«Sulla riva c’è un
salice piangente / come un bimbo vispo che, portato al mare, / corre
scapigliato, corre tra la gente / e, arrivato all’acqua, spruzza
per giocare». Così scriveva la poetessa Rachel all’inizio del
Novecento, seduta in riva al lago di Tiberiade, quel mar di Kineret,
come viene definito nella Bibbia, che la giovane donna russa -
pioniera sionista e raffinatissima intellettuale - tanto amava, e a
cui dedicò questi e altri versi.
Rachel Bluwstein, meglio
nota come la Poetessa Rachel, in Israele è considerata una delle
pietre miliari della letteratura ebraica moderna: al punto che oggi,
a Gerusalemme e Tel Aviv, in molti corsi di ebraico per i nuovi
immigrati, gli ebrei della diaspora “tornati” nella Terra
Promessa, le sue poesie sono le prime ad essere insegnate. Dal
prossimo anno questa madre della patria sarà ancora più conosciuta:
è una dei quattro personaggi scelti dalla Banca d’Israele per una
nuova serie di banconote. Insieme a lei, unica donna, ci sono tre
premi Nobel - due per la Pace, uno per la Letteratura: Menachem
Begin, premiato dall’Accademia svedese per aver firmato la pace con
l’Egitto; l’ex Primo ministro Yitzhak Rabin, il “militare
tramutato in colomba” che vinse il Nobel per la Pace in seguito
agli accordi di Oslo; e infine lo scrittore Shamuel Yosef Agnon, che
con le sue poesie conquistò il premio nel 1966. Lei, Rachel, di
riconoscimenti internazionali altrettanto prestigiosi non ne ha mai
ricevuti, e anzi all’estero la sua popolarità è di certo minore
di quella di questi altri tre nomi di primo piano della storia e
cultura israeliane. Ma questo, in patria, non ne sminuisce il valore,
che è indiscusso.
Il Governatore della
Banca israeliana, Stanley Fischer, ha affermato che la scelta di
questi personaggi è «d’importanza storica per le future
generazioni», e come tutte le scelte che segnano la storia non è
stata affatto facile, né veloce. La commissione incaricata di
decidere ha impiegato mesi, durante i quali il ministro delle
Finanze, chiamato a dire la sua, ha camminato sulle uova e ha dovuto
fronteggiare critiche feroci provenienti dagli ambienti più
disparati e lontani. Destra ultrà, femministe, ebrei sefarditi: per
accontentare tutti ci è voluta una gran dose di diplomazia. In
particolare, molto vivaci sono state le attiviste per i diritti delle
donne. All’inizio, nella rosa dei candidati proposta dalla
commissione della Banca non c’era neanche un esponente del gentil
sesso; le signore non l’hanno presa bene e si sono rimboccate le
maniche, reclamando una quota rosa: è grazie alla loro militanza che
Rachel è entrata nel quartetto finale. Prima di lei, solo all’ex
capo di governo Golda Meir era stato tributato un onore così alto.
La lady di ferro israeliana e la Poetessa: due figure per molti versi
distanti, ma allo stesso tempo così simili. Tra le loro esistenze vi
sono diverse analogie, o meglio delle eco: le stesse che si ritrovano
leggendo le biografie dei grandi uomini che hanno costruito
letteralmente lo Stato ebraico. Ebrei russi, ucraini, polacchi
sfuggiti ai pogrom che insanguinavano l’Europa orientale all’inizio
del ventesimo secolo, e approdati nell’allora Palestina ottomana,
divenuta in seguito mandato Britannico e, infine, Israele. Giovani
uomini e donne che diedero vita al movimento dei kibbutz per
realizzare il loro sogno socialista, sotto la doppia insegna del ramo
d’ulivo e della spada.
Rachel è a tutti gli
effetti una di loro. Nasce a Saratov, in Russia, nel 1890, undicesima
figlia di una famiglia d’intellettuali; frequenta un liceo laico,
studia pittura e inizia a scrivere poesie quando ha appena 15 anni. A
19 approda in Palestina, sbarca a Giaffa insieme alla sorella: le due
sono in viaggio per l’Italia, hanno un’idea romantica del Bel
Paese, e vorrebbero studiare lì arte e filosofia. Ma sono gli anni
della seconda Aliyah, l’immigrazione del 1905-14, e la tappa in
“Eretz Israel” cambia tutto: le due, già sostenitrici del
movimento sionista, decidono di restare, di diventare pioniere e
sposano l’ideologia del kibbutz. Nel villaggio comunitario di
Kineret, Rachel ritrova l’élite russa in mezzo a cui è cresciuta:
i suoi compagni sono intellettuali, marxisti, utopisti. Insegna e
lavora nei campi, e celebra nei suoi versi la vita in campagna, i
panorami agresti, il sudore della fronte e l’amore per la patria
che prende forma, giorno dopo giorno. E una delle prime narratrici
dell’epopea nazionale ebraica, insieme a Dvora Baron, ma canta
anche la sua vita privata : l’amore per Zalman Shazar, leader
sionista con cui ebbe ima relazione e che diventerà il terzo
presidente d’Israele, i suoi dubbi esistenziali, il dolore mai
sopito per non poter generare bambini. I suoi versi, intimi e senza
fronzoli, hanno una modernità destinata a resistere: tanto che
ancora oggi molti musicisti e cantanti israeliani (un nome per tutti:
Noa), continuano a metterli in musica, ricavandone successi
commerciali.
Ma alla semplicità del
suo vocabolario e al procedere piano delle sue poesie non corrisponde
il suo percorso di vita, che fu accidentato e troppo breve. Dopo
alcuni anni in Palestina, rientra in Europa, in Francia, per studiare
agronomia e disegno. La Grande Guerra la coglie impreparata, rimane
incastrata nel Vecchio continente, per anni non toma al suo kibbutz,
alla terra che ama e che nelle sue poesie diventa la «madre», a cui
si duole di non poter offrire grandi soddisfazioni («Oh, Terra, non
cantai, / né ti glorificai. / Le gesta degli eroi / non t’ho
narrato mai. / Ho solo calpestato la riva del Giordano, / soltanto un
alberello piantai con la mia mano»).
La Poetessa ripara in
Russia, e lì la sua militanza sionista prende la forma
dell’insegnamento ai figli dei rifugiati ebrei. Quando in Europa
tacciono i cannoni e si iniziano a piangere i morti, toma in
Palestina via nave: porta con sé il suo quaderno di appunti, e la
tubercolosi. Torna sulle sponde del lago di Tiberiade, e per un certo
periodo vive a Degania, la madre di tutti i kibbutz, un altro pezzo
della storia d’Israele. I dieci anni che seguiranno verranno
scanditi dalla sua malattia, dall’impossibilità di continuare a
insegnare, dai viaggi e dalla necessità di lasciare il kibbutz, e
trasferirsi a Tel Aviv, che all’epoca è una città giovane, con
appena una ventina di anni di storia alle spalle. Alla fine, nel
1931, Rachel chiuderà gli occhi in un sanatorio per tubercolotici;
affida il suo testamento a una poesia (Se il fato decreta), in
cui chiede di essere seppellita sulle rive del lago beneamato. Oggi
la sua tomba è meta di pellegrinaggi da parte di affezionati
estimatori, che le rendono onore organizzando letture delle sue
poesie proprio lì dove molte di esse sono state scritte. Le affinità
elettive resistono alla morte: e i versi della Poetessa riescono
tuttora ad arrivare al cuore della gente. E pensare che di sé
stessa, la giovane Rachel aveva scritto in Solo di me: «Solo
di me vi saprei narrare: / una formica nel mondo quaggiù, / porto
una soma pesante anch’io, / che le mie spalle non reggono più».
“Il riformista”, 2
gennaio 2011
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