Questo è l’intervento
che Mario Luzi inviò alle giornate di studio di Siena su dieci
inverni senza Fortini 1994-2004,
pubblicato su “l'Unità”. (S.L.L.)
Franco Fortini |
Cari amici e compagni di
vita e di studio, se ripenso a Franco Lattes che poi la sacrosanta
cautela attingendo, credo, alla nomenclatura domestica mutò in
Franco Fortini, lo rivedo nel punto in cui primamente lo conobbi,
cioè sulla soglia della cattedrale di Volterra nella quale io
entravo mentre lui ne usciva. Ci furono saluti disinvolti, ma seri,
non proprio goliardici. Già in quegli anni giovanili aveva assunto o
meglio aveva manifestato una connaturale intrinseca aria di
antagonista.
Mario Luzi |
Non ci frequentavamo né
regolarmente, né spesso. Affacciandoci più o meno negli stessi anni
al paese letterario, era andato a collocarsi in un gruppo di giovani
il cui orator era Giacomo Noventa: una piccola pattuglia
prossima, ma attestatasi come rampogna vivente, al simultaneo
«tertuliare» degli scrittori già noti o in erba intorno a
Bonsanti, a Leria, Montale, Gadda, eccetera. Era evidente in loro un
disagio morale e civile, mi rimaneva confusa invece la loro implicita
velleità.
Credo che non ci fosse
miglior lettore delle cose che scrivevamo per le distinte riviste -
La riforma letteraria lui, e Letteratura io, poniamo -
di quanto lo fossimo reciprocamente noi due.
Devo a lui le più acute
analisi, specialmente formali. La sua conoscenza della retorica era
agguerrita, la sua sensibilità viva e dunque era un piacere
ascoltarlo o leggerlo. Sapeva davvero apprezzare i pregi fattuali di
un testo e spesso cogliendo i movimenti interni. Questo fece più
volte con me, mai però lo trovai disposto a mandarmela buona tutta
quanta. Una parte difettiva incombeva sul suo consenso: ed era sua e
mia, certo, ma difficile a definirsi e a circoscriversi.
Tralascio qui le
differenze «politiche». Non era così sciocco, come non lo era
Pasolini con il quale collaborò in un certo periodo, da credere che
l’introversione ermetica, se vogliamo così chiamarla, fosse
indolore e indifferente ai traumi della storia. Tuttavia su questo
lato della vicenda pesava un turbamento di umore, una difficile
stonatura. Fortini era tutt’altro che chiuso o negato alla
interiorizzazione perfino capillare del mondo, lasciava del resto
affiorare con un tocco di struggimento il suo incontro con la realtà
non realistica ma primaria e in fieri come accadeva ai poeti da lui
prediletti, però con una sorta di dispetto da antagonista anche di
se stesso. C’era in Franco qualcosa contro di lui.
Proprio in questa nube di
malo umore ci siamo scambiati qualche battuta non velenosa ma
asprigna. La amicizia e la attenzione non sono mai venuti meno,
avevamo alla lunga bisogno di quella differenza. Ne ha poi dato
ragione egli stesso nella ultima raccolta di versi. C’è voluta
tutta una vita di vittorie effimere e di recriminazioni e abbandoni
nel campo del magistero e del confronto ideologico per arrivare a
Composita Solvantur dove appunto sembra siano medicate le sue
lacerazioni. Talora a ritroso mi chiedo in questi anni catastrofici:
«Infine, qual era la materia del contendere?». Credo, Franco, che
possiamo sorriderne.
l'Unità, 14 ottobre 2004
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