“Sono nata il ventuno a
primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle /
potesse scatenar tempesta”, ecco la poesia di Alda Merini (Milano
1931-2009), con la quale abbiamo cominciato a fare i conti. Difficile
orientarsi nella sua opera che dagli anni novanta si è arricchita di
decine di pubblicazioni, edizioni fuori commercio, varianti e inediti
destinati ad amici o semplici conoscenti. Nel 2010 è uscito per
Mondadori un volume di più di mille pagine dal titolo Il suono
dell’ombra, a cura di Ambrogio Borsani, che raccoglie le sue
opere in versi e prosa più significative dal 1953 al 2009, ma ancora
oggi a dieci anni dalla morte il caso Merini resta aperto. Nonostante
abbia avuto autorevoli estimatori fin dalle prime prove poetiche:
Spagnoletti, Montale e Quasimodo che la pubblicarono, Romanò,
Pasolini, Betocchi, Turoldo, Manganelli, Corti e Raboni che ne
parlarono, la sua collocazione negli studi del secondo Novecento
resta marginale, mentre continua l’apprezzamento dei lettori verso
la sua poesia in un susseguirsi di recital, reading, pièce teatrali,
pubblicazioni. Tra le più recenti segnalo la ristampa di una intensa
e libera ricognizione del suo lavoro per disegni di Silvia Rocchi, Ci
sono notti che non accadono mai: canto a fumetti per Alda Merini (pp.
124, € 18, BeccoGiallo, Padova 2019).
Cresciuta in un ambiente
familiare modesto, gli anni della guerra passati alla scuola di
avviamento al lavoro, senza studi regolari (fu respinta agli esami di
ammissione al liceo), visitata giovanissima dalla poesia e dalla
follia (primo ricovero a Villa Turro nel 1947), nessuna appartenenza
a correnti poetiche, semmai tangente all’orfismo, fuori da ogni
canone letterario, forgiata dalla relazione con Manganelli e
dall’amicizia con Maria Corti, a lungo internata in manicomio,
sottoposta a ripetuti elettroshock, due matrimoni (Ettore Carniti e
Michele Pierri), quattro figlie, riemersa alla scrittura dopo la
reclusione e guadagnata negli ultimi anni la popolarità: tutto
questo ne ha fatto un’icona pop, un’Anne Sexton nazionale,
un’araba fenice, con il rischio di soffocare e ridurre in
mitografia la grandezza della sua poesia.
“In me l’anima c’era
della meretrice / della santa della sanguinaria e dell’ipocrita”,
eppure è impossibile sfuggire del tutto al fascino dell’invenzione
del suo mito che salda i suoi versi nella biografia e il racconto
biografico nel teatro. Lei, responsabile e consapevole creatrice di
quel teatro, teatro come menzogna, come porto sicuro nella
ripetizione, come luogo dove tutto dura e ritorna. Si divertiva
davanti all’obiettivo fotografico, lo corteggiava, e, quando saliva
sul palcoscenico, sapeva coinvolgere e commuovere il pubblico, teneva
in pugno la platea declamando i suoi versi. La lunga consuetudine al
dolore e all’internamento era stata la sua scuola. Al manicomio era
sopravvissuta grazie alla poesia.
Dagli anni novanta ho
pubblicato, e in alcuni casi curato, alcuni suoi libri di prose
poetiche (La pazza della porta accanto, a cura di Guido Spaini
e Chicca Gagliardo, Bompiani, 1995; la ristampa de L’altra
verità, Rizzoli, 1997), di aforismi (Aforismi e magie,
Rizzoli, 1999) e di poesie (La volpe e il sipario, Rizzoli,
2004). Complici Vanni Scheiwiller, Guido Spaini e Maria Corti
nacquero una frequentazione e un’amicizia. Nel mio archivio sono
conservate in alcune scatole numerose sue carte dalla calligrafia
illeggibile e poesie scritte a macchina (Alda usava la macchina con
il nastro consumato e batteva sul primo foglio che restava bianco
mentre sugli altri la carta carbone imprimeva i caratteri dei suoi
versi); poi decine di piccoli libretti stampati a mano con gusto
d’artista da Alberto Casiraghi. Qua e là sugli scaffali della mia
libreria ci sono fotografie, tra cui alcuni nudi di Giuliano
Grittini, la foto che ci ritrae con Raffaele La Capria al Premio
Procida-Elsa Morante dove l’accompagnai nel 1997, un ritratto di
Enrico Baj.
Alda golosa di ravioli e
di dolci, sempre con la sigaretta accesa in mano, con indosso
qualcosa di vistoso, un fiore rosso, una grossa collana, degli
orecchini sgargianti, un anello con pietra, una borsa colorata. Alda
che compra quello che le piace in duplice copia, spesso per farne
dono: due ombrelli a pois, due delfini di peluche, due spille di
strass, due poster di Nanni Moretti o di Charlie Chaplin. Alda nella
sua casa sui Navigli disordinata e invasa dagli oggetti, dalle
fotografie, con il pavimento cosparso di monete, di sigarette, avanzi
di cibo, e con i muri che fanno da rubrica telefonica scritta con il
rossetto. Alda con il letto disfatto e il ventilatore sempre in
funzione, con le lenzuola segnate dalla cenere delle sigarette, il
cassettone aperto e il crocifisso. Alda al telefono che detta le sue
poesie, che chiama in cerca di compagnia, che racconta di Vanni, di
Maria Corti, dell’amore per Manganelli, per Titano, che suona al
pianoforte l’Ave Maria di Schubert. Alda su e giù per Ripa
Ticinese, da Charlie dove incontrava le persone con la benedizione
del grosso alano, al Libraccio dove era di casa, nei negozietti che
frequentava, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio
dove si era sposata la prima volta. Ai ritratti degli ultimi anni si
sono aggiunte le fotografie delle sue mani scattate da Grittini
durante un ricovero all’ospedale San Paolo di Milano. Si vedono
solo le mani, lo smalto rosso, la stampella, le lenzuola, le bende,
l’anello, la sigaretta, una sciarpa di seta: “O mano bianca sede
di mille studiati argomenti / dove l’amore germoglia in gergo di
puro pensiero” (La magia delle mani, La Vita Felice, 2007).
Il filo rosso del suo
laboratorio paranoico attraversa la sua opera fin dall’inizio, la
nutre di un eccezionale sistema metaforico che lavora su opposti
inconciliabili (luce e tenebra, eros e misticismo, cristianesimo e
paganesimo), ingredienti da sempre indispensabili nella costruzione
delle sue poesie. Poesia naturale ed epifanica, dove le letture
sedimentano e riemergono in stato di grazia per allucinazioni, per
illuminazioni, per strappi. Poesia bruciata su un’adolescenza
protratta dei sentimenti, di quel sentire che segna gli anni
giovanili e li condanna alla cognizione del dolore, del limite del
desiderio, del perimetro carcerario della realtà in cui i sogni si
ribaltano e si disfano: “L’adolescenza, periodo mitico e
burrascoso, è sempre alla ricerca disperata di un vertice (di un
verso) che la possa oltraggiare e al tempo stesso difendere” (Nota
dell’autrice a La presenza di Orfeo). Poesia “eroica”,
in lotta con il destino e che sublima la tragedia in canto, il mito
in profezia.
Ma al fondo, quella di
Merini, è nuda poesia d’amore, ogni suo verso si accende nel
tentativo di affermare sull’angoscia, sulla sofferenza, sulla
follia, la forza dirompente del dirsi e dell’amare. Inferno e
felicità coesistono in una miscela esplosiva. Tutto si trasforma e
assume i caratteri del mito, si trasfigura, esce dall’ordinario e
cresce a dismisura, lambisce il sublime e ritorna al passo svelto e
comune della vita. Come un ictus, il verso ferisce, si increspa e poi
si distende.
Cancellata dalla memoria
letteraria per i ripetuti ricoveri in manicomio (1965-1978), Alda
Merini non ha mai tradito la poesia nonostante gli affronti del
destino. La sua produzione è scandita in due tempi: prima e dopo
l’internamento. Alla prima fase, dopo l’esordio a sedici anni,
appartengono La presenza di Orfeo (Schwarz, 1953), Nozze
romane (Schwarz, 1955), Paura di Dio (All’insegna del
pesce d’oro, 1955) e Tu sei Pietro (All’insegna del pesce
d’oro, 1962). Poi vent’anni di silenzio editoriale fino al 1982
quando su sollecitazione e cura di Maria Corti compaiono sulla
rivista “Il cavallo di Troia”, diretta da Paolo Mauri, alcune
parti della Terra Santa che solo nel 1984 troveranno un
editore disposto alla pubblicazione. La Terra Santa
(Scheiwiller, 1984) è il punto di non ritorno, l’acme dell’opera
di Merini che si struttura intorno al tema della terra
promessa-manicomio: “Manicomio è parola assai più grande / delle
oscure voragini del sogno”, “Affori, paese lontano / immerso
nell’immondezza, / qui si conoscono travi / e chiavistelli e
domande / e tante tante paure”, “Ho conosciuto Gerico, / ho avuto
anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura
di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti”,
“Il mio primo trafugamento di madre / avvenne in una notte d’estate
/ quando un pazzo mi prese / e mi adagiò sopra l’erba / e mi fece
concepire un figlio”.
La propensione verso il
prosimetro, segno antico della vocazione al comunicare, dà vita a
testi in prosa, o a testi misti, a cominciare dal capostipite-gemello
della Terra Santa: L’altra verità. Diario di una diversa
(Scheiwiller, 1986), “una ricognizione, per epifanie, deliri,
nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni” dell’esperienza del
manicomio (Giorgio Manganelli): “Ma il giorno che ci apersero i
cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende, che
potemmo finalmente inebriarci del loro destino di fiori, oh, fu
quello il tempo in cui tutte le nostre inquietudini segrete
disparvero, perché finalmente eravamo vicini a Dio, e la nostra
sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata fiore essa
stessa”.
La spinta all’oralità
e un’ispirazione che si fa esercizio quotidiano affidato alla
disponibilità di amici-scrivani mutano la consistenza della sua
poesia in favore di un dettato sbilanciato verso la prosa, tramato di
una maggiore immediatezza e leggibilità. Allo stesso tempo quello
che appare come un alleggerimento, una sorta di felice cantabilità,
in un’inattesa torsione si fa variazione, approfondimento
dell’intonazione, pulizia della voce. Poesia e prosa, nel
convivere, accentuano i contrasti del suo versificare, una poesia
scissa tra la tensione al canto e la tentazione del racconto, tra un
verso perfetto e l’imperfezione tutta moderna e necessaria della
prosa. Lo strazio sta nell’inconciliabilità dei due modi. La
poesia che, minacciata da se stessa, si uccide con il proprio veleno.
Alcuni testi poetici
degli anni ottanta saranno raccolti in una nuova edizione arricchita
Terra Santa 1980-1987 (Destinati a morire, Le satire
della Ripa, Le rime petrose, Fogli bianchi,
Scheiwiller, 1996) e in Vuoto d’amore (Einaudi, 1991), a
cura di Maria Corti, mentre l’antologia Fiore di poesia
1951-1997 (Einaudi, 1998), sempre a sua cura, fa il punto sul
lavoro di Merini in una introduzione che resta a oggi un testo
critico di riferimento.
Gli ultimi dieci anni,
all’insegna di una maggiore comunicabilità, sono costellati di
sempre nuove pubblicazioni, tra cui segnalerei quelle che, uscite per
Einaudi, garantiscono un maggiore controllo nella selezione dei
testi, dopo Ballate non pagate (1995): Superba è la notte
(2000) e Clinica dell’abbandono (2004), mentre per l’editore
Frassinelli escono a cura di Arnoldo Mosca Mondadori alcune raccolte
di poesie religiose (poi in Mistica d’amore, Frassinelli,
2008), di cui una scelta si può leggere in Il carnevale della
croce (Einaudi, 2009).
Cosa resta oggi della
poesia di Alda Merini, al netto dei detrattori e delle pesanti scorie
di una difficile biografia di donna? La materia incandescente e
urticante, assoluta, intatta e senza tempo, fatta di vertici e
cadute, dei suoi versi, in mai esausta attitudine al canto, all’amore
per la vita, al riscatto di un’anima indocile legata naturalmente
alla poesia come al proprio respiro: “O poesia, non venirmi
addosso, / sei come una montagna pesante, / mi schiacci come un
moscerino”.
L'Indice, 31 luglio 2019
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