9.6.18

Mostre. Filadelfia, l’altra Parigi di Monet (Anna Villari)

Claude Monet, Il sentiero riparato

Cinquanta opere tra quelle conservate al Philadelphia Museum of Art sono ora esposte al Palazzo Reale di Milano (fino al 2 settembre, n.d.r.) in una mostra dedicata a Impressionismo e Avanguardie. Non solo un viaggio nella pittura di due secoli, ma un modo originale di essere collezionisti. Perché anche qui finirono le fortune di banchieri e affaristi, magnati dell’acciaio e del petrolio
«Non pensate che gli americani siano dei selvaggi: al contrario, sono meno ignoranti e di vedute più ampie dei nostri collezionisti francesi». Così Paul Durand-Ruel rassicurava il manipolo dei suoi protetti partendo per New York nel 1886. Portava con sé 43 casse di dipinti, oltre 200 opere impressioniste destinate a una mostra che si sarebbe tenuta all’American Art Association e alla National Academy of Design. Opere il cui valore la Francia stava da poco cominciando ad apprezzare, e che al pubblico americano apparvero fresche, interessanti. Ne vendette un buon numero nel giro di poche settimane e, fiducioso, un anno dopo aprì una galleria sulla 5th Avenue. Mercante dall’occhio prodigioso e dai nervi saldi, scopritore del talento di Monet, Pissarro, Degas, Sisley, Renoir, Manet (di cui acquistò in un giorno 23 dipinti, che vendette a prezzi sempre più alti nei decenni successivi), «inventore» dell’Impressionismo prima ancora che questo avesse un nome, una critica, un pubblico, Durand-Ruel avrebbe dichiarato anni dopo: «Senza l’ America sarei stato perduto, rovinato. Grazie agli americani, Monete Re noir hanno potuto sopravvivere».
Ad aprire la strada americana a Durand-Ruel era stata la pittrice Mary Cassatt, che dopo gli studi presso l’Academy of the Fine Arts di Philadelphia si era trasferita a Parigi nel 1874, diventando allieva e amica di Degas e degli Impressionisti, con i quali espose regolarmente. Bella, talentuosa, Mary trasmise il proprio entusiasmo al fratello Alexander, presidente della Pennsylvania Railroad. Alexander cominciò a comprare in Francia tele di Manet, Monet, Degas, che andarono a caratterizzare di uno stile inusitato le sue dimore di Philadelphia. Venne presto imitato da facoltosi concittadini e nacquero così nel giro di pochi decenni e in tutta la Pennsylvania straordinarie collezioni di pittura impressionista prima, di avanguardia subito dopo, come quelle dell’avvocato John G. Johnson, amico dei Cassatt, di Samuel Stockton White III, singolare figura di culturista e amante dell’arte che a Parigi, nel 1901, fece da modello a Rodin per un vigoroso Atleta in bronzo, dell’avvocato Luis Stern, ebreo di Balta ammiratore di Rousseau e legato a Chagall dalla lingua e dalle origini comuni, dei coniugi Arensberg — lui poeta e traduttore della Divina Commedia, lei pianista — folgorati nel 1913 dall’Armory Show di New York.
I nuovi collezionisti, tanto lucidamente tratteggiati nei racconti di Henry James e Edith Wharton, erano magnati dell’acciaio, del petrolio, banchieri e affaristi di Philadelphia come di Chicago, Cleveland, New York, desiderosi di trasformare le proprie case, il proprio stile di vita in una sorta di felice e rinnovata propaggine della vecchia Europa. Scoprirono presto, i collezionisti d’oltreoceano, che per quei pittori tanto scabrosi l’innovazione estetica e tecnica corrispondeva a uno sguardo diverso su un mondo in rapido cambiamento che proprio loro, in quel preciso momento, stavano incarnando. E capirono anche, «bucanieri» di una scintillante e accelerata Gilded Age, che nel mondo dell’arte come in quello degli affari anche quanto appariva ai più oltraggioso e rivoluzionario si sarebbe potuto rivelare un ottimo investimento.
Sono nati così i nuclei di pittura impressionista, postimpressionista e di Avanguardia del Philadelphia Museum of Art, fondato nel 1876, dal 1925 e per trent’anni diretto dall’intraprendente Fiske Kimball e nel 1928 aperto in un maestoso edificio di gusto neoclassico.
Cinquanta di quelle opere sono ora esposte a Milano, a Palazzo Reale, in una mostra curata da Jennifer Thompson, Matthew Affron e Stefano Zuffi, nella quale il percorso per generi e passaggi cruciali — ritratti, paesaggi en plein air e urbani, l’irrompere del colore e della carica espressiva di van Gogh e Gauguin, i poli di Montmartre e Montparnasse, fino alle crisi del primo dopoguerra e ai fermenti surrealisti — si intercala con il racconto delle singole avventure collezionistiche, sobriamente evocate nell’elegante allestimento ideato da Corrado Anselmi.

La Lettura – Corriere della sera, 8 Aprile 2018

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