2.1.13

Pechino. Gli ultimi della classe (di Michelangelo Cocco)

Una bella pagina dal “manifesto” dell’agosto 2011. Vi si apprendono molte cose sulla società cinese, sulle sue polarizzazioni economiche, sulle politiche dei governanti del Pcc. Ne è autore Michelangelo Cocco che in un reportage da Pechino racconta delle povertà vecchie e nuove a partire dalla scuola e dalla sanità. Nella scheda che segue l’articolo Cocco dà notizia dei risultati di alcune indagini statiche e sociologiche sui poveri di città e degli “incidenti di massa” (è l’eufemismo che in Cina indica scioperi e manifestazioni). (S.L.L.)
Comincia l'anno scolastico e 14mila scolari di Pechino si ritrovano senza scuole, chiuse con i pretesti più vari. Sono i figli degli emigranti interni, quelli senza hukou, il passaporto dei residenti nella capitale: un esercito di braccia fuggito dalla miseria nera dei campi per cadere nella miseria «normale» della metropoli. Gli schiavi di Pechino e i loro bambini vivono tra i palazzi di venti piani della nuova classe media. Che non li vuole più «Vogliono rispedire i bambini a casa sperando che i loro genitori li seguano. Ma non funzionerà»
Varcare il cancello della «Jing Wei» è un po' come entrare in un'oasi. Tre edifici di mattoni a due piani attorno a un cortile dal pavimento sconnesso con canestri da basket troppo alti per i suoi scolari (da 4 a 14 anni), l'istituto è «nella top 20 delle scuole per migranti», sottolinea Zhang Zhiqiang, dell'organizzazione non governativa «Migrant workers' friend». Ma la Jing Wei è circondata dalle baracche di Lu Cun, un'area della periferia nord-occidentale di Pechino dove migliaia di lavoratori arrivati da Hebei, Henan e altre province della Cina vivono ai margini di strade non asfaltate, tra discariche abusive e miasmi di cumuli d'immondizia in putrefazione.
Gli 800 bambini della Jing Wei l'altro ieri hanno iniziato il semestre dando il benvenuto a decine di nuovi compagni, rimasti nei giorni scorsi senza banco dopo che le autorità avevano decretato la chiusura di 24 scuole private riservate ai figli dei migranti. Agli istituti, che accoglievano 14 mila alunni, sono stati apposti i sigilli perché «sprovvisti di autorizzazione» o con «standard di sicurezza insufficienti». «Una giustificazione poco convincente - puntualizza Zhang -: tra quelli chiusi ce n'erano di attivi da più di dieci anni e alcuni in passato avevano già ottenuto il benestare governativo».
Yang Tuan, preside nel distretto meridionale di Daxing, ha raccontato al “Beijing News” un decennio di inutili tentativi di ricevere la certificazione. Per essere a norma le strutture devono misurare minimo 15mila metri quadrati e avere uno spazio all'aperto di almeno 3.587 metri quadrati, oltre a una pista per lo sport di 200 metri. «Nessuna scuola privata per migranti soddisfa questi criteri» ha concluso Yang.
Pressate dalle proteste di genitori e associazioni, le autorità comunali hanno promesso che «nessuno resterà senza istruzione»: i 14mila senza banco verranno risistemati nelle scuole pubbliche. Ma le ong denunciano che ai parenti viene richiesta una lunga serie di documenti «impossibili» tra cui il permesso di lavoro, di cui loro - ambulanti, auto-impiegati, comunque «irregolari» - sono sprovvisti. Le alternative? Rivolgersi a un'altra privata più lontana da casa (magari legale come la Jing Wei) o spedire i piccoli dai nonni nel paese d'origine, una separazione forzata da mamma e papà alla quale sono già stati costretti decine di migliaia di bambini.
Se in Occidente «privata» è sinonimo di «ricca», a Pechino (e nel resto della Cina) spesso è vero il contrario. La prima scuola per migranti fu fondata nel 1992, a tenere le lezioni - in mezzo ai campi - erano allora gli stessi genitori degli alunni. Oggi nella capitale sono circa 200 gli istituti riservati ai figli di quell'esercito di oltre 200 milioni di persone che costituisce ormai metà della forza lavoro del Paese. Tra questi soltanto 63 hanno ottenuto l'approvazione delle autorità. Sugli altri incombe la minaccia della chiusura o, come accaduto alla «Hongxing Zidi» nel distretto di Haidian e ad altre strutture, della demolizione con i bulldozer.
«Lo Stato dà alla scuola privata 160 yuan all'anno per ogni piccolo migrante iscritto, mentre agli istituti pubblici versa tra i 7.000 e i 14.000 yuan a studente - protesta Zhang -. Gli standard insufficienti con cui motivano le chiusure derivano proprio da questa disparità di trattamento». A mezzogiorno i bambini escono dalle classi e, in fila sotto lo sguardo vigile delle maestre, si dirigono al refettorio. Anche il pasto si paga, 5 yuan al giorno. La retta è di 600 yuan a semestre. E le insegnanti sono tutte neolaureate che si fanno le ossa in attesa di passare alle scuole pubbliche.
Le scuole private per migranti sono figlie dell'hukou, il permesso di residenza permanente da anni oggetto di critiche severe e qualificate, sottoposto a parziali modifiche ma tuttora intatto nelle fondamenta. Introdotto da Mao nel 1958 come strumento di pianificazione economica (per limitare gli spostamenti dalle campagne alle città), l'hukou prevede l'obbligo per ogni cittadino di registrarsi come residente urbano o rurale. Il permesso per una determinata città/villaggio, dà diritto a usufruire soltanto lì dei servizi essenziali quasi gratuitamente. A causa di questo sistema milioni di migranti che da anni lavorano e pagano le tasse nelle metropoli vengono trattati come cittadini di serie B. Secondo l'ufficio centrale di statistica di Pechino, gli abitanti della capitale hanno raggiunto quota 19,6 milioni (+44,5% rispetto al 2000). In questa cifra rientrano 249 mila persone tra 6 e 14 anni che non hanno l'hukou, il 28% del totale degli sprovvisti, un aumento del 19% rispetto al 2000.
Hou, 40 anni, è arrivata a Lu Cun nel 1994 dalla Mongolia interna e ha trovato lavoro in un supermercato. «Facevo la contadina, avevamo un grosso appezzamento - ricorda la donna - coltivato a patate. Cosa mi ha spinto qui? La povertà: il mio stipendio di 2000 yuan al mese (poco più di 200 euro) equivale a otto volte quello che riuscivo a mettere da parte a casa». Il marito fa l'autista e la piccola Zheqing, undici anni, è iscritta alla Jing Wei. Hou assicura che la mancanza dell'hukou per la sua famiglia non rappresenta un grosso problema: «Ad alcuni servizi contribuisce la danwei (unità di lavoro), c'è il supermarket, per le cure ospedaliere lo Stato rimborsa il 60%». Ma la signora giudica ingiusto che «i nostri stipendi sono ancora troppo bassi rispetto a quelli degli altri cittadini».
I migranti sono una presenza costante anche nel cuore di Chaoyang, il quartiere a nord-est di Tiananmen dove vive la maggior parte degli occidentali e i nuovi ricchi pechinesi affollano i negozi delle grandi griffe. Li vedi pedalare lungo i viali alberati mentre trasportano nelle discariche quintali di cartoni affastellati sui loro carretti. O sugli ampi marciapiedi dove a tarda sera servono spiedini e verdure alla griglia. O, operai negli onnipresenti cantieri edili, che entrano ed escono da prefabbricati pieni di letti a castello.
L'artista e attivista Ai Weiwei li ha descritti così sul numero in edicola del settimanale “Newsweek”: «Ogni anno a milioni arrivano a Pechino per fabbricare ponti, strade e case. Ogni anno costruiscono una nuova Pechino delle dimensioni che la città aveva nel 1949. Sono gli schiavi di Pechino. Occupano strutture illegali, che Pechino distruggerà mentre continuerà a espandersi».
La 32enne Qiu è a Lu Cun dal 2003, quando fu licenziata dalla scuola dove insegnava nella città di Hu Lunbeier. Lavora saltuariamente come domestica: «Guadagno quanto guadagnavo il Mongolia, ma qui i prezzi sono molto più alti». È preoccupata per il futuro di Yueyun, sette anni: se, dopo essersi diplomata alla Jing Wei, vorrà entrare alla scuola superiore, gli esami di ammissione dovrà sostenerli obbligatoriamente al paese d'origine e in seguito le sarà impossibile accedere a una buona università. «Lo scorso inverno la bambina si è ammalata tante volte e abbiamo speso oltre 2000 yuan per le sue cure mediche». Yueyun, Qiu e suo marito abitano in una stanza di 9 metri quadrati nella quale hanno fatto stare il letto sul quale dormono tutti assieme, il televisore, il computer, il ventilatore, la scrivania pieghevole per la bambina e un soppalco su cui sono ammassate alla rinfusa tutte le loro povere cose. Doccia, gabinetto e fornelli sono all'esterno, nel vicolo.
Tutt'intorno i palazzoni di 20 piani della nuova classe media, saliti negli ultimi tre anni da 8 mila a 20 yuan al metro quadro. «L'amministrazione spera di attrarre in città un maggior numero di persone istruite. Vogliono rispedire i bambini a casa - riflette Zhang - sperando che i genitori li seguano. Ma non funzionerà: per ogni migrante che tornerà indietro ce n'è uno con le valigie già fatte, pronto a un'esistenza di seconda classe nella metropoli pur di lasciarsi la miseria alle spalle».
Scheda
Nelle  città 50 milioni di «impoveriti». Cova la rabbia.
Da quando, nel 1978, Deng Xiaoping avviò il programma di «riforme e apertura», oltre 400 milioni di cinesi sono stati portati al di sopra della soglia di povertà di 1 dollaro al giorno e l'economia ha fatto registrare tassi di crescita annua superiori al 9%, più di qualsiasi altra potenza mondiale. Con l'urbanizzazione che rappresenta un fenomeno ancora attuale (il paese ha una percentuale di residenti in città ancora modesta rispetto alle nazioni a capitalismo avanzato) l'attenzione degli studiosi e del Partito comunista (Pcc) si sta spostando, almeno in parte, dai poveri nelle campagne a quelli delle città. L'ultimo rapporto dell'Accademia cinese di scienze sociali (Cass) ha gettato una luce inquietante su questa seconda categoria, rilevando che circa 50 milioni di persone nelle metropoli sono «impoverite». Secondo il documento questa cifra non indica individui che vivono in assoluta povertà - come i poveri delle campagne - ma soggetti vittime dell'imperfezione dei programmi di welfare governativo in un paese per certi aspetti ancora in transizione da un'economia pianificata a quella di mercato.
Secondo Song Yingchang, direttore dell'Istituto di studi urbani e ambientali della Cass e autore della ricerca, i «poveri di città» sono classificabili in tre categorie principali: i lavoratori migranti arrivati dalle aree rurali, le persone che hanno perso il lavoro per effetto della transizione economica e i neolaureati che non riescono a trovare un impiego.
In base al 12° Piano quinquennale, tra il 2011 e il 2015 la Cina porterà la sua popolazione urbana dall'attuale 49,7% al 51,5% del totale. I dati di Song mostrano che ogni anno le città accolgono 10 milioni di persone provenienti dalle campagne, l'80% delle quali «impoverite».
Il rapporto scrive che «sebbene ricevano sussidi e formazione professionale dai governi locali, essi sono soggetti a una crescente pressione psicologica e finanziaria, causata dall'allargamento delle differenze economiche e dall'aumento dell'inflazione».
Per quanto riguarda i neolaureati, l'aumento della disoccupazione «li fa sentire come abbandonati in un'era di rapida crescita economica». La ricerca punta l'indice contro le sperequazioni nel campo dell'istruzione, dell'assistenza sanitaria e dell'occupazione, che hanno accentuato le difficoltà dei gruppi sociali che guadagnano meno e stanno causando situazioni allarmanti. Negli ultimi anni, evidenzia il documento, i cittadini nelle fasce di reddito basso hanno partecipato agli «incidenti di massa» «anche quando i motivi che li avevano ispirati non li riguardavano direttamente». Episodi (per «incidenti di massa» s'intende scioperi, manifestazioni violente e altre forme di protesta) «che hanno dato loro la possibilità di esprimere la loro rabbia nei confronti di un sistema dal quale non traggono beneficio».  (Mi. Co.)

“il manifesto”, 31 agosto 2011

Marina Cvetaeva (di Valentina Parisi)

Nell’agosto del 2011, per il settantesimo giorno anniversario della morte per impiccagione a Elabuga di Marina Cvetaeva, “il manifesto” pubblicò un profilo critico della grande poetessa russa (con riferimento a due riedizioni italiane) da cui qui riprendo un ampio stralcio (S.L.L.)
Meglio la dismisura
che la vita così com'è 
La poesia di Marina Cvetaeva sorge sul terreno ambiguo di una duplice insoddisfazione: se, da una parte, l'orizzonte sensibile è percepito costantemente come un limite da superare, dall'altra sin dalle liriche degli anni '10 emerge distintamente il rifiuto di una trascendenza assoluta, l'impossibilità di trovare acquietamento in una visione astratta, disincarnata della realtà. Se la parvenza tangibile delle forme appare alla poetessa moscovita troppo grossolana e spiritualmente immota, se il suo sguardo vorrebbe trafiggere la superficie del mondo per penetrarne l'essenza, d'altro canto nei versi giovanili si avverte lo spavento quasi infantile verso un aldilà percepito come minaccioso e, insieme, irresistibilmente attraente. Già nei versi d'esordio di Album serale (pubblicato nel 1910 a diciassette anni) allo slancio spontaneo verso una pienezza sensuale dell'esistenza fa da contraltare la tentazione - espressa in modo altrettanto irruente - di oltrepassare la soglia della vita, spezzare ogni vincolo terreno in una vertiginosa autocombustione. Una tendenza, quest'ultima, che assunse col tempo una evidente centralità, legandosi alle occorrenze di un percorso esistenziale sempre più rovinoso, che troverà la sua pietra d'inciampo finale nel ritorno in Urss - quasi un suicidio anticipato rispetto al gesto estremo che Cvetaeva consumò a Elabuga, città della Repubblica Tatara dove, sfollata da Mosca in seguito all'aggressione hitleriana, si impiccò il 31 agosto 1941.
Sebbene l'aggettivo «fatale» ricorra con abusata frequenza nelle biografie uscite di recente, è davvero arduo sottrarsi all'impressione che le cose non sarebbero potute andare altrimenti, stante la fascinazione che la «morte verticale» esercitava da sempre sulla poetessa. Una verticalità - quella del corpo esamine appeso a una corda - che significava anzitutto slancio ascensionale contrapposto alla passiva orizzontalità dell'esistenza non trasfigurata dall'arte, e che, nella sua iconografia tragica, rinviava a quello stesso chiodo cui la Cvetaeva nel Poema dell'aria immaginò di agganciare l'incipit della creazione poetica, ovvero frammenti singoli di quel «linguaggio che nega la propria massa e le leggi di gravità» (secondo la formulazione di Iosif Brodskij).
Neppure il sentimento amoroso poteva sottrarsi a questa fuga verso l'alto (o, meglio, «caduta all'insù») e infatti fu sottoposto spesso a dure requisitorie in quanto elemento perturbatore dell'equilibrio precario dell'individuo, nonché indizio per eccellenza del suo radicamento nel mondo fenomenico.
Ultima rappresentante di quella generazione autodissipatasi di poeti di cui già nel 1930 Roman Jakobson aveva evidenziato il ruolo sacrificale, la Cvetaeva seppe rileggere con esiti altissimi archetipi mitici, letterari e folklorici alla luce di quella che Caterina Graziadei ha definito «la sua personale ansia di superamento». A ricordarcelo sono le due opere del periodo parigino con cui l'editoria italiana è andata incontro - finora alquanto timidamente - alla poetessa nel settantesimo anniversario della scomparsa: la tragedia Fedra (1928), già tradotta da Luisa De Nardis nel 1990 e ora riproposta da Marilena Rea per Pacini e Le notti fiorentine, «piccolo trattato sull'impossibilità dell'amore» secondo Serena Vitale che ha rivisto la propria edizione datata 1983 a fronte delle nuove acquisizioni testuali, ripresentandola per Voland con un'ampia introduzione aggiornata... «Ho ideato una Fedra di ossa - non di carne», commentava l'autrice a margine della sua attualizzazione della infelice eroina classica, che nella unione irrealizzabile con il figliastro Ippolito ricerca non il piacere effimero dei sensi, bensì il sonno eterno della morte. Il dramma innescato dall'eccezione alla norma (ossia dall'infrazione del tabù dell'incesto) si trasforma qui nella consueta «tragedia del mancarsi» che separa gli amanti, causata a sua volta dalla conclamata sproporzione tra sogno e veglia, immaginazione e realtà, tensione desiderativa e imperfetto compimento delle proprie aspirazioni.
L'urgenza di affrettare la «caduta all'insù», autoalimentando una passione percepita da subito come distruttiva, riaffiora anche nelle nove lettere inviate nell'estate del 1922 a Abram Visnjak, fondatore della casa editrice Gelikon che a Berlino all'inizio degli anni Venti pubblicò esponenti di rilievo dell'emigrazione… Alla proposta dell'editore di tradurre dal tedesco Le notti fiorentine di Heinrich Heine, la poetessa replicò con un crescendo di insonni notti berlinesi, consumate nel dialogo epistolare a distanza con un interlocutore ampiamente trasfigurato, che ben poco aveva a che vedere col reale Visnjak. E se la ossessione da cui è posseduta Fedra crolla al cospetto della iperbolica misoginia di Ippolito, i fantasmi inseguiti da Marina Cvetaeva nelle sue nove missive (poi autotradotte in francese nel 1933 per un fallito tentativo di pubblicazione) si dilegueranno più prosaicamente di fronte all'eclissarsi di Visnjak, bibliofilo e tranquillo padre di famiglia, interessato più ai manoscritti della poetessa che alle sue dichiarazioni d'amore. L'unica forma di ritorsione che resterà alla Cvetaeva consisterà nell'ostinarsi a non riconoscerlo, quando a distanza di anni lo rivedrà a Parigi a un ballo in maschera. Un'ennesima conferma - se necessario - di come non fosse il vero volto di Visnjak a interessare la poetessa: «È l'anima che si vendica, accecandomi fino a farmi dimenticare i vostri tratti, illuminando quelli reali, che non avrei mai amato».

“il manifesto”, 31/8/2011

Michele Psello. La gran comare di Bisanzio (di Alberto Arbasino)

Due imperatrici sorelle, la più vecchia maritata a un imperatore più giovane autorizzato a tenersi accanto una fidanzata titolare. L' imperatore Romano III che fa un bagno in piscina, ma "i cortigiani presero a pigiargli tutti insieme il collo e così lo tennero a lungo; poi lo lasciarono e uscirono dalla vasca. E sulle acque mosse il corpo asfittico di lui, portato a galla dall'aria rimastagli dentro, fu visto ondeggiare come un sughero impazzito... Poi, in un improvviso conato di vomito, gli fuoriesce dalla bocca un fiotto di materia nerastra e rappresa; al che, dopo altri due o tre rantoli, si diparte da questa vita". L' imperatore Michele IV che quando tiene udienza "ai due lati di lui si drappeggiavano velari di porpora e coloro ai quali era demandato l' incarico di sorvegliarlo e proteggerlo, non appena vedevano ch'egli principiava a torcere un poco l'occhio o ad annuire col capo o a manifestare le altre avvisaglie tipiche del sopraggiungere della crisi, impartito a quanti erano entrati ordine di sgombero immediato, facevano scorrere le cortine e gli prodigavano in privato le debite cure"... E intorno, quei "cerimoniali bizantini" che ci sono forniti in ogni dettaglio dal manuale di Costantino Porfirogenito: i silenziari, gli ostiari, i sacellari, i drongari, i demarchi, i turmarchi, gli eparchi e gli apoeparchi, gli excubiti, i protospatari, i topotereti; e le formule rituali ripetute centinaia di volte fra i Blu e i Verdi, e fra queste la più frequente è "pollà pollà pollà" (cioè tante, tante, tante occasioni fauste). E tutto questo, in un regime che si basa funzionalmente sui pilastri dell'evirazione e dell' accecamento di quasi tutti i propri membri...


Questa Cronografia di Michele Psello (Imperatori di Bisanzio, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, pagg. 464+488, lire 45.000, splendida prefazione erudita di Dario Del Corno) si legge come un reportage sbadato, a perdifiato. Anzi, si ascolta come uno sterminato "commèrage", grazie alla traduzione di Silvia Ronchey, che riproduce le chiacchiere di quella gran comare dell'undicesimo secolo in un vivacissimo italiano contemporaneo dove però nessun termine "moderno" stride per anacronismo. Asino pomposo quando parla di se stesso, vantandosi con un'auto-piaggeria che rasenta la smargiassata - "Quella sapienza che trovai morente, io ravvivai con le mie sole forze", "La maggior parte degli uomini mi onora d' una stima più alta di quanto io per mia intrinseca virtù non meriti", "Era quello il tempo della mia fioritura retorica, e l' eloquenza, più che la nascita, mi rendeva insigne" - Psello risulta un Joseph Mankiewicz da Cleopatra e anche un Eisenstein da Ivan il Terribile quando muove i suoi personaggi fra masse e potere, passando dai campi di battaglia dove si affrontano eserciti esotici ai palazzi cremlineschi dove si tessono le trame in cui trionfano quasi sempre le dame. E dove i meccanismi di successione al trono, fra adozioni e co-optazioni, presentano congegni e colpi di scena da grande feuilleton gotico, mentre giù in piazza ecco i film guitti sulla Rivoluzione francese, con la ghigliottina e le tricoteuses.


Sovrane resistenti, durevoli, per cui la vita comincia a cinquant'anni oppure la vita è sogno, e assistono indistruttibili al passaggio di figure che non appena entrano in luce si mostrano in tutto il loro orrore. L'imperatore viene fatto prigioniero dal re dei Persiani? Questi "conforta il prigioniero, lo fa sedere alla sua tavola, gli concede ogni onore, gli assegna un seguito, ecc.". A Bisanzio, invece, "parve a tutti opportuno lasciare per il momento al suo destino il sovrano, prigioniero o morto che fosse, e fondare il potere su di lei ed i suoi figli". La sua alta posizione a Corte poteva fare di Psello un Saint-Simon. Ne viene fuori invece uno Sternberg, uno Stroheim. "L'imperatrice mi fece convocare, quindi scoppiò in lacrime: "Come potrà lo Stato evitare la catastrofe?". Ed io, che nulla sapevo di quel che stava accadendo, che il nuovo imperatore era alle porte della reggia: "La questione non è delle più semplici", risposi, "ma di quelle che richiedono ponderata riflessione. Oggi domanda, domani ti sarà risposto: tale è il detto". Ed ella, con un lampo di riso: "Rifletti", fece, "su qualcos' altro, perché su questo si è già meditato e deciso. Romano, figlio di Diogene, è stato insignito dell' impero e prescelto sugli altri". Udii ciò e all' istante mi feci di pietra, senza saper che contegno tenere. "Suppongo", dissi, "d'essere anch' io invitato per domani alla cerimonia". E lei: "No, non per domani, caro" mi fece. "Sei invitato per subito"". Ed ecco un' inquadratura da grande cinema muto: "Quanto all' imperatrice, era assolutamente irrefrenabile: scopertasi il capo, s'era diretta a precipizio a un sotterraneo segreto; ed ella era scomparsa, inghiottita in quella tana, ed io ero rimasto in piedi all'imboccatura d'accesso, senza saper che fare né dove andare".


Musicalmente, Psello è vicino alle pratiche di Boulez e di Stockhausen: "Le acclamazioni non si levavano insieme: la prima schiera, con l' ultima battuta, dava il segnale alla successiva, e questa alla seguente, e ciò produceva uno strano effetto di dissonanza. Poi, quando l' ultimo cerchio ebbe levato il suo grido, subito tuonarono tutti insieme all'unisono, quasi assordandoci".


Didatticamente, per gli imperatori giovinetti, i suoi programmi coincidono con quelli del Dams a Bologna: "Libri di varia dottrina, esempi di stile raffinato, aforismi laconici, gnomologi, e poi l' eleganza della composizione, la sfaccettatura del modulo stilistico, il continuo mutare delle figure retoriche, il neologismo, insomma il trattamento artistico della lingua, e prima ancora che tutto questo, l'amore per i contenuti, l'anagoge che nobilita, l' allegoria che trasfigura, e, in breve, gli altri tropi".


Psello ama descrivere e biasimare le ambiguità; le doppiezze, gli inganni, i sotterfugi, le predilezioni insane e le avversioni maniacali - e possibilmente la volubilità scandalosa degli animi - almeno quanto adora discorrere di un' arte retorica nella quale si ravvisa, commosso, quale unico e supremo artefice (qui diventa addirittura secentesco, nel periodare e nell' argomentazione). Ma soprattutto gli piace il disfacimento degli umori e degli organi; e le macchie macabre, i gonfiori abnormi, le tumefazioni, l' idropisia coniugata a pustole, la gotta resa più micidiale dai reumatismi, "i piedi che si ritraggono su se stessi, mentre il ginocchio sporge all' infuori come una sorta di gomito".


Anche con un suo piccolo tòcco "casual" di occultismo e magia: e c' è del Bunuel nel suo gusto delle piaghe purulente in ambienti di fasto oscuro: "La coglie una malattia davvero crudele: essendolesi degradata la funzione defecatoria, l' appetenza fu compromessa ed ella andava sgravandosi per via orale. Poi, colta da diarrea improvvisa, tale che per poco non espulse tutte le viscere, ella fu ridotta allo stremo". "Sua Maestà aveva un animo ilare e giocoso e sempre avrebbe voluto essere ricreato, ma non lo dilettavano né l' armonia dell' organo né il suono dei flauti né una voce intonata né danza né balletto né altro di simile. Se viceversa taluno era per natura balbuziente e non riusciva a parlare in modo corretto o se talaltro ciarlava insulsamente, dando fiato a qualsiasi cosa gli venisse alle labbra, tutto ciò gli procurava un godimento straordinario e insomma il deforme era la sola cosa seriamente in grado di divertirlo".


Gli piacciono anche gli eremiti e gli stiliti. Disapprova, invece, la volgarità: "Presso di noi si è rimossa e disprezzata una così buona norma e i nobili natali non contano nulla: per costume atavico - fu Romolo la prima origine di questa confusione - il senato si è imbastardito e la cittadinanza è data a chiunque la voglia. Davvero, se ne scoprirebbero parecchi da noi, di bifolchi ripuliti; col risultato che spesso ci facciamo comandare dai medesimi che comprammo dai barbari"... "E i più dei Macedoni - popolo cui impudenza e tracotanza non fanno certo difetto, avvezzo più che alla sobrietà militare al baccano della politica di piazza - scendevano da cavallo, si univano in aperti girotondi e improvvisavano a dileggio dell'imperatore stornelli mimati, pestando ritmicamente il suolo col piede a ritmo di musica. Sua Maestà, che tutto ciò in parte vedeva, in parte solo udiva - ed io gli stavo ritto accanto, ora a indignarmi dei loro detti, ora a cercar di confortarlo coi miei - non sapeva che fare, dovendo sopportare oltre agli insulti anche la sconcezza dei gesti".


Loda amabilmente, piuttosto, la signorilità e la finezza. "Se un giorno decideva di far spuntare un boschetto o recintare un giardino o spianare un viale carrozzabile, non faceva solo ciò che aveva in origine deciso, ma anche il resto: prati si ricoprivano di terra, altri prati fatti spuntare venivano recintati, vigne e filari erano sradicati ed altri trapiantati già con le loro frutta. Poniamo che l'imperatore volesse trasformare una nuda landa in un prato lussureggiante: il suo volere era subito fatto realtà". "Ora, se qualcuno non avvertito che il prato era interrotto nel mezzo avanzava spensieratamente per spiccare una mela o una pera, cadeva in acqua, andava a fondo, tornava a galla ed era costretto a nuotare, e tutto ciò era motivo di sollazzo per l'imperatore".

"La Repubblica", 3 novembre 1984

1916, la Battaglia della Somme. Il grande macello (di John Keegan)

Lo storico e scrittore John Keegan
tra i massimi esperti
di storia militare britannica
Il primo giorno della battaglia della Somme fu (e rimane a tutt'oggi) il giorno più sanguinoso nella storia dei conflitti del Regno Unito. L'attacco iniziato alle 7.30 di quel mattino costò infatti ben 20.000 morti e 40.000 feriti. Gli elenchi delle perdite riempirono pagine e pagine dei quotidiani. Per di più, a causa del particolare sistema di reclutamento per gruppi omogenei (il cosiddetto «Pal system») con il quale erano stati formati molti dei reggimenti mandati all'assalto, alcuni quartieri e distretti del nord industriale persero una parte molto rilevante della popolazione maschile in età attiva. Ma le ripercussioni furono molto più ampie. La Somme fu una ferita devastante per l'intera Inghilterra e si fece sentire in ogni angolo del Paese, a tutti i livelli della società. Nella battaglia rimasero uccisi ragazzi dei quartieri più poveri dell'East End di Londra, ma anche il figlio del primo ministro, Raymond Asquith, ufficiale delle Grenadier Guards.

Sfondare la linea
Lo scopo dell'attacco era quello di sfondare la linea delle trincee tedesche nei pressi del centro del fronte occidentale, per ottenere una netta vittoria sulle forze che avevano invaso la Francia. La battaglia aveva inoltre lo scopo di scoraggiare i tedeschi dalla prosecuzione della grande offensiva scatenata contro i francesi a Verdun, allora in pieno svolgimento. L'offensiva della Somme era una tra le diverse offensive che gli alleati avevano concordato di sferrare il dicembre precedente. Infatti, durante la battaglia della Somme, i russi attaccarono in Ucraina (la famosa offensiva di Brusilov) e gli italiani scatenarono l'ennesimo assalto sulla linea del fiume Isonzo. I francesi, tenacemente aggrappati alle difese di Verdun, furono comunque in grado di inviare truppe sufficienti a prendere parte all'offensiva sulla Somme. Il loro contributo fu un attacco a sud del settore britannico, vicino a Peronne, proprio dove le linee tenute dai due eserciti alleati si univano. Nel 1916 il Regno Unito aveva ormai schierato un milione di uomini in Francia estendendo progressivamente la lunghezza del fronte coperto dalle proprie unità. Questo incremento della forza dell'esercito fu reso possibile durante il 1915 dall'invio in Francia dei battaglioni territoriali, poi dalla formazione di nuove divisioni di volontari o «divisioni di Kitchener», così definite dal nome del ministro della guerra britannico che ne aveva fortemente caldeggiato la costituzione. Ai primi di settembre del 1914 Lord Kitchener si era infatti rivolto alla popolazione chiedendo volontari in scaglioni di 100.000 uomini. Nel 1916 i primi cinque di questi scaglioni formarono circa 30 divisioni, che andarono a unirsi alle 10 di regolari e alle 14 dei territoriali.

La promessa di Kitchener
Determinato a raccogliere senza indugio le truppe per il suo «New Army», Lord Kitchener promise che i gruppi di volontari raccolti da una sede di reclutamento sarebbero stati assegnati allo stesso reparto. Il risultato furono quelli che vennero rapidamente definiti dalla stampa come «pal battalion» (battaglioni di amici), spesso formati da uomini di una stessa fabbrica o impresa che decidevano di offrirsi volontari in massa. Per fare un esempio, i quattro battaglioni di Liverpool provenivano principalmente dal personale degli uffici delle grandi compagnie di navigazione transatlantiche, mentre i quattro battaglioni di Manchester provenivano dagli impiegati delle aziende tessili. Altri battaglioni di questo tipo vennero formati dagli abitanti di specifiche cittadine. Il battaglione Accrington Pals, per esempio, formava l'Undicesimo East Lancs; Leeds fu la base di reclutamento del Quindicesimo West Yorkshire e Hull quella del Dodicesimo East Yorkshire (gli Hull Sportsmen). La Trentunesima divisione era composta esclusivamente di «battaglioni di amici», quattro dei quali provenienti da Hull.

Il sacrificio dei tranvieri
Il principio del reclutamento di volontari in comunità ristrette produsse anche il Glasgow Tramways Battalion (il battaglione dei tranvieri di Glasgow) e il Gateshead Commercials, formato dai commessi dei negozi della città scozzese. Il Decimo Lincolns era anche detto Grimsby Chums (i ragazzi di Grimsby). In effetti, ci furono battaglioni di questo tipo reclutati anche a Londra e nel sudest, ma questo tipo di reclutamento fu un fenomeno particolarmente diffuso soprattutto nelle città industriali del nord. Questi battaglioni erano solitamente interamente composti da soldati reclutati nei ceti più bassi della società inglese e quindi non avevano propri ufficiali. Questo portò alla costituzione di reparti che vedevano la stravagante unione di falangi di operai del nord e ufficiali comandanti provenienti dalle più prestigiose scuole private del sud. Peraltro, proprio il comando esercitato nei battaglioni del New Army contribuì a definire il clima sociale del Regno Unito negli anni successivi al conflitto. Molti di quegli ufficiali furono infatti così turbati dalle condizioni di vita testimoniate dai propri soldati provenienti dalla classe operaia da decidere di impegnarsi a favore di importanti riforme politiche e sociali.

Un diluvio di fuoco
I volontari voluti da Kitchener vennero in stragrande maggioranza assegnati a reparti di fanteria, ma l'esercito che attendeva di attaccare sulla Somme il primo luglio del 1916 disponeva anche di una forza di artiglieria davvero imponente. A questa forza era stato assegnato l'ambizioso compito di assicurare il successo dell'offensiva distruggendo le trincee tedesche e i loro occupanti. Una settimana prima dell'inizio dell'offensiva vera e propria venne avviato un bombardamento incessante delle linee nemiche. L'artiglieria scagliò un milione di granate ad alto potenziale sulle linee tedesche. Il bombardamento fu così prolungato e i suoi effetti apparenti furono così sbalorditivi da convincere gli ufficiali a informare i propri reparti, in perfetta buona fede, che l'attraversamento della terra di nessuno sarebbe avvenuto senza incontrare nessuna resistenza dalle linee tedesche.

Previsione sbagliata
La realta' era pero' ben diversa. Il bombardamento aveva in effetti prodotto danni enormi, ma largamente superficiali. I tedeschi avevano avuto a disposizione un anno intero per preparare le proprie difese e avevano scavato rifugi di enormi dimensioni a grande profondità nel sottosuolo calcareo della Somme. Ben protetti da questi rifugi, attesero pazientemente la fine del bombardamento preliminare. Inoltre, il bombardamento fallì anche nel secondo compito cruciale che gli era stato assegnato, ovvero la distruzione delle distese di filo spinato poste a protezione delle trincee tedesche. Per di più, l'artiglieria britannica non riuscì neppure a ridurre al silenzio la sua controparte tedesca. I cannoni tedeschi ancora attivi aprirono il fuoco con risultati devastanti non appena la fanteria britannica iniziò ad attraversare la terra di nessuno. Alle 7.20 del mattino del primo luglio, il lungo bombardamento preliminare terminò, avvisando la fanteria in attesa dell'imminenza dell'ora zero. Alle 7.25, la fanteria lasciò le proprie trincee e uscì allo scoperto nella terra di nessuno. Alle 7.30, al suono dei fischietti degli ufficiali, la fanteria iniziò ad avanzare, oppressa dal peso del proprio equipaggiamento. Molti portavano con sé 30 kg di munizioni, razioni alimentari, utensili per il trinceramento e bobine di filo spinato. Falciati dalle mitragliatrici Non appena i tedeschi videro che le linee di attacco inglesi erano in movimento, si affrettarono a raggiungere i parapetti delle trincee e ad installare in tutta fretta le mitragliatrici. Nei primi minuti, la fanteria britannica che avanzava in lunghe file compatte venne falciata senza pietà dal fuoco nemico. Qua e là, dove il filo spinato era stato abbattuto e le trincee spazzate via, i britannici riuscirono a penetrare nelle linee tedesche e a catturare posizioni e prigionieri. In particolare, si registrarono grossi successi al centro del campo di battaglia, ovvero a nord di Thiepval, proprio dove oggi si trova l'arco del monumento ai caduti di Lutyens. L'avanzata si esaurì solo perché gli uomini che dovevano effettuarla erano morti o così sgomenti dalle perdite subite da non poter avanzare oltre. Alcuni battaglioni avevano semplicemente cessato di esistere.
Entro mezzogiorno l'avanzata si era ormai arrestata quasi ovunque, anche se lo sforzo offensivo si mantenne elevato per l'intera giornata. L'alto comando, che aveva perso contatto con le prime ondate della fanteria non appena queste avevano lasciato le loro trincee, non aveva alcuna idea di quello che era accaduto. Il generale Douglas Haig, comandante della forza di spedizione britannica, era ancora persuaso di poter continuare l'offensiva il giorno seguente. Nessuno all'alto comando aveva la minima idea delle perdite, dato che il numero dei feriti era così elevato che superava la possibilità dei servizi medici di trasportarli nelle retrovie. All'epoca, erano necessari quattro uomini per ogni barella e il viaggio verso la più vicina postazione di pronto soccorso poteva durare diverse ore. Oggi si comincia a considerare che tra i 20 mila morti del primo di luglio molti siano in realtà feriti che spirarono prima di poter essere soccorsi. Gli orrori del primo di luglio misero fine a ogni reale possibilità di vittoria della grande offensiva britannica. Solo nella parte meridionale del campo di battaglia, nel settore dei più esperti francesi, si erano ottenuti reali risultati. Il generale Haig era comunque determinato a proseguire le operazioni e durante il resto di luglio e agosto gettò truppe fresche sul campo di battaglia per tentare di sfondare la tenace resistenza dei tedeschi. Nelle truppe fresche erano inclusi reparti australiani e canadesi. Si registrò una modesta avanzata ma la cosiddetta «fase di attrito» della battaglia non fu ben coordinata. A meta' di settembre, tuttavia, si produsse uno sforzo più mirato che riuscì a conquistare parte delle alture che dominavano il lato orientale del campo di battaglia.

Compaiono i tank
Questo rinnovato sforzo offensivo britannico fu coadiuvato dall'esordio assoluto di una nuova arma: il carro armato. Questi primi modelli di tank erano piuttosto fragili e tendevano a guastarsi sin troppo spesso, ma nelle occasioni in cui si riuscì a conservarne l'efficienza gettarono lo scompiglio tra i difensori tedeschi e consentirono alla fanteria britannica di catturare intere sezioni delle trincee nemiche con perdite comparativamente lievi. Haig non ammise la fine della battaglia della Somme sino alla metà di novembre. Per quella data, i britannici avevano ottenuto una penetrazione di circa 11 chilometri. Questa modesta avanzata era però costata loro circa 420.000 perdite fra morti, feriti e dispersi; i francesi avevano subito perdite per più di 200.000 uomini. E' comunque un errore concludere che la battaglia della Somme sia stata del tutto inutile. I tedeschi persero mezzo milione di uomini e i loro comandanti hanno sempre dichiarato che le perdite subite nella battaglia della Somme produssero danni irreparabili nella macchina militare tedesca. La Somme fu la fine del vecchio esercito tedesco prebellico che da quel momento in poi perse definitivamente ogni residuo vantaggio qualitativo. Oggi il panorama della Somme non porta più alcun segno degli scontri che lo sconvolsero novanta anni fa. I boschi spazzati via dai bombardamenti ora sono nuovamente rigogliosi e le linee delle trincee sono coperte da un lussureggiante manto erboso. La regione ha interamente recuperato la sua straordinaria bellezza paesaggistica e la produttività dei suoi campi. Il solo segno esteriore della battaglia, oltre alle dozzine di camposanti, è il fatto che nessun edificio della zona è precedente al 1920.

“La Stampa”, 1-7-2006

Cambiare si può. Appello ad Ingroia (S.L.L.)

Sono un potenziale elettore della lista promossa dal magistrato Ingroia di cui ammiro il coraggio e il rigore.
Non mi spiace affatto l’idea di una opposizione plurale che contenga in sé la lotta dei lavoratori per diritti e redditi, la difesa dello stato sociale e dell’ambiente, la coerenza nella lotta alle mafie, la resistenza e la controffensiva nei confronti di un capitalismo finanziario mondializzato mafioso nei metodi, contiguo e consustanziale alle mafie. Mi è però molto dispiaciuta la personalizzazione leaderistica degli ultimi giorni.
La legge elettorale vigente (il cosiddetto porcellum) prevede che le liste o le coalizioni di liste che si presentano al giudizio degli elettori abbiano un programma di governo? Lo si rediga e lo si diffonda, sobrio e misurato. La legge prevede che esse liste e/o coalizioni si diano un leader che le coordina, che garantisce sulle persone che le compongono e sull’attuazione dei programmi? Ingroia va benissimo per quel ruolo. E’ tuttavia giunto il tempo di mettere fine alle manomissioni della Costituzione ed agli eccessi leaderistici e carismatici. Ad oggi l’Italia è e resta una repubblica parlamentare: non è prevista alcuna elezione diretta del primo ministro o del presidente del Consiglio dei ministri. L’indicazione che partiti e liste possono dare (o non dare) sul capo di governo che proporranno ad elezioni vinte non significa che ci sia un “candidato premier”: ci si candida a deputato o a senatore; il cosiddetto “premier” viene scelto dal Presidente della Repubblica e deve poi ottenere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento.
Che Ingroia sia indicato come “candidato premier” non mi pare solo manifestazione di sciatteria istituzionale, ma anche di subalternità rispetto al “berlusconismo”, alla sciagurata idea dell’uomo-solo-al-comando. Bisogna mettere fine all’idea di un “capo” che decide in solitudine le cose più importanti, di un “demiurgo” in grado di mettere le cose a posto; e anche alla fiaba dipietrista (e non solo) del “cavaliere senza macchia e senza paura” che combatte contro il malvagio “Cavaliere nero”.
Questa candidatura a premier ricorda peraltro il racconto esopico della rana che si gonfiò fino a scoppiare. Se il leader di una lista che deve ancora guadagnarsi il quorum assume una prosopopea da capo del governo, fa sbellicare dalle risate l’intera popolazione, compresi i suoi potenziali elettori. E’ forse vero che fino a qualche tempo fa la “gente” voleva eleggere il governo e non accettava proposte elettorali che non fossero di governo, ma la crisi ha mutato lo scenario. Esiste nella sinistra diffusa una maggiore consapevolezza che le nostre culture politiche, oggi in netta minoranza per errori anche recenti, non possono mutare di colpo rapporti di forza consolidati; e non mancano (le elezioni siciliane lo hanno dimostrato ampiamente) cospicui gruppi di elettori decisi a esprimere un voto di “opposizione”. Questo paese sopporta già troppo “governo”, internazionale e nazionale, e molti, a sinistra, giustamente auspicano che ci sia “meno governo e più opposizione”: un’opposizione duttile, sociale e politica, capace di giocare sulle contraddizioni degli avversari e strappare risultati utili per il popolo lavoratore, ma opposizione.
Questi erano e restano i miei dubbi. Ieri – per sovrappiù – m’è giunta notizia di una sorta di consultazione attraverso la rete. A maggioranza i sostenitori della lista proposta da Ingroia chiederebbero la presenza tra i candidati da eleggere col “porcellum” dei segretari dei partiti disposti ad appoggiarla, non so bene se solo segretari nazionali o anche regionali. Le liste insomma, oltre a godere della presenza dei tre ex ministri (Di Pietro, Ferrero e Diliberto), pullulerebbero di piccoli e piccolissimi carrieristi allevati in piccoli e piccolissimi apparati. Nelle file di Rifondazione ci sono anche funzionari generosi e sottopagati che hanno scelto quel mestiere per dedizione alla causa e non per velleità elettorali o perché “è sempre meglio che disoccupati”: sono tra i primi a riconoscere che il comunismo non si rifonda in Comune e neppure in Parlamento, ma “in basso a sinistra” e che oggi è necessario puntare su un altro tipo di rappresentanza.
Bersani & Monti intanto ringraziano: anche stavolta potrebbero avere un parlamento senza oppositori di sinistra. Infatti, la proposta di liste assai simili a quelle dell’Arcobaleno del 2008 avrà forse il consenso maggioritario (orientato dalle decine di assessori, consiglieri,  attaché, consulenti e clienti di cui i minipartiti tuttora dispongono) tra gli elettori telematici già decisi a votare la nuova proposta elettorale, ma scoraggerà gli altri potenziali elettori di una lista di cambiamento.
So che personalizzazione e carrierismo sono duri a morire, ma Ingroia farebbe bene a mettersi a capo di una bella lista di sinistra con prestigiosi candidati tutti estranei alle carriere politiche, lavoratori e sindacalisti, tecnici, intellettuali, figure dei movimenti e del volontariato di sinistra, ecc..
Dottor Ingroia, se vuole garantire una forte rappresentanza parlamentare all’antimafia vera e alla sinistra d’opposizione, azzeri ogni velleità di premierato e cancelli l’esito di questo sciagurato consulto telematico. Se ciò non accadesse, in tanti non avremo chi votare e il quorum non si farà.

Salvatore Lo Leggio

Umbria. Quei maiali della camorra ("micropolis" - decembre 2012)

Il prestanome con la pistola
Sparata nelle locandine e nei titoli di prima pagina dei quotidiani regionali il 19 dicembre la notizia è che l’Umbria è diventata terra di camorra.
In realtà si tratta del sequestro di due aziende agricole tra Bettona e il Trasimeno e di un altro immobile, per il valore complessivo di circa un milione di euro, che fanno capo a tal Biagio Ciccone, da Nola, cognato del boss ergastolano, Fabbrocino. Robetta, insomma. L’intervento in Umbria, oltre tutto, si compie all’interno di una inchiesta della Divisione investigativa antimafia di Napoli che ha disposto sequestri per 112 milioni: l’“operazione Fulcro”. Quello umbro è in sostanza un rivoletto di quell’inchiesta.
“Il Messaggero”, nelle sue pagine locali, il giorno dopo titola: Camorra, spuntano le armi. Chi si aspetta di trovare notizia di traffici di armi con basi in Umbria resta assolutamente deluso. Uno dei prestanome delle aziende, tal Tittillo, nel 1997 è stato fermato per detenzione illegale di una pistola, una sola pistola, nel comune di Bastia, ove risiede anche Ciccone. Il Tittillo in una didascalia è definito “boss” e si fa presente che il fermo avvenne a due mesi dal terremoto. Chiamare boss un prestanome con la pistola ci pare francamente troppo e tutto l’arrampicarsi sugli specchi non riesce a nascondere che si tratta di una operazione di routine.
Motivi di inquietudine tuttavia non ne mancano. Dal “Corriere dell’Umbria” per esempio apprendiamo che una delle due aziende sequestrate, la Goga di Magione, nel 2004 tentò di sottrarre all’abbattimento forzato 2500 suini infetti da grave patologia che vennero in parte rintracciati mentre venivano trasferiti in Campania, a farne salsicce probabilmente. Come mai l’allevamento è sequestrato solo adesso?
Più in generale. Acchiappare i prestanome con la pistola e sequestrare i beni a loro intestati è necessario e lodevole, ma senza dimenticare i processi di finanziarizzazione delle mafie, senza ignorare gli intrecci tra legale e illegale, tra infiltrati e umbri di cui ci sono molte tracce in molti campi. Quello dei rifiuti e del loro trattamento per esempio.

Dalla rubrica Il fatto

1.1.13

Perugia. Gangsterismo municipale ("micropolis" - dicembre 2012)

Il sindaco di Perugia Wladimiro Boccali
Mercoledì 19, il “corrierino” (il "Corriere dell'Umbria", n.d.r.) inizia il colorito resoconto della conferenza di fine d’anno del sindaco di Perugia con due battute di Boccali: “L’Imu? Una pistola puntata alla tempia dei comuni?”; “Il federalismo demaniale? Un bluff”.
Il linguaggio ricorda i vecchi film della saga di Al Capone, ove i gangster tra nuvole di fumo e armati di tutto punto si sfidavano al poker. Il cronista, più avanti, aggiungerà che Boccali si è presentato con il “coltello tra i denti”. Non si è fatto mancare niente.

Dalla rubrica Il Piccasorci

Cucinelli. L'imprenditore filosofo ("micropolis" - dicembre 2012)

Brunello Cucinelli con Matteo Renzi
Raggiante per la vittoria di Renzi al primo turno delle primarie umbre, il re del cachemire Brunello Cucinelli, con la consueta modestia ha negato la possibilità di entrare in politica. Lo ha fatto citando Socrate: “a ciascuno il suo mestiere”. Ma quale è il mestiere di Cucinelli? Imprenditore, mecenate o commentatore politico? Certo, non storico della filosofia. Come racconta Platone nella Apologia, infatti, Socrate andava in giro interrogando gli ateniesi, mostrando loro che la conoscenza del loro “mestiere” non era sufficiente a fondare un vero sapere e quindi a costruire una polis giusta. Per questo Socrate si attirò parecchie antipatie. A ser Brunello converrebbe citare un’altra sentenza, questa sì autenticamente socratica: so di non sapere.

Dalla rubrica Il piccasorci

Monicelli (di Aldo Colonna)

Il ricordo intenso di un regista, di un comunista, di un grand’uomo. Ne è autore un giornalista di spettacolo che gli fece da assistente e gli fu molto vicino negli ultimi anni per il progetto (non realizzato) di un libro-intervista. Colonna è autore di un bel volume su Luigi Tenco e di un sapido catechismo anticlericale. (S.L.L.)
Un giorno dei tanti accompagnai Mario in farmacia, prima di fare i soliti due passi. Camminava a scatti, con le movenze proprie di una marionetta retta da fili, a causa delle fratture multiple riportate anni prima in un rovinoso incidente d'auto e in quello domestico occorso successivamente. Attraversando via dei Serpenti all'improvviso sopraggiunse una macchina a velocità sostenuta ed io mi parai a sua difesa gridandogli di fare attenzione. Non aveva realizzato subito il pericolo incombente o forse pensò che stessi gridando per altro e mi chiese che cosa stesse succedendo. Alla mia risposta quasi mi rimproverò: «E sai quanto me frega se m'accoppano, 'o sai quant'anni ciò?». E in farmacia continuò a guardarmi, sorridendo,come si guarda uno sprovveduto.
Ricordi di un altro giorno. Lo conoscevo da oltre vent'anni e lo frequentavo assiduamente da almeno tre per via di una biografia alla quale si faceva fatica a dare un titolo. Spesso,a settimane fitte di incontri, ne succedevano altre senza mai sentirci. Per i miei impegni, per le sue partenze. E un giorno abbracciò con entusiasmo quasi infantile, raro in un uomo per le generali misurato, la mia proposta: «Una biografia per conversazioni continuamente interrotte». Ad incontri densi di dialogo fitto seguivano altri improntati a insofferenza allorché lo chiamavo per fissare l'incontro successivo: «Tu m'enteroghi sempre come 'noracolo ma sai tutto de me, che cerchi ancora?».
Apprezzava molto la puntualità: detestava il ritardo come l'anticipo. Quando ha fatto il salto, al di là
del dolore,non ho provato meraviglia. Me l'aveva detto chiaramente, quando affrontammo il tema della extrema aetas, che l'avrebbe fatto se si fosse trovato nella condizione di dipendere dagli altri. Sei vecchio, mimava, e allora tutti ti dicono di metterti seduto, mettiti seduto che ci pensiamo noi, e ti portano la tisana, e poi il brodino, e tu ci muori in quella poltrona. Se devo vivere attaccato alle flebo, ripeteva, con una mano caritatevole che ti pulisce il culo, allora il suicidio diventa un'opzione ragionevole.
E invece quanta gente blatera senza sapere. «Era stato lasciato solo dai suoi amici, abbandonato e disperato» squittisce la Binetti e le fa eco con più misura Eugenia Roccella: «Noi non possiamo sapere il grado di disperazione che lo ha spinto ad uccidersi». Se, con un po' più di umiltà, queste persone si fossero prese la briga di scandagliare la quotidianità di Mario, si sarebbero (forse) rese conto di quanto fosse amato, e circondato di premure e di attenzioni. Non ho mai conosciuto, soprattutto a quell'età, una persona così ricca di amicizie e di rapporti sociali.
Mario non conosceva disperazione, ed il salto è stato la conseguenza di una riflessione lucida. E comparare poi il suo gesto con quello del padre, pensare che quello sia stato in qualche modo propedeutico al suo è da imbecilli. Tomaso, giornalista, scrittore, sceneggiatore, regista, uomo geniale, era stato costretto all'inazione dalla canaglia fascista che gli impedì di continuare a scrivere, a lavorare, a vivere. Tutt'altra storia.
Mario era un uomo allegro, ilare, ironico. Quando gli dicevo che Manuel De Oliveira aveva un vero
e proprio tariffario per le interviste (gratis comunque ogni chiacchierata al di sotto dei cinque minuti...), lui cominciava a guardarmi in tralice, appena sorrideva e poi - lo aspettavo - diceva che con me sarebbe diventato miliardario. Un giorno lo convinsi a farsi fotografare, per la copertina del libro, travestito da Buster Keaton, il suo attore preferito. In fondo sarebbe bastato un cappello adeguato, un soprabito sovrammisura, la benda da ciechi e il gioco era fatto. No, no, si accalorava, bisogna fare le cose per bene. Vai da Tosi, lui è uno bravo, gli spieghi che ci serve e poi ci pensa lui. E allora, dopo alcuni abboccamenti falliti, incontrai Tosi al Centro Sperimentale: disse che si sarebbe messo subito al lavoro. Quando ci rincontrammo per fare il punto, Piero Tosi sembrava contrariato: Monicelli non ne sapeva niente, non aveva intenzione di travestirsi da nessuno. Quando sentii Mario la risposta fu laconica e quasi stizzita:«Ma che se mettemo a fa'...».
L'episodio della segreteria telefonica è esilarante. Mario si vantava di non possedere né un cellulare né un computer né il fax né la segreteria telefonica. Aveva solo il telefono e all'ora delle telefonate, solitamente le 19, il suo apparecchio era solitamente ingolfato. Si lamentava spesso di alcune telefonate ricorrenti (una sedicente poetessa che lo subissava da tempo con i suoi versi, uno studente universitario che gli chiedeva consiglio sull'indirizzo da prendere) che lo infastidivano. Gli consigliai allora di camuffare la voce, di renderla nei limiti del possibile metallica e di mimare il messaggio tipico di una segreteria. Lo scherzo riuscì e l'interlocutore (la poetessa) lasciò puntualmente il suo messaggio tra i lazzi di Mario.
Ero stato testimone dell'insorgere del male, anni fa, allorché cominciò ad interrompere all'improvviso le conversazioni per esigenze idrauliche. Ne era contrariato e un giorno mi si piazzò di fronte tormentando il labbro inferiore con la mano e interrogandomi risoluto: «Ma te, come pisci?».
Molta gente scrive e parla senza sapere. Penso, fra i tanti, a Ruggero Guarini che ha lamentato, testuale, l'assenza di «umiltà di riconoscere che siamo dipendenti da forze superiori a noi. E lo si vede nella sicurezza con cui scodellano giudizi così tronfi, fino ad arrivare a quel grottesco 'elogio' del suicidio del povero Monicelli. È un'idolatria demenziale quella che spinge a sdottoreggiare così», per poi avvitarsi in un icastico «credo che oggi non ci sia nulla di più rozzo e superstizioso del sentimento del fatuo, spensierato orgoglio che contraddistingue il laicismo italiano».
Mi dispiace, Mariù, hai sbagliato tutto e noi non abbiamo capito un cazzo. E allora, se me lo consenti (in fondo, sono o non sono stato uno dei tuoi tanti assistenti?), dirigo io: STOOOP!!! Tutto sbagliato Mario, torna su che ne facciamo un'altra.
Mi vien fatto di pensare a quelli che scrivono sempre del regista toscano perché «come si sa, Monicelli è nato a Viareggio». Mario era invece romano, nato al 56 di via della Croce, in un palazzetto d'epoca severo d'angolo con via del Corso. Al 56 la casa dove nacque, al 39 Cesaretto, all'81 Otello alla Concordia, quasi un destino. In una sorta di transfert schizofrenico Mario s'era imposto di far credere che Viareggio gli aveva dato i natali perché Viareggio costituiva, da sempre, la sua Madeleine, l'adolescenza spensierata, la passeggiata a mare percorsa una volta con un maialino al guinzaglio per attirare l'attenzione delle ragazze, la sua natura di dragueur.
Mi disse, più di una volta, che sulla sua tomba avrebbe voluto questo epitaffio: «Muoiono solo gli stronzi». Cercavo di spiegare questo a Ben Gazzara che rimane forse l'ultimo ricordo comune quando l'estate scorsa avevamo deciso di vederci da me, lui, Mario e Paolo Bonacelli. Erano tutti contenti della rimpatriata, poi Ben non trovò il tempo (trovò più rilassanti i bagni del Salento, ho saputo dopo) e Mario se ne andò pure lui al mare. Chiusa parentesi.
L'ho sentito cinque giorni prima che se ne andasse. Volevo portargli una foto del padre che avevo reperito in una biblioteca del Piemonte. Lui sorrise emi disse: «Ormai...» e fu il suo commiato.
Mario era un uomo elegante. L'immagine che perdura è quella di un uomo seduto in poltrona con le gambe accavallate, con ai piedi delle vezzose babbucce di feltro color bianco sporco, che sottolinea ogni concetto con il roteare nell'aria della mano destra e, ogniqualvolta un concetto va rimarcato, ecco le dita della mano aprirsi come l'inizio di un shangai-game. Non avrei mai pensato che l'assenza di una persona potesse essere così assordante.
È arduo, se non impossibile, sapere cosa passa nella mente di un uomo alla resa dei conti. Io mi picco di sapere a cosa pensasse Mario mentre scavalcava l'inferriata del balcone: forse a Manuel De Oliveira («morammazzato», come diceva qualche volta scherzevole) e, mentre volava, che non sarebbe più stato «l'ultimo regista morente». Quando mi capita di passare sotto casa sua, in via dei Serpenti, guardo in su e saluto con l'indice e il medio che partono dalla fronte verso il vuoto, come un militare, proprio come lui salutava me con la porta aperta in attesa che avessi percorso tutte le scale.

“alias” 3 settembre 2011

Il Merda, il Sozio e lo sbarco in Inghilterra. Un inedito di Gadda (Niccolò Scaffai)

Da sinistra Benito Mussolini e Adolf Hitler,
il Merda e il Sozio di Carlo Emilio Gadda
«Ogni sviluppo reale o possibile ha un germe: e la mia inclinazione all’indagine ha forse un movente morale-biologico». Il brano è l’incipit di uno degli Abbozzi per temi di tesi di laurea conservati nell’Archivio Roscioni presso la Biblioteca Trivulziana, arca di preziosi ‘scartafacci’ gaddiani. Di quegli abbozzi e di molti altri materiali dà conto il regesto di Barbara Colli, che chiude l’ultimo numero de “I Quaderni dell’Ingegnere Testi e studi gaddiani”, 2 (2011), nuova serie, Fondazione Pietro Bembo-Ugo Guanda Editore (pp. 332, euro 24,00). La rivista, oggi diretta da Clelia Martignoni che riceve l’eredità del fondatore Dante Isella, è approdata l’anno scorso alla sua terza sponda editoriale: dapprima Ricciardi, poi Einaudi e adesso la Fondazione Bembo (per i tipi di Guanda). Del progetto di Isella, i «Quaderni» conservano l’idea di far seguire agli inediti dello scrittore gli studi, gli spogli bibliografici e le ricognizioni di archivio; ne risulta l’immagine di un cantiere aperto, o di work in progress, fedele tanto al modus operandi di Gadda quanto a uno dei princìpi della filologia d’autore: mettere al centro non il valore assoluto, ma la dinamica materiale che a esso conduce.
Il «germe» del reale e l’approssimazione al valore sono due concetti che si richiamano l’un l’altro nei «Quaderni». Prendiamo ad esempio Sbarchi in Inghilterra, un sorprendente articolo gaddiano riportato alla luce e qui presentato da Claudio Vela. Commissionato a Gadda nel ’40, per la rivista «La Lettura» di Piovene, il pezzo doveva parlare di invasioni delle isole britanniche, avvenute o progettate nel corso dei secoli. Il classico excursus storico giornalistico concepito in vista di un evento creduto imminente: lo sbarco – così annota Gadda sulla busta in cui aveva conservato l’articolo – «fasullo e stronzo del Merda (cioè Mussolini, n.d.r.) e del Sozio (cioè Hitler, n.d.r.) sulle coste della Gran Bretagna».
Sennonché, i redattori di «Lettura» si videro recapitare, invece del pezzo concordato, un lungo e dotto saggio di taglio etnolinguistico, naturalmente irricevibile. A riprova che a Gadda interessavano le radici spesso tortuose dei fatti, più che la dimensione contingente della notizia.
A quest’attitudine dello scrittore corrisponde l’impegno nei sondaggi stratigrafici profuso dai suoi interpreti: oltre agli Sbarchi, il fascicolo 2011 include tra l’altro il Quaderno di Buenos Aires, scritto tra il 1923 e il 1924 durante e dopo il soggiorno in Argentina; e le Lettere ad Antonio Semenza (1916-1917). Se il primo contiene materiali implicati con l’incompiuto Racconto italiano, le seconde forniscono una testimonianza parallela e quasi un controcanto rispetto al Giornale di guerra e di prigionia. Eventi raccontati nel Giornale con disforica intensità, nelle lettere sono infatti liquidati con tutt’altra baldanza.
Questo da un lato mostra quanto Gadda volesse apparire forte agli occhi di Semenza, per lui quasi un «doppio» paterno (così Andrea Silvestri nella nota); dall’altro conferma e contrario l’impegno analitico e già letterario di cui Gadda dava prova nel Giornale.

“alias”, 22 ottobre 2011

Il fantasma della nonna. Un libro su fotografia e letteratura (di Massimo Raffaeli)

La più grande sciagura del ventesimo secolo: così, con la consueta efferatezza, Thomas Bernhard definisce la fotografia nel suo romanzo terminale Estinzione (1986).
Ma è solo l’ultimo e più paradossale esito di un rapporto, quello fra la parola scritta e l’immagine fotografata, che proprio al culmine della civiltà audiovisiva, sembra approdare a una drastica risoluzione ovvero a un’ambigua convivenza che nulla faceva sospettare agli albori della tecnica fotografica, meno di due secoli fa, quando le foto di alcuni dilettanti di genio, per esempio Giovanni Verga o Emile Zola, potevano apparire ai lettori sia il palinsesto sia il materiale preparatorio di una narrativa fondata sul principio naturalistico della verosimiglianza, anzi della aderenza obiettiva e impassibile alla realtà: da noi, la prima riedizione postbellica di Conversazione in Sicilia (’41) era ancora accompagnata (non si dica necessariamente illustrata) da una mirabile sequenza fotografica, nel set di Aci Trezza, a firma di quel Luigi Crocenzi che proprio Elio Vittorini, in piena stagione neorealista, aveva avviato al foto racconto sulle colonne di «Politecnico».
Il senso comune appare oggi rovesciato. Grandi opere della cosiddetta postmodernità non rifiutano né la tematizzazione dell’immaginario fotografico né l’apporto di singole fotografie ma, viceversa, tendono a incorporarle nel testo quali indici di incertezza, di labilità o di una vera e propria, sia pure involontaria, contraffazione, perché qui le immagini, nella loro invadenza come nella nudità ammutolita, testimoniano di uno scacco percettivo e dunque di una sostanziale impotenza cognitiva: che vengano mostrate o semplicemente richiamate con l’antica tecnica dell’ekphrasis, esse fungono da presenze enigmatiche, assillanti, chiedono di essere interpretate e tuttavia rifuggono da un senso che possa dirsi appagante, compiuto, come nel caso di W o il ricordo dell’infanzia (’75) di Georges Perec, di Dora Bruder (’97) di Patrick Modiano e di Austerlitz (’01) di Winfried G. Sebald, tre notevoli esempi, fra i molti altri evocabili, del fatto che l’immagine non assolve la parola dalla sua ambiguità ma, al contrario, la reduplica e virtualmente la sanziona. Non è nemmeno un caso che Perec, Modiano, Sebald vedano bruciare, con la propria parola, ogni specie di vestigia fotografiche e documentarie al cospetto di Auschwitz, cioè il tabù e insieme il massimo costrutto della verità secolare: se, disse un filosofo, là davanti è impossibile la poesia, costoro suggeriscono che altrettanto lo è la fotografia, pari a ogni altro medium espressivo. E infatti, a proposito del W di Perec, l’inchiesta allegorica di chi ebbe entrambi i genitori inghiottiti dalla guerra e dall’universo concentrazionario, viene rilevato: «Perec trae dall’esame di quelle foto considerazioni sempre insicure, ambigue, basate sull’interferenza dei racconti di altri, delle letture, delle immagini che popolano la nostra memoria, dai quadri nei musei ai libri illustrati, ai giornali ai fumetti; insomma consapevolmente false».
Sono parole poste quasi in conclusione dell’ultimo bellissimo studio di Remo Ceserani, L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, «Nuova Cultura», pp. 389), un libro che se da un lato colma un vuoto, metabolizzando e riordinando un’intera galassia di studi (e basterebbero i nomi di Walter Benjamin, Gisèle Freund, Roland Barthes, Susan Sontag, John Berger), dall’altro fornisce un esempio di che cosa significhi, sul serio, occuparsi di letteratura comparata, la stessa che Goethe presagiva nel concetto di Weltliteratur. (Qui viene in mente il motto di un maestro dello studioso già docente a Bologna e Stanford University, il quale deprecava
che i comparatisti passassero tutto il tempo a parlare di comparatistica esimendosi, di fatto, dalla pratica della comparazione. Questo libro ne è la più solenne smentita, come innanzitutto testimoniano le cento pagine fra bibliografia, accuratissima, e indice dei nomi nonché la piena confidenza con le maggiori lingue e letterature occidentali. Che poi l’oggetto di indagine sia il rapporto secolare fra la parola letteraria e l’immagine fotografica – come, per altra via, letteratura e rivoluzione dei trasporti in Treni di carta. L’immaginario in ferrovia, 2002 – , ciò denota l’attitudine ermeneutica di chi è comparatista due volte, indagando non solo i nessi fra lingua e lingua ma tra linguaggio e linguaggio). Diviso in cinque capitoli raccordati dall’interno, L’occhio della Medusa scandisce per cronologia alcuni temi essenziali: la figura del fotografo come personaggio, la fenomenologia letteraria del ritratto fotografico, l’utilizzo della foto quale promemoria o reliquia autobiografica, la forma e il destino della foto di gruppo (familiare e sociale), infine il ri-uso della foto nella produzione letteraria strettamente contemporanea.
In altri termini, l’universo fotografico è studiato alla stregua di un grande campo metaforico la cui dinamica accompagna l’evoluzione e lo statuto conflittuale della modernità. Prima il naturalismo con le sue propaggini novecentesche (Hawthorne, Henry James, Thomas Mann), poi l’età delle avanguardie o del modernismo radicale, cioè l’epoca dell’utilizzo antinaturalista e inventivo della foto (primi fra tutti Apollinaire e Luigi Pirandello, alla cui produzione novellistica, disseminata di fotografie, Ceserani dedica passaggi penetranti), da ultimo la condizione postmoderna, laddove il compasso si apre non solo alle opere degli autori citati in precedenza ma a testi di Claude Simon, Grass, Calvino, Cortázar, Tabucchi, Ondaatje e specialmente di Michel Tournier, uno scrittore-fotografo divenuto col tempo fotografo-scrittore, forse colui che più di ogni altro, in tempi recenti, ha indagato il rapporto fra il segno alfabetico e fotografico con implicazioni esistenziali/intellettuali così profonde da rischiare il depotenziamento della sua stessa parola letteraria. (Se un rilievo si può avanzare al lavoro di Remo Ceserani è, semmai, di avere preventivamente escluso dal proprio dominio la grande letteratura di reportage e l’uso deliberatamente politico dell’estetica fotografica, da Bertolt Brecht a Kurt Tukholsky, per non andare troppo lontani).
Nume dell’Occhio della Medusa è comunque Marcel Proust, le cui pagine sono utilizzate tanto alla stregua di un deposito teorico quanto di un test itinerante. Costui, nel terzo volume della Recherche, a un certo punto evoca il fantasma della nonna, amatissima, e racconta il crudele paradosso di averla una volta sentita più viva al telefono che non dal vivo, dal vero, aggiungendo di essere perciò andato a trovarla di sorpresa. Ne descrive l’agghiacciante risultato: «Dime – per l’effimero privilegio grazie al quale, nel breve istante del ritorno, ci è dato d’assistere improvvisamente alla nostra stessa assenza – non era presente che il testimone, l’osservatore, l’estraneo in cappello e soprabito da viaggio, colui che non è di casa, il fotografo venuto a ritrarre luoghi che non vedremo mai più. E ciò che, meccanicamente, si formò ai miei occhi quando vidi la nonna, fu appunto una fotografia». Se vogliamo, è un Thomas Bernhard in anticipo di almeno sessant’anni, ma è anche il suo antidoto.
In questa ricerca, che è anche un enorme repertorio comparatistico, Ceserani interroga l’universo fotografico quale campo metaforico della modernità, che ha modificato lo statuto della Letteratura: dal naturalismo con le sue propaggini novecentesche a un fotografo-scrittore postmoderno come Tournier

“alias”, 17 settembre 2011

Carlo De Angelis, socialista e franco narratore (S.L.L. - da "micropolis" dicembre 2012)

Carlo De Angelis
Carlo De Angelis è morto improvvisamente nel maggio scorso, tornando a Perugia da Roma, ove nel suo ruolo di presidente dei revisori dei conti aveva partecipato alla riunione del Consiglio della Federazione italiana del pugilato, lo sport che fu tra le più grandi passioni della sua vita. Pare che la sua frase di commiato fosse: “Sono arrivato tardi e vado via presto”.
Orgogliosamente folignate, viveva a Perugia ormai da diversi decenni. Vi aveva lavorato come funzionario al Provveditorato agli Studi e poi alla Regione e vi aveva praticato un’altra sua passione, il socialismo. Commentando la politica degli ultimi anni soleva dire: “Per ideologia e temperamento sono un socialdemocratico, ma mi trovo costretto a votare Rifondazione con l’impressione che sia un po’ di destra”.
Colto e curioso di molte cose, era affabulatore affascinante e dalla sua felicità di narratore orale era forse derivata la scelta di scrivere e pubblicare “gialli”, racconti brevi su alcuni giornali regionali e poi, dal 2004, volumetti nella misura classica del genere, le cento pagine necessarie a un viaggio in treno da Perugia a Roma. Si definiva un “non scrittore”, giacché non amava le alchimie della scrittura, piuttosto un “franco narratore”, visto che scriveva senz’altra regola che quella di divertirsi. I suoi gialli, pubblicati dalle Edizioni Era Nuova, sono generalmente ambientati nella provincia e nella città di Perugia (così Intrigo a Foligno, La tunisina, Tre pistole tre), in uno (Il torero italiano) c’è una missione in Spagna del suo detective, il commissario Corsi, bravo poliziotto ma senza doti eccezionali, belloccio e ragionatore. La scelta di una scrittura secca e di una narrazione rapida riduce lo spazio per le digressioni, ma la generosità di De Angelis sparge qua e là notizie di cose che sa e ama e trasmette indirettamente una lettura e una interpretazione tutt’altro che banale dello spazio umbro e dei suoi cambiamenti. Ricordano quelli di Sciascia i finali di De Angelis, ove lo scioglimento dell’enigma e la scoperta del colpevole non rappresentano mai tutta la “verità” che resta incerta e inafferrabile.  
Il 17 dicembre, alla sala della Partecipazione di Palazzo Cesaroni, si è parlato dei suoi libri e della sua persona, del suo civismo malamente celato da una maschera di cinismo, del fascino dei racconti orali e scritti, del suo socialismo umanitario, insieme aperto e rigoroso. C’erano a parlare di De Angelis, tra un pubblico molto vario, Franco Bozzi, Ivano Frascarelli, Silvana Sonno, Franco Falcinelli, che è presidente della Federazione Italiana Pugilato, e c’era Valter Corelli a leggere alcuni suoi brani. Si presentavano due suoi libri postumi: un nuovo poliziesco ambientato nel Palazzo della Regione Umbria, il Broletto, luogo simbolo del potere politico a Perugia, e una sorta di spy-story,  che racconta di una banda armata dell’estrema sinistra negli anni di piombo, rappresentata dal punto di vista di coloro che combattevano (e spesso usavano) i “sovversivi”.

In Grecia (S.L.L. - Stato di fb 31/XII/2012)

Mi dice il medico generico che in Grecia da domani l'assistenza sanitaria pubblica non copre più il cancro e l'AIDS. Risparmio doppio. Sulla sanità e sulle pensioni. E qualche introito anticipato: sui morti grava anche lì qualche tassa.

Notte di San Silvestro. La morte di un sarto (di Louis Pauwels)



Mio padre morì nel 1948, senza aver mai smesso di credere nella natura creatrice, senza aver mai smesso di amare e penetrare col suo amore il mondo doloroso in cui viveva, senza aver mai cessato di sperare che avrebbe visto risplendere la luce dietro le pesanti masse di materia. Apparteneva alla generazione dei socialisti romantici che avevano i loro idoli in Victor Hugo, in Romain Rolland, in Jean Jaurés, portavano grandi cappelli, e conservavano un piccolo fiore blu nelle pieghe della bandiera rossa. Al confine tra la mistica pura e l'azione sociale, mio padre, attaccato più di quattordici ore al giorno al suo tavolo di lavoro - vivevamo sull'orlo della miseria - conciliava un ardente sindacalismo con la ricerca della liberazione interiore. Nei gesti rapidi e umili del suo mestiere, aveva introdotto un metodo di concentrazione e di purificazione spirituale su cui ha lasciato centinaia di pagine. Facendo occhielli, stirando stoffe, irradiava la sua personalità. Il giovedì e la domenica i miei compagni si riunivano intorno al suo tavolo, per ascoltarlo e per sentire la sua forte personalità, e la maggior parte di essi ne ebbero la vita cambiata.
Pieno di fiducia nel progresso e nella scienza, credeva nell'avvento del proletariato e si era costruito una potente filosofia. Aveva avuto una specie di illuminazione leggendo l'opera di Flammarion sulla preistoria. Poi, guidato dalla sua passione, aveva letto opere di paleontologia, di astronomia, di fisica. Senza preparazione, aveva tuttavia penetrato profondamente gli argomenti…
Egli pensava che l'evoluzione non si confonde col trasformismo, ma che essa è integrale e ascendente, che accresce la densità psichica del nostro pianeta e lo prepara a prendere contatto con le intelligenze degli altri mondi, ad avvicinarsi all'anima stessa del cosmo. Per lui la specie umana non aveva ancora raggiunto la sua compiutezza. Essa progrediva verso uno stato di supercoscienza, attraverso l'innalzarsi della vita collettiva e la lenta creazione di uno psichismo unanime. Diceva che l'uomo non è ancora compiuto e salvo, ma che le leggi di condensazione dell'energia creatrice ci permettono di alimentare, su scala cosmica, una formidabile speranza. E non perdeva di vista questa speranza. Da quel piano egli giudicava con serenità e dinamismo religioso le cose di questo mondo, andando a cercare molto lontano, molto in alto un ottimismo e un coraggio immediatamente e realmente utilizzabili. Nel 1948 la guerra era appena terminata, e già rinascevano minacce di battaglie, e questa volta atomiche. E tuttavia egli considerava le inquietudini e i dolori presenti come le negative di un'immagine magnifica. Vi era un filo che lo collegava al destino spirituale della Terra, ed egli proiettava, sull'epoca di oppressione in cui compiva la sua vita di lavoratore, nonostante immense pene intime, molta fiducia e molto amore.
Morì nelle mie braccia, la notte del 31 dicembre e, prima di chiudere gli occhi, mi disse: «Non bisogna contare troppo su Dio, ma forse Dio conta su di noi...».

Da Il mattino dei maghi, Oscar Mondadori 1979

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