26.6.18

Grande migrazione e crisi climatica. Quelli senza posto (Guido Viale)


L'articolo che segue è di quasi tre anni fa, scritto alla vigilia di un vertice parigino sul clima, rivelatosi sterile come ce quelli che l'avevano preceduto. E tuttavia i problemi di cui Guido Viale scrive sono – come si vede ogni giorno – attualissimi.
Non ho le competenze e le conoscenze necessarie per capire se Viale sopravvaluti i mutamenti ecologici e climatici che mette alla base della grande migrazione in atto; ma di una cosa sono sicuro: il progressivo arretramento culturale delle classi dirigenti da una parte, il venir meno di un'ipotesi alternativa – di sistema – pe l'organizzazione economica e civile del pianeta, la fuga delle intelligenze e delle competenze critiche di fronte alla complessità dei problemi sono alla base dello scacco che sta subendo la civiltà umana.
Se consideriamo i Trump e, si parva licet, i Salvini le cause della crisi globale in atto e non invece, come sono, una sua disgustosissima manifestazione e un fattore di aggravamento, non arresteremo l'imbarbarimento in atto, cioè l'abbandono del diritto umanitario, la crescita della violenza e della guerra, il ritorno massiccio dell'ignoranza e della superstizione.
La crisi è epocale e globale, le politiche degli Obama o dei Prodi che oggi ci capita di rimpiangere di fronte all'avanzata della stupidità l'hanno se non ignorata, gravemente sottovalutata. Se non si torna a pensare in grande, a progettare e praticare alternative radicali il degrado della condizione umana è inevitabile. L'articolo di Viale – nel quale pure trovo deboli gli eccessi di prudenza e l'ottica riformistica - tenta di farlo e merita perciò di essere letto e discusso. (S.L.L.)
Un volontario registra gli effetti della crisi climatica tra Kenya e Somalia
[…] Oggi l'Europa e l'intero pianeta si trovano di fronte al primo e maggior risvolto sociale dei cambiamenti climatici in corso: il flusso dei profughi. L'Unione europea non sa affrontarlo e cerca di esorcizzarlo con feroci barriere sia fisiche (muri, reticolati, pattugliamenti, corpi armati e campi nei paesi di transito in cui confinare le persone che non vuole accogliere) che burocratiche: la distinzione tra profughi di guerra da accogliere e migranti economici da respingere o rimpatriare.
È una distinzione che cerca di nascondere un'inammissibile verità: sono tutti profughi ambientali, vittime della guerra scatenata dal capitale contro il pianeta e i più fragili dei suoi abitanti di oggi e domani. L'origine ambientale di quei flussi è difficile da riconoscere perché si confonde con i conflitti e i disordini che genera; ma il cambiamento climatico si traduce in una moltiplicazione e acutizzazione di eventi estremi non solo nel mondo fisico, ma anche e soprattutto in quello sociale. Per esempio, in Siria la rivolta contro Assad, trasformata in guerra civile dalla feroce repressione e dall'intervento straniero e, poi, dalla nascita dello stato islamico, era stata determinata da una siccità che aveva costretto più di un milione di contadini ad abbandonare le loro terre per cercare sussistenza in città. Anche molti flussi dall'Africa subsahariana si originano dall'inaridimento dei suoli; processo che si aggiunge al land grabbing (a beneficio di paesi che cercano di garantirsi sia l'autonomia alimentare che una fonte di combustibile per le loro automobili) o con le devastazioni provocate da estrazioni e spill-over di idrocarburi o di altri minerali.
In quei flussi di un'umanità disperata che non ha più un posto al mondo dove stare si manifesta di fatto un aperto conflitto sociale tra vittime e beneficiari dell'economia fossile e delle sue emissioni: un conflitto che è destinato a dominare la nostra epoca, ma che non sappiamo ancora come affrontare. Tra i beneficiari dell'economia fossile non va però incluso chi subisce, si adatta o non si accorge della gravità della situazione, perché non ne è adeguatamente informato o violentemente aggredito, come accade ai profughi, ma solo chi la promuove e ne ricava profitti: cioè l'industria degli idrocarburi e tutte quelle che dagli idrocarburi dipendono.
Come affrontare questo conflitto completamente nuovo? Con chi e come schierarsi e lottare? Il tentativo di fermare quei flussi ai confini dell'Europa non fa che produrre morti, ma si traduce anche in forme sempre più brutali di autoritarismo, militarizzazione e razzismo all'interno dei paesi dell'Unione europea, trasformati in fortezze, e sempre più in rotta l'uno contro l'altro per scaricarsi a vicenda il «peso» di quegli esseri umani. Ma è comunque un obiettivo irrealizzabile, perché i profughi che premono ai confini dell'Europa sono già oggi oltre dieci milioni e continueranno ad aumentare. E sono solo un quinto dei profughi sparpagliati già ora per tutto il pianeta e meno del 4 per cento di quelli previsti al 2050, solo per il previsto innalzamento del livello del mare, senza contare altri fenomeni estremi oggi imprevedibili quanto probabili. Tuttavia, cercare di respingerli non produce solo decine di migliaia di morti, ma anche risentimento, caos e guerre per bande - compresa l'affermazione dello Stato islamico - nei paesi di origine e di transito di quei flussi.
In queste condizioni sarà anche impossibile varare e portare avanti quella conversione ambientale indispensabile per far fronte ai mutamenti climatici in corso; in campo energetico, agricolo, alimentare, edilizio; nella gestione della mobilità, dei rifiuti, del territorio, ecc. Perché la conversione ecologica ha bisogno di pace, di partecipazione popolare, di autonomie locali, cioè di un potere di intervento diffuso in tutta la società; e delle risorse oggi destinate alle armi e alla devastazione dei territori.
Dunque, se respingere quei flussi è impossibile, bisogna attrezzarsi per accoglierli, che vuol dire garantire a tutti i nuovi arrivati inclusione: cioè le condizioni di un inserimento sia sociale che lavorativo. Ma come è possibile prospettare una soluzione del genere in un'Europa che non riesce a uscire dalla crisi, che conta 25 milioni di disoccupati e almeno altrettanti lavoratori scoraggiati? Occorre porre fine alle politiche di austerità e avviare un grande piano europeo di riconversione ecologica in tutti i settori portanti dell'economia. Un piano vero e non fasullo come quello Junker, in grado dicreare in breve tempo milioni di posti di lavoro decenti: sia per i nuovi arrivati che per i cittadini europei messi ai margini dalle politiche di austerità.
Negli anni '50, nel pieno della ricostruzione postbellica che avrebbe dato vita al cosiddetto miracolo economico, l'Europa centrale aveva accolto 20 milioni di profughi e migranti - 10 dai paesi dell'Est europeo e 10 dai paesi del Mediterraneo: Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, da un lato; Turchia, Maghreb, Africa subsahariana, dall'altro - beneficiando del loro apporto, senza il quale l'Europa sarebbe rimasta un'economia stagnante.
Ancora recentemente, prima della crisi del 2008, ma già in pieno clima liberista e restrittivo, l'Europa assorbiva - lo ha rilevato Thomas Piketty - circa un milione di migranti all'anno: un terzo del necessario, peraltro, per compensare di qui al 2050 il suo irreversibile calo demografico (con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di invecchiamento della popolazione). L'allarme sociale odierno per l'invasione dei nuovi "barbari" è solo dovuto alla incompatibilità di quei flussi con la scelta dell'austerità ed è il prodotto di una infame politica di fidelizzazione dell'elettorato fondata sulla paura e alimentata dalle forze al governo: che sono destinate però a venirne travolte da una destra razzista, nazionalista e antieuropea che sa sfruttare molto meglio quelle fobie.
Oltretutto, per restituire alla pace i paesi di origine e di transito dei flussi migratori che stanno investendo l'Europa occorre innanzitutto ricostituire una base sociale che ne sostenga il processo. In potenza, quella base sociale è già qui tra noi. E' la parte più giovane, più intraprendente, in gran parte più istruita delle popolazioni dei paesi di origine dei profughi e dei migranti, unitamente a tutti i loro connazionali già insediati in Europa e alle loro comunità di origine da cui sono stati aiutati a fuggire. Impedire a quei migranti di muoversi, di lavorare, di organizzarsi, di avere dei rapporti decenti con la popolazione vuol dire privarli e privarsi delle condizioni per avviare un vero processo di conversione ecologica sia qui che nei paesi da cui provengono. Sono esseri umani, persone, che considerano l'ingresso in Europa un loro diritto e si sentono già cittadini europei. Cittadini di un'Europa nuova, che rinneghi le sue infamie odierne e includa anche loro e i loro paesi di origine in un'Unione completamente rinnovata.

Caput – Supplemento clima e ambiente de “il manifesto”, Novembre 2015

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