2.6.18

Lo sciopero nella letteratura (Alberto Asor Rosa)

Nel numero 25 del marzo 1970 i “Quaderni di Rassegna sindacale”, periodico della Cgil, pubblicarono una antologia di brani narrativi e teatrali di autori italiani e stranieri sul tema dello sciopero. La scelta dei testi fu curata Bianca Saletti, mentre Alberto Asor Rosa, all'epoca militante del Psiup oltre che docente universitario, curò l'interessante introduzione che è qui postata. (S.L.L.)


Diciamo subito quello che non ci si può aspettare da un’antologia della letteratura mondiale sul tema dello sciopero: non ci si può aspettare che ne emerga un quadro organico, coerente e storicamente fedele delle lotte dei lavoratori dalla metà del secolo scorso fino ad oggi. E questo non solo per la difficoltà oggettiva di legare insieme secondo una qualunque linea scrittori di nazionalità diversissima, che affrontano situazioni molto differenziate fra loro e spesso non sono neanche coevi agli eventi narrati, sì che in una sola opera s’intrecciano su di una serie di piani storicamente sfalsati i problemi generati da un determinato contenuto con quelli propri di un determinato punto di vista. (E’ appena il caso di ricordare che alcuni anni or sono, nella valutazione critica di un famoso sciopero della narrativa italiana, quello dei muratori del Metello di Pratolini, sono confluite e si sono scontrate sia le opinioni di coloro i quali ritenevano la ricostruzione di quell’episodio storicamente inattendibile ma artisticamente valida, sia le opinioni di coloro i quali, disinteressandosi della maggiore o minore validità storica del racconto, lo ritenevano però una pratica manifestazione di un moderatismo politico di sinistra quanto mai attuale). Difficoltà di questo genere senza dubbio esistono, ma sono comuni a qualunque iniziativa antologica, e se qualcosa mettono in dubbio è caso mai la legittimità di promuovere qualsivoglia tipo di antologia. Nel caso nostro il problema è più di fondo, e riguarda la natura stessa del mezzo attraverso cui, nel campo da noi prescelto, lo sciopero viene descritto e comunicato. Questo mezzo è la letteratura, e la letteratura ha, com’è noto, sue proprie leggi alle quali spesso la cosiddetta «fedeltà verso il reale» deve inchinarsi. Questa posizione, che ha una sua validità generale, trova in questi testi una conferma tanto più clamorosa quanto più il tema in essi affrontato sembrerebbe richiedere un umile atteggiamento documentario, una volontà di testimonianza semplicemente rispettosa dell’accaduto. Qui si vede bene come il materiale dell’inchiesta, della cronaca e della relazione storica sia per lo scrittore il pretesto per mettere in atto la costruzione complessa della sua fantasia, in cui problematica estetica, punto di vista di classe, ideologia e posizione politica s’intrecciano profondamente fino a dar luogo, anche intorno al problema dello sciopero, ad una proposta umana, che vuole 'andare ben al di là della difesa e dell’esaltazione delle lotte dei lavoratori. Anzi, nella misura in cui lo sciopero rappresenta sempre un fatto traumatico di grande rilievo, esso si colloca nell’opera di questi scrittori con un valore particolare di sollecitazione emotiva e ideale, come un momento di singolare accentuazione delle forze umane, da esaltare, riscattare e promuovere: ma restando appunto un elemento simbolico fortemente significativo all’interno della propria visione di letterati, d’intellettuali, di uomini di cultura. Poiché, dunque, non è possibile né utile leggere questa antologia come una raccolta di documenti storici sullo sciopero, noi proponiamo di leggerla come una raccolta di documenti che esprimono il punto di vista sullo sciopero di una serie di gruppi intellettuali storicamente determinati, i quali, per essersi serviti del linguaggio letterario, spesso cifrato, ma in compenso totale, immediato, hanno portato alla luce con cristallina chiarezza il sostrato profondo della coscienza della classe dominante con tutte le sue interne contraddizioni, nelle varie fasi in cui esse si sono manifestate durante l’arco di tempo coperto dai brani qui prescelti. In questa chiave una lettura di questa antologia può anche essere stimolante, anche perché non sarebbe difficile fare di ognuno degli scrittori qui rappresentati il capofila d’un gruppo che ha poi i suoi addentellati, al di là delle specializzazioni intellettuali, in campo sociale, ideologico e direttamente politico. Il modo di rappresentare (cioè d’intendere, — cioè, in ultima analisi, di volere o di rifiutare) lo sciopero è la cartina di tornasole dell’intellettuale borghese messo di fronte all’insorgenza massiccia della classe, se non avversa, certo diversa da lui che la vede e la descrive. L’attendibilità di questa descrizione è quasi sempre dubbia. Mentre ha un senso preciso, e quindi storico, l’atteggiamento che guida questa descrizione, il proporsi, attraverso di essa, la diffusione di un messaggio ideale rivolto agli uomini, — a tutti gli uomini.
Fra gli scrittori qui rappresentati ce ne sono di moderati e di progressisti, di democratici e di comunisti. Ce ne sono, anche, di francamente reazionari. E ciò non può stupirci, anzi suona conferma a quanto abbiamo scritto finora. Bacchelli, ad esempio, è fra questi. Prendete una folla di braccianti in lotta: descrivetene la miseria e la sofferenza con accenti toccanti; dimostrate che persino l’autorità (il prete, il commissario di polizia, se non proprio il padrone dei fondi) rimane in qualche modo presa da quello spettacolo di giustificata ribellione; condite la scena con tutti i particolari dell’ignoranza, della superstizione, con tutte le manifestazioni della storica incapacità di autoguidarsi, che quei derelitti mostrano; inserite tutto questo in un vasto affresco storico, in cui il protagonista principale è un fiume, che con le sue piene colleriche e ricorrenti sembra suggerire l’idea che uomo e fiume, genere umano e natura abbiano in fondo lo stesso destino fatale e irrimediabile; date alla storia delle masse il compito di colorire sullo sfondo la storia ben altrimenti fondamentale delle famiglie e degli individui; ed avrete infine che anche uno sciopero, anche una lotta di massa, anche quando vengono rappresentati con scrupolo, e verisimiglianza, e apparente rispetto della verità, possono esser fatti passare per dei piccoli segmenti di vita nel grande flusso della storia, dentro il quale tutto si unifica, si pareggia, si pacifica. In altri l’atteggiamento reazionario è più camuffato, ma altrettanto profondo, e forse più ambiguo: sono quelli i quali, pur schierandosi toto corde dalla parte degli scioperanti, insinuano sottilmente il dubbio che il frutto della lotta non valga mai le pene e il dolore che valsero il combatterla. In casi come questi è facile passare dalle caute perplessità iniziali alla recriminazione contro gli scioperanti più accaniti fino alla livida accusa contro i marxisti fomentatori professionali del disordine. Lo sciopero diventa in questa visione il momento culminante di una rivolta, che non è senza giustificazioni, ma si mette nel torto per aver dovuto necessariamente infrangere tutte le leggi umane e divine. Da questa parte sta senza equivoci il gallese Llewelleyn; e ci sta anche, sebbene ancora coperto del suo americano radicalismo, lo Steinbeck, che non sa fondare la sua simpatia verso gli scioperanti su di una ragionata, sicura adesione politica e morale. (Non si dimentichi che nell’edizione originale il titolo del suo romanzo La battaglia, del 1936, era In dubious battle). Altri, infine, vedono lo sciopero sotto forma di prolungamento di un’esperienza di vita volutamente intensa ed esasperata: pochi, credo, vorranno dubitare che l’attenzione dedicata da un Andrè Malraux alle lotte dei lavoratori di Canton (I conquistatori) abbia altra origine che un estetico amore per la forza e la violenza, le cui conclusioni sono del tutto indipendenti dalle ragioni autenticamente operaie della lotta di classe.
Più interessanti sono però per noi, ovviamente, quegli scrittori i quali partecipano da cima a fondo (o almeno così sembrerebbe) alle lotte dei lavoratori e ne condividono, almeno, lo spirito informatore e le richieste materiali. Anche qui, evidentemente, classificazioni troppo nette sono impossibili, a causa dell’estrema varietà dei punti di vista rappresentati: dal socialistico «culto dei sentimenti» gorkijano, alla schietta sensibilità proletaria di un O’ Casey, al marxismo di un Brecht, all’umanitarismo melodrammatico di un Pratolini. Questa tipologia, del resto, non offre difficoltà per nessuno: il lettore di queste pagine potrà ricostruirsela senza dubbio anche da solo. Ci sembra più utile da parte nostra segnalare invece quelli che appaiono i tratti comuni, gli elementi ricorrenti nella varietà del quadro. Isolando, al di sotto magari dei caratteri ideologici più appariscenti, la sostanza del discorso letterario sullo sciopero, ne viene fuori un’immagine abbastanza omogenea di tale problema: quasi che gli scrittori avessero ancorato il loro atteggiamento verso la classe operaia al rispetto di talune categorie intellettuali in gran parte statiche e rigide. S’intende che la rappresentazione di uno sciopero non può essere letterariamente disgiunta da una certa visione della classe operaia o dei lavoratori che sono protagonisti di quello sciopero: tale la considerazione con cui lo scrittore guarda alla classe operaia, tale il modo con cui verrà tagliato, seguito, apprezzato, criticato lo sciopero, che essa, così formata, si rivelerà in grado di eseguire. Guardando ai brani che abbiamo qui raccolto, vediamo che essi nella grande maggioranza, da Hauptmann a Odets (per quelli successivi sarà necessario un discorso parzialmente diverso), esprimono due modi distinti di affrontare la rappresentazione della classe operaia: da una parte, infatti, troviamo quelli per i quali gli operai si presentano sotto forma essenzialmente di «poveri», come i miserabili e gli affamati di una spietata società pre-keynesiana, come il prodotto della ricerca senza scrupoli e senza posa del profitto capitalistico, che non di rado sconfina nella speculazione, nella violenza, nella fisica sopraffazione; dall’altra, troviamo quelli per i quali gli operai si presentano sotto forma essenzialmente di «umiliati e offesi », come la parte migliore e più fresca dell’umanità, che il genio malefico del capitale e della dittatura borghese conculca ed opprime, senza riuscire a soffocarne peraltro la genuina aspirazione di giustizia. Senza voler stabilire nette suddivisioni, dal momento che le due specie oltre tutto s’incrociano spesso nello stesso scrittore, pensiamo che tra i primi vadano collocate personalità come Hauptmann, Zola, Mann, Tokunaga, Seghers, Steinbeck; tra i secondi, Gorki, Martin du Gard, O' Casey, Pratolini. Lo sciopero è per gli affamati l’esplosione di una intollerabile condizione di vita, il momento in cui il livello dell’esistenza è giunto cosi in basso che la lotta appare come l’ultima disperata risorsa per strapparsi ad una sorte peggiore della morte: la dimensione storica entro la quale si colloca questa porzione della scelta, al di là dei confini puramente cronologici, è ancora quella del plusvalore assoluto, che esprime violenza e richiede in risposta violenza. Per questo, nel gruppo di autori citati, lo sciopero coincide così frequentemente con il tentativo di soppressione violenta dei padroni e dei loro servi, con lo scontro armato, persino con manifestazioni di vera e propria bestialità da parte dei lavoratori esasperati (Zola), dietro le quali s’intravvedono ancora lontani bagliori di luddismo (Hauptmann). Per gli «umiliati e offesi» lo sciopero è invece un salto di qualità della coscienza, il momento in cui la conquista di uno strumento efficace di lotta segna il passaggio dei lavoratori alla «politica», e quindi all’innalzamento e alla salvazione (sia pure soltanto morale, per ora): e questo non solo quando, come nel caso di Gorki e di Martin du Gard, esso è collegato a grandi questioni politiche come la lotta per i diritti politici nella Russia zarista o la battaglia internazionalistica contro la guerra nella Francia del 14, ma anche quando, come nel caso di Pratolini, lo sciopero sindacale accompagna e favorisce la maturazione umana e sentimentale del protagonista Metello, o, come nel caso di O’ Casey, il giovane Ayamonn fonda sulla lolla salariale la sua profonda esigenza di un destino umano migliore (di lui morto dirà la sua innamorata: « Forse egli vedeva lo scellino nella forma di un mondo nuovo... »). Poveri e miserabili, umiliati ed offesi, hanno però questo di comune, che in ogni caso essi sono i rappresentanti di una classe vista come subalterna, con sentimenti che vanno da un sospetto di raccapriccio in Zola a una convinta solidarietà in Gorki o in Pratolini, ma che sempre lasciano sospettare un distacco, e quindi un’incapacità di penetrare nel profondo della cosa. Conseguenza di questo atteggiamento è che dietro questa classe operaia non c'è mai la fabbrica, la dimensione produttiva, dentro la quale la classe cresce in quanto classe ed assume la sua fisionomia autonoma ed opera la sua maturazione alla lotta: c’è, nel migliore dei casi, lo squarcio di colore di qualche scena m miniera o sulle impalcature di un cantiere edilizio (anche la classe operaia ha le sue appendici più pittoresche e quindi più ghiottamente adocchiate dai letterali). Poiché manca la fabbrica, cioè il punto di origine e di definizione della classe in quanto classe, cosa diventa lo sciopero? Diventa la vita stessa della classe operaia, — l'unica vita possibile, del resto, per una classe che viene dall’ignoto ed esprime soprattutto la propria sconfinata miseria ( sia essa materiale o spirituale). Attraverso lo squarcio aperto violentemente nel tessuto sociale borghese, si mostra di cosa essa sia capace, quale forza oscura essa celi. Ma appunto perché in questa lotta non c’è un prima, non potrà esserci un poi: brilla per un istante di luce eroica la ribellione, ma un rapido tramonto tinge presto di sanguigno la rivolta degli schiavi. Sarà un caso, ma possibile che di ventidue opere stimate degne di entrare in questa raccolta almeno una quindicina raccontino la storia di scioperi falliti, ed altre, che narrano la storia di scioperi riusciti, come La madre di Gorki o il Metello, si concludano egualmente con la prigione o la morte, che si abbattono sui personaggi, quasi a risarcire sacrificalmente il felice andamento di quelle imprese? Non è un caso, ma la necessità dell’intellettuale scrittore di rappresentare a se stesso lo sciopero sotto forma di moderna epopea, perché la vita squallida e miserevole di questa classe destituita di ogni qualità assuma ai suoi occhi un interesse profondo anche se transitorio. Potremmo concludere che, letteralmente parlando, lo sciopero è l'unico modo d’essere degli operai capace di presentarsi con caratteri estetici definiti, cioè rappresentabili. Fuori di esso la classe operaia non ha per così dire autonoma fisionomia: o ripiomba nel vuoto da cui era uscita per l’incantesimo estetico, oppure si frammentizza in una miriade d’individui dai caratteri etici, erotici, spirituali, del tutto analoghi a quelli di una piccola borghesia affamata e stracciona.
Questo tipo di analisi trova corrispondenze anche sul piano dei riferimenti storici. Abbiamo infatti parlato finora di scrittori e di opere che vanno grosso modo dall’800 alla seconda guerra mondiale. Dentro questo lungo lasso di tempo, gli atteggiamenti di classe dominanti, che gli scrittori sembrano aver individuato, sono tre. C'è innanzi tutto una fase delle origini, dove il movimento operaio si presenta con forti tratti proletari, con una prima selvaggia coscienza di sé, che pero assai faticosamente si sbozzola nella pratica dalle tentazioni anarchiche e luddistiche: anche dal punto di vista della composizione di classe, emergono le categorie più vicine per così dire alla comune origine contadina della classe, tessitori (Hauptmann), minatori (Zola), braccianti (Bacchelli), muratori (Pratolini). C’è poi una fase intermedia, che chiamerei «internazionalista», caratterizzata da una forte accentuazione dei motivi propagandistici, politici, ideologici, durante la quale è persino indifferente sapere se gli scioperanti sono metalmeccanici o edili, perché più importante è lo scopo comune per cui lottano ( Gorki, Martin du Gard; ma anche H. Mann, in cui facilmente si scopre che il motivo concreto, salariale dello sciopero interessa lo scrittore assai meno dell’ampio scopo umanitario, per il quale il protagonista, un intellettuale, si batte). C’è poi una terza fase, all’incirca tra il 1919 e il 1940, che vede la classe operaia schiacciata fra le disastrose conseguenze della prima guerra mondiale, il drammatico sconvolgimento della crisi economica e l’incipiente affermarsi del fascismo e del nazismo (numerosi altri autori, come D.H. Lawrence, Cronin, Carlo Bernari, ecc., affrontavano anch’essi questa tematica). In tutti e tre questi momenti, e sia pure per motivazioni storicamente diverse, la classe operaia mette in luce la sua parte più debole, la sua elementare necessità di difesa, il suo primitivo bisogno di sopravvivenza. Da qui, dunque, la radice storica della tematica dei « poveri », degli « umiliati e offesi », che però in tanto è storica in quanto gli scrittori soltanto questi motivi hanno voluto (o saputo) individuare ed evidenziare.
Che la classe operaia debba essere una classe sconfitta, per poter diventare una categoria poetica, lo dimostrano anche gli autori dell’ultima fase, quella successiva alla seconda guerra mondiale: si tratta degli italiani Ottieri, Italo Calvino (I giovani del Po), Valerio Bertini (Il bardotto), che fermano la loro attenzione sul dramma della «ricostruzione», caratterizzata dai ridimensionamenti aziendali e produttivi, che buttano sul lastrico migliaia di operai, mentre le speranze della Resistenza muoiono sullo sfondo; oppure degli statunitensi Swados e Selby, che collocano la descrizione delle lotte operaie in una cornice di storie umane amarissime e disperate, che fanno intuire una condizione di generale avvilimento e frustrazione. Tuttavia, qualche elemento di novità è possibile ravvisare in questi ultimi scrittori. Il più importante fra essi è la comparsa in scena del grande complesso produttivo, la fabbrica moderna, e il tentativo sia pure embrionale di vedere la classe agire all’interno delle condizioni lavorative nelle quali essa si genera. Riportare la classe nel suo ambiente di lavoro significa cambiare l’ottica stessa della rappresentazione dello sciopero: non più come mera esplosione di forza rivolta prevalentemente verso l’esterno, bensì come esperienza di accrescimento e di conoscenza, che in un certo senso si giustifica soprattutto perché tende a modificare al suo interno la classe stessa. Residui letterari fastidiosissimi si accumulano beninteso anche in questa direzione: basti pensare alla pronunciata tendenza di uno scrittore peraltro onesto come Ottieri a vedere lo sciopero sotto l’angolo visuale del caso umano, del caso di coscienza individuale, che prolunga e vanifica l’esperienza collettiva della lotta in una sorta di rinnovata «educazione dei sentimenti» gorkijana. Qualche baleno aspro di una ormai matura autonomia di classe è dato però coglierlo, qua e là, forse raccolto inconsapevolmente, forse contraddetto dalla più generale dimensione ideologica del racconto, nelle opere di questi scrittori: ed è in Swados la terribile risata degli operai alla linea di fronte alle disavventure del loro caporeparto; è in Davi l’improvviso, choccante isolamento del capofficina, che vede per la prima volta crollare la sua autorità, mentre gli operai, rinchiudendosi a riccio, riescono a far confluire in un’unica massa di resistenza i motivi personali della loro animosità verso la fabbrica, verso il padrone e magari verso la vita; è in Selby l’accesso rabbioso di violenza degli operai picchettanti la fabbrica contro camionisti crumiri e polizia, in cui si scarica non soltanto la tensione nervosa accumulata in mesi di sciopero ma anche la confusa volontà d’individuare, al di là dei consigli d’amministrazione lontani e sfuggenti, un preciso nemico da colpire e da distruggere. In scrittori come questi il discorso ideologico generale tende senza dubbio a vanificarsi, manca la complessa inquadratura, che sosteneva la posizione di personalità come Gorki e come Martin du Gard nel loro rapporto con la classe. Non diremo però che l’assenza di questi elementi ci dispiaccia molto. Non abbiamo infatti la convinzione che attraverso questi squarci di subitanea intuizione, che non a caso abbiamo definito baleni, sia destinata a ricostruirsi un’organica visione letteraria, a cui affidare il compito di rappresentare le lotte degli operai finalmente in una situazione di capitalismo maturo. Si tratta invece, come abbiamo detto, d’illuminazioni sparse, dovute probabilmente alla presenza di un clima sociale nuovo e ad un più accentuato scrupolo di onestà documentaria. Gli strumenti letterari in definitiva non mutano (si pensi a un Davi, con il suo gusto per un’azione melodrammatica e mossa), oppure, quando mutano, mutano per ragioni che non hanno niente a che fare con la scelta dello sciopero come argomento della rappresentazione (Selby, Volponi). Con queste avvertenze presentiamo l’ultimo gruppo di brani, senza dunque minimamente pretendere che essi nel loro insieme esprimano una tendenza letteraria nuova, solo per il fatto che rappresentano con maggiore aderenza e verità scioperi dell’età a noi contemporanea.
Dal quadro finora tracciato restano fuori i tre scrittori, ai quali dobbiamo le pagine più belle presenti in questa antologia (dalla quale Alan Sillitoe, Sabato sera, domenica mattina, manca soltanto perché il libro non descrive un vero e proprio sciopero). Sono Ehrenburg, Dos Passos, Brecht. Noi li sentiamo diversi dagli altri non tanto perché ci forniscano materiali molto originali intorno all’argomento e alla tipologia dello sciopero, quanto perché il taglio del loro discorso non è riassumibile in nessuno degli schemi finora descritti. Per l’Ehrenburg avanguardista del primo dopoguerra lo sciopero è la semplice occasione per mettere in piedi un apologo al vetriolo sulla forza irresistibile del denaro, il quale, nella sua forma privilegiata e suprema di «dollaro», esprime al massimo grado il nuovo comandamento biblico del sistema capitalistico: «Date a Dio quel che è di Dio e al padrone quel che è del padrone». Dos Passos aderisce intimamente, prima degli sproloqui umanitari di un Caldwell, di uno Steinbeck, di un Odets, di un Howard Fast (Sciopero a Clarkton), alla sostanza proletaria della civiltà americana e, pur senza scansare del tutto i pericoli di una retorica foriera di simpatie reazionarie, riesce a creare la piccola epica dell’operaio ignorante e sventurato, sulle cui spalle si regge il grande sistema del capitale. Brecht anche in Santa Giovanna dei Macelli rivela in che cosa egli è vicino e in che cosa diametralmente opposto agli altri scrittori suoi compagni di strada. E’ vicino ad essi (e forse non poteva essere diversamente) nella individuazione delle situazioni e dei rapporti fondamentali di forza: anche i suoi operai sono proletari schiacciati dal peso del dominio capitalistico, colti nella situazione produttiva in un certo senso meno determinante (le fabbriche di carne in scatola di Chicago), quando per giunta sono già fuori delle loro aziende, buttati per le stradead aumentare la schiera dei miserabili e degli affamati, in un momento di crisi dello sviluppo provocato dalle mire di un capitalismo avventuristico e speculatore e destinati quindi inevitabilmente alla sconfitta. Ma profondamente diverso ed anzi opposto egli è nel suo sforzo di ricostruzione delle leggi di comportamento della classe operaia, nella precisa indicazione dell’organizzazione come unico strumento possibile non solo di difesa ma anche d’attacco, nel senso primitivo se si vuole, ma efficacissimo, di netta impronta proletaria, del distacco incolmabile tra la classe operaia e gli altri ceti, ivi compresi gli intellettuali: mossi dalle smanie dell’elevazione morale e del messaggio umano. Come talvolta accade alle personalità veramente geniali, Brecht svolge di conseguenza un discorso che, pur partendo da materiali sorpassati, riesce ad esser valido soprattutto per il futuro e a scoprire in quali direzioni si sarebbe mossa la realtà nei decenni successivi. Lo sciopero per lui ha già infatti una doppia faccia, che sarebbe diventata evidente soprattutto ai nostri giorni: da una parte è violenza sociale contro la parte avversa, sconvolgimento dell’intero assetto voluto e tenuto in piedi dal capitalismo; ma dall’altra è insegnamento, esperienza, accrescimento organizzativo, perfetto uso marxista della sconfitta come della vittoria per rendere le armi di classe sempre più poderose e invincibili. O, come dice molto meglio Brecht con parole dal sapore attualissimo: «Questo è il consiglio: combattete. / Questa battaglia sarà perduta / e forse anche la prossima battaglia / sarà perduta. Ma voi imparerete a combattere / e sperimenterete / che si riesce soltanto / con la violenza, e se / siete voi stessi ad agire».

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