo. Ascoltando giorno dopo giorno i testimoni, i poliziotti e gli avvocati, il profondo conoscitore di malviventi, puttane, sbandati d'ogni genere (che ha superbamente descritto nei racconti Le notti di Chicago) si rese conto che la sentenza era già stata costruita a tavolino. Quando Carter fu condannato, Algren decise di scrivere un romanzo sulla sua vicenda, su un uomo innocente mandato in prigione in fretta e senza prove, accusato da due pregiudicati per fini utilitaristici. Cambiò nomi e situazioni leggermente (il protagonista si chiama Ruben Calhoun, come il famoso attore del dopoguerra). Il libro uscirà postumo, nel 1981, col titolo The devil's stocking (Il calzino del diavolo) e non sarà molto apprezzato dall'America reaganiana di yuppies in carriera e scudi stellari.
A quel tempo il movimento d'opinione per salvare Hurricane, aveva già vissuto la sua serata magica, il 9 dicembre del 1975, spettacolo conclusivo della Rolling Thunder Revue al Madison Square Garden. Dopo aver attraversato gli States, il tour per pubblicizzare il nuovo disco di Dylan (Desire), finì con un concerto di beneficenza per la liberazione di Carter a New York (con dichiarazioni pubbliche, a suo favore, che andavano da Norman Mailer a Candice Bergen), davanti a cinquemila persone. Sul palco, dopo Joan Baez e Ioni Mitchell, salì Muhammad Alì con la trovata classica di quegli anni, la telefonata dalla prigione del New Jersey, un saluto del pugile. "Sono seduto qui in prigione, nelle viscere di un penitenziario e penso che questo sia un atto davvero rivoluzionario, che tanta gente del mondo là fuori possa riunirsi per un uomo in prigione".
In un'intervista di quegli anni a “Penthouse”, Carter ripercorse i due anni di minacce, intimidazioni, perquisizioni subite dall'Fbi, dal 1964 al 1966, da quando il suo impegno nelle battaglie degli afroamericani divenne più intenso, a cominciare dalle sue parole dopo la rivolta della frutta, ad Harlem, nell'aprile 1964, quando disse "i neri devono proteggersi dalle invasioni dei poliziotti bianchi nei quartieri neri e devono difendere i ragazzi nelle strade con tutti i mezzi". Venne intesa come una dichiarazione di guerra, i giornali lo bollarono come un "nazionalista nero contro tutti i diavoli con gli occhi azzurri". E scattò la trappola.
Una volta imprigionato, Carter non aveva accettato le regole dell'universo carcerario: rifiutò l'uniforme (portava tuniche africane) e il cibo, si fece crescere la barba, si tagliò i capelli a zero, studiò e scrisse un libro, la sua autobiografia The sixteenth round: from contender n.l to# 45.472. Il colpo di genio fu inviare una copia del libro a Bob Dylan, fidando nella sue battaglia per i diritti civili. L'autore di Blowin’ in the wind andò a far visita in carcere al pugile e fu molto colpito dal suo carattere e dalla sua fierezza. Nacquero così le strofe di Hurricane, la canzone scritta da Bob Dylan, che fece il giro del mondo "Questa è la storia di Hurricane/ l'uomo che le autorità hanno accusato/ di un delitto che non ha commesso. Messo in prigione ma un giorno/ poteva diventare campione del mondo". Ha passato un terzo della sua vita, tra le sbarre. Dopo i quattro anni di riformatorio a Trenton State, il pugilato era diventato la sua arma di riscatto. Non aveva certo la tecnica sopraffina del campione ma una boxe tutta dinamica e aggressiva, piena di passione e forza, che scatenava l'entusiasmo del pubblico (da qui il motivo del soprannome, Tornado, Uragano). Un uomo sincero e diretto, che viene liberato dopo 19 anni di carcere, con un occhio di meno (ha perso la vista per un'operazione alla retina mal riuscita)."Sono stato fortunato - dirà, una volta libero - ho un occhio per vedere l'esterno e uno per guardarmi di dentro, per andare avanti combattendo".
Carter contro Giardiello (1963)

Scheda
40 volte sul ring
Poteva diventare campione del mondo Rubin Carter? Probabilmente sì, guardando la sua carriera, un'esplosione devastante soprattutto negli anni 1961/62 quando vinse per ko (entro la terza ripresa) undici dei sedici incontri disputati. Il suo patentino da pugile dice che pesava 157 libbre (poco più di 70 chili) ed era alto 5 feet e 8 inches (circa 177 centimetri). Gli avevano insegnato i fondamentali nella prigione di Trenton e poi, nella stessa città, aveva trovato lavoro come sparring partner di Sonny Liston (il futuro campione del mondo dei massimi, dal 1962 al 1964) sebbene fosse 5 pollici più basso e 50 libbre più leggero. Una sera, Carter tornò a casa colpito tanto duramente da Liston che il sangue gli zampillava da entrambe le orecchie. Abbandonò quel lavoro e puntò decisamente alla carriera nei pesi medi. Anche Emile Griffith, il rivale di Benvenuti, non riesce a resistere alla sua furia, kappaò alla prima ripresa il 20 dicembre 1963. Il match della vita è quello contro l'italo-americano Joey Giardello, a Philadelphia, col titolo mondiale dei pesi medi in palio, ma Hurricane, in quell'occasione, non trova la combinazione vincente e viene battuto ai punti, dopo quindici riprese travolgenti, da un verdetto non troppo limpido.
Salirà ancora quindici volte sul ring, con verdetti alterni, sognando una nuova chance mondiale prima di ritrovarsi tra le sbarre. Il suo totale riporta 40 match disputati, dal 61 ai 66, con 19 vittorie per ko, 8 a i punti, 1 pari e 12 sconfitte (tutte ai punti, tranne una). I filmati dei suoi match sono introvabili in Italia e fanno parte del grande archivio della Big Fights Inc. (f.d.l.)


“alias”, 29 gennaio 2000

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