3.6.18

Non tutti i “fasci” erano fascisti (Bruno Bongiovanni)


La pubblicazione, e la conclusione, del Dizionario del fascismo, curato per Einaudi da Victoria De Grazia e Sergio Luzzatto, ha consentito di ritornare, con un'ampiezza di orizzonti e con una libertà d'intenti un tempo sconosciute, sul fenomeno fascista. Ne hanno già discusso, anche interpellando i curatori, Bruno Gravagnuolo su “l'Unità” e Simonetta Fiori su “la Repubblica”. E poi Enzo Marzo sul “Corriere”. La storiografia si sta del resto laicizzando proprio mentre l'uso politico della storia, nutrito dalla modesta conoscenza dei fatti di chi lo pratica, sembra muoversi tra isterismo, incursioni nella toponomastica e trivialità. Non ci si è proposti per una visita a papà Cervi, vissuto un po' dopo Romolo e Remolo, ma da molti anni già morto?
Ma che vuol dire «fascismo»? Ideologicamente nulla. Un «fascio» è infatti una quantità di cose riunite e legate insieme. Nell'ultimo scorcio dell'800, prestandosi il termine ad evocare l'unità, il fascio divenne, all'interno del lessico politico, sinonimo di «lega», vale a dire di associazione volta a tenere insieme soggetti che si percepivano socialmente o politicamente affini. A Bologna, nel 1883, da parte di esponenti repubblicani e socialisti, fu costituito un effimero «Fascio della democrazia». Vi fu poi Il fascio operaio, giornale vicino al partito operaio italiano. Nel maggio del 1892, in un congresso tenutosi a Palermo, vennero poste le basi per l'organizzazione dei Fasci dei lavoratori, più noti in seguito come Fasci siciliani, movimento di protesta contro il latifondismo. Nel 1899, inoltre, in polemica contro la gestione autoritaria dell'Opera dei Congressi, gruppi di giovani cattolici avevano fondato i Fasci democratici cristiani, incunabolo della prima democrazia cristiana e del popolarismo. Mussolini, nel gennaio 1915, creò gli interventisti Fasci di azione rivoluzionaria. Il significato non era dunque mutato. Né mutò quando, il 23 marzo 1919, vennero costituiti, in piazza San Sepolcro, a Milano, i Fasci italiani di combattimento. Se il termine «fascista», come generico membro di un fascio, era già comparso nel 1897, e poi ripreso nel 1915, il sostantivo «fascismo» emerse, proprio a proposito dei Fasci di combattimento, a partire dal 1919. Mussolini lo utilizzò subito. «Fascismo» e «fascista», tuttavia, al di là di «associazionismo» e «leghismo», e dell'enfasi mussoliniana, non volevano dire nulla.
Per riempire il nulla, venne presto in soccorso la romanità. Si pensi al generico termine «duce». Mussolini era stato così definito una prima volta, e sarcasticamente, nel 1904, ma «duce» era un termine da tempo presente in ambito socialista. Arrivò comunque, provvidenzialmente, e a posteriori, il fascio littorio, simbolo del potere coercitivo degli alti magistrati romani (consoli, questori, dittatori). Si trattava di un fascio di verghe di legno di olmo e di betulla. Era un simbolo repubblicano, fatto però coesistere con la consenziente monarchia. Il fascismo-regime rovistò poi nei Fori imperiali la propria malcerta identità.

“l'Unità”, 25 maggio 2003

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